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Autore: Umiko_chan    04/06/2013    5 recensioni
«Osservò la sua coda, squamosa e lucente. Sirene. Così li chiamavano gli umani, o almeno così le avevano detto gli anziani. Era un nome strano, pensò. Si-re-ne. Lei era una sirena. Era strano, ma le piaceva. E le veniva da sorridere sapendo che gli umani avevano dato un nome a lei e alla sua gente.»
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kaito Shion, Len Kagamine, Rin Kagamine | Coppie: Len/Rin
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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As deep as the ocean.

Ad Anna, la mia Fulminata, che l’ha betata.



Faceva freddo, lì, ma ormai lei e la sua gente ci avevano fatto l’abitudine. Nonostante gli inverni fossero rigidi e spesso difficili, si arrangiavano come potevano, con alghe e piccoli molluschi che, nonostante tutto, resistevano alle basse temperature. Era dura la vita lì, dove il gelo la faceva da padrone e il sole non si vedeva quasi mai, nemmeno in quelle rare giornate in cui faceva capolino all’orizzonte, per via dello spesso strato di ghiaccio che ricopriva la superficie del mare.
In fondo, a lei piaceva quella sensazione pungente che l’acqua fredda sulla pelle provocava, forse per il semplice fatto che quella era l’unica sensazione che le era consentito provare. Lei e la sua gente vivevano in quel tratto di mare da secoli, a quanto sapeva, e non aveva mai vissuto altre realtà oltre quella. C’era chi aveva viaggiato, e raccontava di mondi lontani e sconosciuti: dicevano di aver nuotato in acque tiepide e limpide, ricche di alghe e coralli dai toni sgargianti e accesi; parlavano di pesci, interi banchi di pesci variopinti, dalle forme più diverse e disparate. Affermavano di aver visto gli umani. Era curiosa, lei: avrebbe tanto voluto vederli, sapere com’erano fatti. Aveva sentito tante leggende su di loro, e desiderava con tutta se stessa avvistarne uno. Invidiava chi, tra i suoi compagni più anziani, poteva vantarsi di essere entrato in contatto con uno di questi esseri così misteriosi e lontani. Alcuni li credevano solo una leggenda, ma Rin ne era certa, loro esistevano. E non vedeva l’ora di incontrarne uno.
Osservò la sua coda, squamosa e lucente. Sirene. Così li chiamavano gli umani, o almeno così le avevano detto gli anziani. Era un nome strano, pensò. Si-re-ne. Lei era una sirena. Era strano, ma le piaceva. E le veniva da sorridere sapendo che gli umani avevano dato un nome a lei e alla sua gente.
Una foca, che nuotava placida, la superò, facendole un muto cenno di seguirla. Iniziarono a scivolare nell’acqua, lasciandosi trasportare dalle correnti. L’animale la precedette, facendole strada attraverso le correnti. Proseguirono per un po’, accompagnate solo dallo sciaguattare sordo del mare. La foca arrestò la sua corsa, indicando con il muso un punto non troppo lontano: lì il ghiaccio sembrava più scuro, e proiettava un’ombra strana ed insolita.
Rin si avvicinò, cauta, quasi avesse paura di quell’oscurità; provò a toccare la lastra, per capire se non fosse lo stesso ghiaccio di sempre - perché, avrebbe potuto giurarci, non aveva mai visto quell’ombra prima di allora. E quando la misteriosa chiazza nera si mosse, Rin scattò in profondità, impaurita. Sentiva il cuore battere all’impazzata: avvicinò le mani al petto e le premette all’altezza dei polmoni, come a voler calmare quello scalpitare frenetico. Notò che l’ombra si stava allontanando e, raccolto il coraggio a due mani, la seguì senza alcuna esitazione. Più che altro, era la curiosità a farle muovere la coda, a farla procedere: voleva assolutamente capire cosa fosse e come fosse arrivato lì.
La foca la precedette ancora, invitandola a starle dietro. La ragazza ubbidì silenziosamente, e l’animale la condusse in un punto in cui il ghiaccio era molto meno spesso e, quindi, più fragile. Lo infranse con qualche colpo, senza alcuna difficoltà. Fece leva con le braccia, sporgendosi per la prima volta oltre la superficie dell’acqua. Fuori l’aria era gelida, ma non come l’acqua. Più pungente, quasi dolorosa. Era forse quello che gli umani chiamavano vento?
Oltre quello spesso strato di ghiaccio che l’aveva sempre sovrastata c’era solo altro ghiaccio. Tutto era incredibilmente bianco, tanto da risultare quasi abbagliante; anche là fuori non sembravano esservi forme di vita, escluse alcune foche e altri strani esseri che Rin non aveva mai visto.
Sentì un rumore assordante provenire da lontano, un suono che mai aveva udito: era fastidioso, tanto che dovette portare le mani alle orecchie per attenuarlo. Ad appena qualche dozzina di metri da lei c’era uno strano animale, metallico, con lunghe lame lucenti e argentee al posto delle zampe: era lui ad emettere quel verso spaventoso, si rese conto, quell’insopportabile stridere.
Non riusciva a capire come, ma dalla pancia di quello strano animale ne uscirono altri. Erano diversi, però: sembravano simili a lei, nel viso e nel busto; ma nessuno di loro aveva la coda, come lei. Somigliavano alle sue braccia, quei due arti strani come non ne aveva mai visti. Ne avevano parlato, gli anziani: le avevano chiamate gambe.
Dunque erano loro, gli umani? Rin si sentì avvampare, e cercò conforto nell’acqua fredda, immergendosi fino a lasciare all’asciutto solo gli occhi.
Osservò con attenzione quei tre richiudere la pancia dell’animale metallico e incamminarsi nella direzione parallela alla sua. Li seguì con lo sguardo, emozionata e stupita. Erano creature così affascinanti, come li aveva sempre immaginati: li vedeva scherzare e parlare tra loro, senza minimamente fare caso a lei. Proseguirono insieme per un tratto, prima che uno di loro si separasse e tornasse verso l’animale meccanico. Rientrò nella sua pancia e l’animale si mosse, provocando un rumore assordante; Rin si immerse di nuovo, per inseguirlo a nuoto mentre si allontanava. Non le era difficile rincorrere quell’ombra nitida sulla lastra di ghiaccio: con le mani sfiorava la superficie fredda, per nuotare più veloce - non aveva alcuna intenzione di perderlo di vista.
Si fermò ancora, e scese di nuovo: Rin lo osservò attraverso il ghiaccio, che lasciava intravedere piuttosto nitidamente la sua immagine. Era un ragazzo molto giovane, con i capelli biondo oro raccolti in una piccola coda e gli occhi blu, profondi come quel mare in cui lei nuotava: Rin pensò che fosse bellissimo.
Non riusciva a capire, però, cosa fosse quello strano scompiglio che sentiva nello stomaco, quel calore che le aveva invaso le guance. Lo osservò ancora, e si chiese se quel sentimento potesse essere l’amore, quello di cui si parlava nei miti e nelle favole degli anziani.
Alle sue orecchie giunse un suono, sconosciuto e bellissimo: sembrava musica, una misteriosa canzone come non ne aveva mai sentite. Le ci volle un po’ per capire che non era altri che il dolce umano ad emettere quel suono: stava parlando. Lei non riusciva a capire cosa lui dicesse, ma non le importava; quell’armonia, incredibile e soave, la avvolgeva. Assaporava quella voce, ad occhi chiusi; poi li riapriva, osservava quel volto, quegli occhi e quel suo luminoso sorriso.
La sua espressione, però, era mutata: sembrava confuso, ora, e sorpreso. Si chinò, sfiorando il ghiaccio con le dita. Forse... forse l’aveva notata? Iniziò a picchiare contro la lastra, colpendola con entrambi i pugni, finché non fece male. Ma lui si era limitato a raccogliere un po’ di brina, e ora l’analizzava curioso.
Lo osservava, battendo a palmi aperti contro la superficie trasparente e gelida, sperando che i loro sguardi s’incontrassero. Lui era così vicino, eppure... perché non riusciva a vederla?
Rin avvertì una strana sensazione, che mai aveva provato prima: la vista le si offuscò, e la giovane iniziò a singhiozzare. Le guance erano accaldate, così come le mani per via del continuo picchiare. Lui sembrava comunque non udirla, ma lei continuava a colpire con i piccoli pugni la lastra immensa, con la remota speranza di farsi notare o di anche solo scheggiare la gelida superficie. La foca che l’aveva accompagnata la osservava, confusa e stupita del comportamento della giovane. Se ne andò, lasciando da sola la piccola sirena, che nemmeno la vide allontanarsi.
Dette un altro paio di colpi, ma, stanca, si lasciò andare, facendo scivolare le braccia lungo i fianchi. Sentiva freddo, un gelo terribile che non era dovuto all’acqua pressoché congelata, né tantomeno alle correnti provenienti da est. Non se ne andò, però: rimase lì, a guardare quel ragazzo - chissà qual era il suo nome?  - lavorare e analizzare, completamente affascinata. Lui sorrideva, fiero del suo operare e proseguì nelle sue ricerche fino al calar del sole, sempre basso all’orizzonte. Ripose tutti i suoi attrezzi e, una volta riposti nella pancia dello strano animale meccanico, vi s’infilò anche lui; l’animale riprese vita, i suoi occhi si accesero di una strana luce e quindi si allontanò, portando via quel giovane dai capelli biondi e gli occhi azzurri e profondi come il mare.
Rin, dal canto suo, non si mosse: rimase lì, dove lui l’aveva lasciata, sfregandosi le braccia nude per combattere il freddo. Lo aspettò lì per tutta la notte e, non appena il sole fece timidamente capolino da dietro le montagne di ghiaccio, sentì quel fastidioso rumore, quello stridere dell’animale metallico che si avvicinava sempre di più. Ed eccolo fermarsi nello stesso punto del giorno precedente, e lasciar uscire il giovane ricercatore; e tutto si svolse come il giorno prima: lui che, attento, osservava il ghiaccio e la neve, prendendo appunti su un quadernetto. Sorrideva ogni volta che riusciva a scorgere qualcosa - chissà poi cosa poteva vederci, in una manciata di quella poltiglia bianca e fredda.
Lei lo osservava lavorare, senza muoversi, senza dire una parola. E quando lui se ne andava, lei lo aspettava. Rimase lì per giorni, solo per guardare quegli occhi blu illuminarsi ogni volta che vedevano qualcosa di nuovo, che fosse aspettato o meno, per vedere quel sorriso luminoso nascere su quel volto talvolta arrossato dal freddo.
Quello era, dunque, un giorno come gli altri: lui lavorava, e lei lo guardava lavorare senza battere ciglio; ormai si sentiva come una statua di ghiaccio, inerme e gelida. Al tramonto, come al solito, il ragazzo raccolse le sue cose e le poggiò sul dorso dell’animale metallico; prima di salire come aveva sempre fatto, però, si guardò indietro, proprio nel punto in cui Rin si trovava. Poi sorrise e salì ancora nella pancia dell’animale, allontanandosi verso ovest.

 
Lei lo aspettò, come aveva sempre fatto; ma il mattino dopo non si sentì il rumore dell’animale avvicinarsi e il giovane esploratore non si ripresentò. Eppure lei non si mosse, aspettandolo ancora e ancora, sopportando il freddo e la solitudine. La sua gente non ha più saputo niente di lei, e ormai la credono persa per sempre, magari catturata da qualche umano.

 
«Ehi, amico! Sicuro che vada tutto bene?»
Len si massaggiò la costola che l’amico aveva appena colpito con una gomitata. Si limitò ad un apatico “sì”, che di convinto aveva ben poco.
Kaito lo osservò, sospettoso: forse era solo stanco per quella lunga spedizione tra i ghiacci dell’Antartide, forse non aveva trovato tutto ciò che aveva sperato.
L’aereo sembrava procedere al rallentatore - ormai erano ore che erano seduti su quei seggiolini di prima classe, eppure Len non riusciva a rilassarsi.
«Sai, ho visto una cosa, laggiù...», confessò, come se avesse letto nella mente dell’amico. «So che sembra una follia, ma...»
«... Ma?»
«Credo... credo di aver visto una sirena
«U-una sirena?! », esclamò l’altro, piuttosto sorpreso. «Oddio, spero tu stia scherzando!»
«Già, forse... forse l’ho solo immaginata.»
Len lasciò che il suo sguardo si perdesse oltre il vetro dell’oblò: forse Kaito aveva ragione, forse era solo frutto della sua immaginazione. Eppure... quei capelli biondi che sfioravano delicatamente le spalle esili, quei suoi occhi azzurri, la sua coda azzurra e vaporosa, che si confondeva con il mare. Lui l’aveva vista lì, sotto lo strato di ghiaccio, che lo osservava; ed ora tornato lì, ogni giorno, per rivederla ancora e ancora. Ogni sera tornava alla base a bordo della slitta, sicuro che fosse tutto un miraggio, un’illusione; ma lei era lì, ogni giorno, ad aspettarlo per osservarlo lavorare. E lui, be’... se n’era innamorato, come uno stupido. Si era innamorato di una sirena.
«Attenzione: siamo in arrivo all’aeroporto di Tokyo! Grazie per aver volato con noi!», annunciò una voce metallica e fastidiosa.
«Sai, Len? Dovremmo tornarci al Polo Sud, prima o poi», propose Kaito, indossando la giacca e preparandosi all’atterraggio. «Ci sono così tante cose che vorrei ancora scoprire, laggiù!»
«Già. Dovremmo proprio.»

   
 
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