Molte
persone si domandano quale sia il tempo esatto della durata della
vita.
C’è
chi dice che si può vivere fino agli ottant’anni, altri fino a
cinquanta. Addirittura c’è chi dice che si possa vivere oltre i cento
anni,
come Abramo, Mosè, Noè.
I
più pessimisti, invece, dicono che la vita sia talmente breve da poter finire in qualsiasi momento, anche a
vent’anni, nel pieno della giovinezza e della fierezza fisica.
E,
poi, ci sono io. Religioso fin dentro alle ossa, amante della musica
in tutti i suoi aspetti e costantemente impegnato nella mia passione,
nonché anche
mio lavoro, ho sempre pensato che la vita fosse bella così come si
presentasse
e che bisognasse viverla al meglio, sempre con il sorriso e la
positività.
Ma,
quando ti ritrovi davanti ad uno di quegli eventi che cambiano
completamente il tuo mondo, quello che credevi veritiero ma che di
veritiero
non aveva nulla, allora inizi a farti delle domande, ad apprezzare di
più ogni
attimo che ti capita di vivere, ogni persona che incontri sul tuo
cammino.
Ogni
persona e ogni gesto d’amore che ella può donarti, anche se questo
fosse l’ultimo.
Mi
ritrovai a stringere i pugni contro quel gelido vetro che avevo
sotto le mani, lo stesso vetro che mi stava mostrando gli ultimi attimi
di un’anima
che, come ultimo gesto della sua vita, aveva fatto una cosa che, molto
probabilmente, sarebbe stata la sua fonte di salvezza dopo la morte.
Eppure,
non potevo fare a meno di continuare a chiedermi il perché.
Perché
aveva agito a quel modo?
Perché
aveva deciso di salvare proprio me, sacrificandosi?
E,
per l’ennesima volta, la risposta non volle arrivare. Era un enigma
destinato a rimanere irrisolto.
I
miei occhi, posati sulla figura all’interno della stanza, si
riempirono di nuovo di lacrime, le stesse lacrime che avevo versato
ormai per
ore, le stesse lacrime che avrei versato forse per sempre.
Le
stesse lacrime che avevano scavato un canyon deserto nel mio cuore
addolorato.
Mi
lasciai andare contro quel vetro trasparente, non avevo più forze,
non avevo più nessuna positività da donare a nessuno, in quel momento.
Ero
secco, prosciugato da quella fitta che continuava a propagarsi dal
petto fino all’intero corpo.
Mi
sentivo esausto… e distrutto dentro.
Frantumato.
Demolito.
Raso
al suolo.
-Dovresti
riposare un po’-
Una
voce calda e accogliente, profonda, mi accarezzò l’udito,
accompagnata dalla stretta di una mano che si posò delicatamente sulla
mia
spalla.
-Va
bene così- risposi, cercando di fare un sorriso, seppur forzato,
alla figura che mi si presentò davanti, appena mi voltai. Era elegante
come
sempre, era la stessa persona che vedevo tutti i giorni da ormai sette
anni.
Eppure, vi era qualcosa di diverso nel suo viso, ora tirato in una
smorfia di
tristezza, come se anche lui fosse stato toccato così tanto da tutto
quello che
era avvenuto quel giorno.
Un
giorno maledetto.
Seung
Hyun sospirò. –Le ho donato un po’ del mio sangue, i medici hanno
detto che c’era il bisogno urgente di una trasfusione- mi informò,
ricevendo in
risposta un mio cenno, assente, simile a quello di un robot.
-Bae…
l’unica cosa che possiamo fare è aspettare- aggiunse, cercando di
consolarmi un po’.
Sorrisi,
un sorriso che di felice però non aveva nulla.
Solo
amarezza. Un’amarezza che nasceva dall’impotenza di non poter fare
nulla.
Di
non poter cambiare le cose, anche se lo volevo con tutto me stesso.
-Seung
Hyun- lo chiamai per nome, alzando lo sguardo ormai divenuto
serio ma sempre spento.
-Lei
è lì per colpa mia… perché, se fossi stato attento, se avessi
avuto maggiore considerazione di quello che mi stava accadendo intorno…-
Non
riuscii a continuare perché la voce mi si spezzò, facendomi
stringere di nuovo i pugni con tutta la forza che avevo in corpo.
E
iniziai a singhiozzare, forte, lasciandomi completamente andare
quando due braccia familiari mi strinsero e il profumo del mio migliore
amico
mi invase le narici.
Quel
petto così piccolo, in quel momento, mi sembrò così accogliente e
caldo e sfogai lì tutte le mie lacrime, il mio dolore e la mia angoscia.
-Shh,
tranquillo… sono sicuro che tutto si sistemerà- lo sentii
sussurrare contro il mio orecchio, per consolarmi ma non mi sfuggirono
quelle
sue calde lacrime che mi stavano bagnando i capelli e la pelle del
viso, contro
il quale era poggiata la sua guancia.
Ji
Yong stava soffrendo, contagiato dalla mia tristezza e da ogni mia
emozione, stroncato dal dolore di vedere il suo migliore amico
addolorato a quel
modo quando, per me, aveva sempre voluto solo il meglio.
-Ho
paura Ji…- confessai, approfittando della forza apparente di quelle
braccia per sfrontare tutta la mia fragilità, tenuta dentro per troppi
anni.
Quanti i pianti che avevo trattenuto, quanta la tristezza che avevo
celato
dietro i sorrisi quelle volte che mi capitavano delle brutte giornate.
Eppure,
restava tutto insignificante quando, improvvisamente, si
metteva in mezzo la morte.
Perché
tutto era rimediabile ma la morte era irreversibile, in
qualunque momento.
Non
esisteva tempo nella morte.
Un
attimo prima c’era il mondo, la luce… un attimo dopo, le tenebre e
un mondo da cui nessuno poteva più fare ritorno.
E
lei era lì… stesa su quel lettino ma con l’anima divisa tra i due
mondi.
Altre
lacrime fecero capolino nel momento in cui mi ritrovai a pensare
che, se mai ci avesse lasciato quel giorno, sarebbe volata direttamente
in
cielo, fra gli angeli, come era giusto che fosse.
Perché,
per una persona che aveva fatto un gesto del genere, l’unico
posto che poteva spettarle di diritto era quello di un angelo, con
tanto di ali
bianche e sorriso luminoso.
-Non
piangere hyung…-
Altre
braccia si unirono a quelle del mio leader e SeungRi e Daesung mi
strinsero a loro volta, donandomi tutto il calore di cui avevo bisogno
in quel
momento.
Sapere
di non essere solo… un po’ mi confortava.
-Andrà
tutto bene. Andrà tutto-
SeungRi
si bloccò di colpo.
Un
suono.
Un
suono, lungo ed interminabile, penetrò nella mia mente, facendomi
voltare
di scatto verso la comitiva di dottori che fecero il loro ingresso
nella
stanza, accerchiando velocemente il letto.
-Il
battito cardiaco è a zero… la stiamo perdendo!- urlò un’infermiera
al dottore che ordinò di prendere il defibrillatore e di metterlo in
funzione.
-Uno,
due, tre!- urlò mentre le infermiere procedevano alla
rianimazione.
Ma
io non fermai a vedere il resto.
Mi
liberai di tutte quelle braccia, ignorando completamente le urla dei
miei compagni. Erano suoni ovattati, indistinti, che mi raggiunsero a
stento
mentre camminavo a ritroso lungo quel corridoio bianco.
Non
c’era più nulla da fare ormai, lo sapevo. Ero inerme, senza forze,
un robot che trascinava le gambe come in una scena al rallentatore.
Lo
sguardo perso nel vuoto, le mani penzoloni… e, ancora, quelle
lacrime che iniziarono a scendere appena caddi sulle ginocchia e i
flash dell’incidente
si fecero spazio, nitidi più che mai, nella mia mente.
-Bae, ti piace quella maglietta?-
Ji Yong mi stava facendo segno di
osservare la vetrina e quella che lui riteneva una bella maglietta, una
decisamente del suo stile ma che di mio non aveva proprio nulla.
-Credo che ti starebbe bene-
commentai, sorridendo. Ji Yong aveva dei gusti strani e particolari ma
alla
fine dovevano riguardare solo lui. Il mio compito era quello di
accettarlo così
com’era, di volerlo bene e appoggiarlo, per poi sgridarlo nel caso in
cui si
fosse comportato male.
-Allora vado a comprarla- si
decise, facendomi segno di aspettare fuori dal negozio.
Gli altri ancora dovevano
tornare, eravamo usciti tutti e cinque insieme ma ognuno si era perso
da
qualche parte.
Sorrisi. Era bella quella
giornata, c’era un sole luminoso che faceva da motore all’intero mondo
e mi
donava una bella prospettiva anche dei giorni a seguire.
Un calore piacevole, ecco.
Mi guardai intorno notando quanta
vitalità albergasse le strade trafficate di Seoul. Quanto fosse intenso
il
passeggio da un quartiere all’altro.
Al semaforo, erano accalcate
moltissime persone, molte delle quali trascinavano delle borse e delle
buste piene
di acquisti, divisi tra articoli di abbigliamento e spesa.
Quando il semaforo divenne verde,
tutti attraversarono, lasciando fuori dal gruppo una vecchina che
camminava in
modo lento, a causa del peso della busta che aveva tra le mani.
Intenerito da quell’immagine
decisi di rendermi utile e la raggiunsi, aiutandola ad attraversare e
portandole, da gentiluomo, quel peso che per lei risultava faticoso.
Però, durante il tragitto, non mi
accorsi che una busta di ramen era caduta dal sacchetto e continuai a
camminare
fino a raggiungere il marciapiede opposto.
La vecchina mi ringraziò e, nel
voltarmi, notai il pacchettino giacente al centro della strada; mi
scusai della
distrazione e ritornai sulle strisce, afferrando l’oggetto che alzai in
segno
di vittoria sotto lo sguardo della signora.
E fu in quel momento che accadde
l’irreparabile.
Un camion non accennò a rallentare
e si dirigeva a tutta velocità verso di me, bussando il clacson come un
matto.
Non feci nemmeno in tempo a vederlo che mi sentii spinto all’indietro
da una
forza che mi fece solo sbattere la testa sull’asfalto duro.
Un tonfo sordo e poi… silenzio.
Avevo i sensi annebbiati ma potei
facilmente notare la folla di persone che si era ammassata intorno a me
e il
crescente vociare che si faceva spazio in quel silenzio.
-Sono feriti… il ragazzo ha solo
una ferita alla testa ma la ragazza è grave- sentii quasi
indistintamente dire
da una delle persone lì intorno.
Ferita?
Facendo ricorso a tutta la mia
volontà, aprii gli occhi e mi alzai leggermente, seppur una di quelle
persone
mi stesse intimando di rimanere giù a causa della brutta ferita alla
testa.
Ma io non volevo stare giù.
Volevo sapere cos’era successo.
E quello che vidi mi scioccò,
segnando la mia esistenza.
Lei era lì, distesa per terra e
in un mare di sangue. I capelli erano intrisi di quel liquido rosso e
il viso
era marmoreo, pallido, accarezzato dalla ciglia lunghe che giacevano su
quelle
guance senza colore.
Lei era lì… la stessa ragazza che
mi aveva salvato, prendendo il mio posto come vittima, quel giorno.
Urlai,
sfogando tutto il mio dolore, portando le mani ai capelli e
tirando con tutta la forza.
Sentii
alcune ciocche staccarsi dalla cute ma non percepii nessun
dolore fisico che potesse anche solo comparare l’intensità di quello
che mi
stava struggendo dentro.
Era
una semplice ragazza eppure, ai miei occhi, era diventata
importante per il solo fatto che avesse avuto il coraggio di prendere
il mio
posto, di sacrificarsi a causa di un mio stupido errore.
Ti prego, non odiarmi.
Urlai,
assalito dai rimorsi.
Ti, prego, non odiarmi.
Urlai,
mangiato vivo dal dolore che sempre più mi stava sopraffacendo.
Ti prego… non odiarmi.
Urlai…
urlai, perdendo completamente la cognizione del tempo e dello
spazio.
La
coscienza di me stesso… la coscienza di tutto.
Urlai…
anche se ero cosciente che lei fosse divenuta immediatamente un
angelo in quel posto meraviglioso che era il Paradiso.
Un
angelo che mi avrebbe protetto anche da lassù, per tutta la vita.
Un
angelo.
Il
mio angelo.
Il mio angelo
custode.