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Autore: Macaron    06/06/2013    3 recensioni
“ Grazie.” Sussurra pianissimo.
“ Mh?” Ovviamente anche con la febbre Sherlock ha tutti i sensi iper sviluppati, apre gli occhi e John si perde in quell’azzurro così chiaro. “ Per cosa?”
“ Perché fai smettere di piovere anche quando piove.”

Di spiagge con bambini che giocano a palla, prime sbronze, nasi rossi e coinquilini con cui ammalarsi.
Genere: Fluff, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harriet Watson, John Watson , Mycroft Holmes , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sherlock Holmes ha sei anni, sei anni e centocinquantasei giorni per essere precisi perché a Sherlock Holmes piace essere preciso, la prima volta che mette piede su una spiaggia. Violet Holmes in quell’inizio di vacanze estive si è mostrata molto preoccupata per il considerevole aumento di peso del suo primogenito e dopo che il medico di famiglia ha confermato che la corporatura di Mycroft, tredici anni passati da diversi mesi, è leggermente eccessiva pur considerando l’età dello sviluppo ha deciso d’imporre al figlio qualche ora in spiaggia ogni giorno, per sgranchirsi le gambe, per muoversi, per allenare qualcosa di diverso dalla sua mente che come quella di tutti gli uomini Holmes è sicuramente già fin troppo sviluppata. Mycroft, che a sentirlo parlare non dimostrerebbe mai i suoi tredici anni, ha opposto qualche moderata obiezione fornendo riferimenti a progetti scolastici da portare avanti che potrebbero influenzare il futuro della nazione ma la madre è stata irremovibile e così la spiaggia è entrata a far parte della routine domestica. Sherlock, che ha ovviamente ascoltato tutto il dibattito nascosto dietro una sedia perché anche se ha solo sei anni ha già stilato una classifica delle sue cose preferitissime e ascoltare qualcuno rimproverare suo fratello è al secondo posto, ne è stato entusiasta: Mycroft in spiaggia vuol dire Mycroft che non è più in casa, che non può trattarlo come se fosse solamente un bambino, che lascia libera la sua camera piena di tesori da scoprire (e possibilmente nascondere) e nessuno che si preoccupa di lui. Non che qualcuno si preoccupi davvero di lui, fanno solo finta, s’impongono di preoccuparsi per lui come vuole la loro educazione e la loro classe sociale, ma è tutto artefatto e superficiale come l’interesse della madre per il peso del fratello che è probabilmente frutto di qualche osservazione ascoltata a una cena, nessuno lo vede davvero. Poi una mattina, quando sono straordinariamente a far colazione tutti insieme e mentre suo fratello si sta servendo della terza fetta di torta, Mycroft lancia la bomba e dice con voce fintamente melliflua “ Perché non porto anche il fratellino in spiaggia, madre? Guardalo è sempre così pallido, una giornata all’aria aperta potrebbe solo che fargli bene.” Sherlock sa benissimo che suo fratello non si preoccupa davvero della sua faccia, che personalmente trova di un colore assolutamente normale, ma che è una vendetta per il macbook che ha trovato sommerso di tè troppo zuccherato la sera prima e di cui imputa il mancato funzionamento a lui (a ragione tra l’altro, Sherlock ha trovato davvero deludente la reazione del computer agli stimoli atmosferici da lui riprodotti con l’uso di un phon, cubetti di ghiaccio e tè caldo). Dopo la frase del fratello sono inutili i capricci, è inutile mettere il broncio (anche se ovviamente Sherlock non se ne fa mancare l’occasione perché è pur sempre un bambino), la madre s’illumina, ed è per qualche minuto meno austera e più vicina a una persona vera, e questo sancisce la sua condanna e la sua permanenza nella spiaggia vicina alla residenza estiva degli Holmes.

Sherlock ha sei anni la prima volta che mette piede su una spiaggia e quello che vede è quantomeno deludente. Signore sdraiate a prendere il sole troppo scoperte, troppo per il buongusto comune visto che per il suo buongusto le persone così insulse non starebbero bene in nessun modo, bambini che si lanciano il pallone e sorprendentemente sembrano divertirsi anche senza studiarne il movimento con qualche grafico, acqua, schiamazzi, sole che brucia sulla pelle. E’ tutto così pacifico, tutto così noioso. Mycroft dal canto suo dimostra quanto l’idea della madre di fargli sgranchire le gambe sia stata fallimentare visto che per le quattro ore di permanenza, seriamente quattro ore ovvero quattordicimila quattrocentoquaranta secondi e calcolarli è stata la parte più interessante della mattinata, rimane immobile su una sdraio a leggere e il massimo movimento che compie è quello di avvicinarsi a un gelato. E’ tutto così noioso. Le persone non sono nemmeno divertenti da dedurre perché non fanno niente, perché a Sherlock non piacciono le persone e sicuramente non gli piacciono quelle persone che si divertono a lanciare una palla. Sherlock mentre s’incammina sul bagnasciuga con ancora indosso la maglietta sopra il costume, perché togliersela anche se fa caldo sarebbe come dimostrare che ha accettato quest’atroce punizione e lui non ha proprio intenzione di farlo, pensa che se gli piacesse qualche persona non sarebbe sicuramente qualcuno di così noioso da trovare interessante giocare con una palla. Sherlock pensa che se gli piacesse qualcuno sarebbe una persona che si mette a cercare sul bagnasciuga tracce di un qualche crimine, un vetro appartenuto a un gioiello rubato magari?, che accetta di sezionare uno dei granchi che ha appena trovato e che è pronto a partire per un’avventura. Sherlock pensa che però una persona del genere non esista, pensa che in realtà al mondo ci siano solo stupidi bambini che fanno castelli di sabbia e che si offendono quando gli vai a dire che dal modo in cui il padre tratta la sorella è evidente che sono frutto di una storia fuori dal matrimonio, e che sia per questo che la spiaggia non gli piace e le persone non gli piacciono. Rimane tutto il giorno su uno scoglio a cercare di sezionare dei granchi che ha catturato, non si diverte per niente e il pomeriggio mentre tornano a casa insieme si ritrova con il naso tutto rosso e bruciacchiato. Rientrato nella villa si guarda allo specchio e il naso rosso non gli piace, non è assolutamente adatto alla sua faccia, lo fa sembrare così umano, lo fa sembrare come gli altri bambini che giocano con la sabbia e si schizzano e Sherlock Holmes è tante cose ma sicuramente non è un bambino come gli altri. Il naso gli pizzica, è rosso e sembra essere sul punto di spellarsi e Sherlock pensa a un bambino che ha visto sulla spiaggia a cui la madre continuava a spalmare la crema sul viso, c’era tutto quel contatto ed era tutto così umano e sentimentale e sgradevole e Sherlock si chiede come possa essere avere qualcuno che si preoccupa per la tua salute, che si preoccupa per il tuo naso rosso. Sherlock guarda il suo naso rosso allo specchio e lo odia.

 

 

 

 

John Watson ha tredici anni la prima volta che si ubriaca. John Watson ha tredici anni la prima volta che sua madre acconsente a lasciare lui e sua sorella maggiore, Harriet, da soli per un week end senza la supervisione di qualche vicina troppo impicciona. John è contento quando sua madre decide di lasciarli soli perché sua madre non va mai via nemmeno per il week end, non da quando suo padre li ha lasciati e ha distrutto quella sorta di famiglia che avevano costruito, e John pensa che sia sicuramente una buona cosa, una di quelle cose che nei film che trasmettono in televisione la domenica pomeriggio fanno le persone che stanno andando avanti ed è quello che vuole per sua madre. John è contento anche perché le vicine impiccione non gli piacciono troppo e non è mai rimasto da solo per un intero week end, ed è vero che c’è sua sorella ma sua sorella non è mai in casa va sempre a dormire dalla sua migliore amica quindi è come se non esistesse nemmeno, e a tredici anni gli sembra di avere il mondo a portata di mano e ha così tanta voglia di fare cose che gli sembra impossibile stare fermo. Vuole diventare un soldato, perché i soldati proteggono le persone e vedono posti. Vuole diventare un medico perché il medico che anche loro aiutano e salvano le persone anche se viaggiano di meno. Vuole diventare uno scrittore e un detective perché la sera quando non riesce a dormire accende la sua pila e legge per ore intere i gialli di Dupin. Vuole vivere tante avventure, vuole andare in giro, vuole conoscere Londra e scoprirne tutti i vicoli. Vuole innamorarsi ma anche divertirsi. Vuole conquistare il mondo intero. E soprattutto vuole invitare i suoi compagni di classe, e anche qualche amico più grande, a casa e stare sveglio tutta notte e ascoltare la musica e guardare stupidi film e fare tutte quelle cose che in realtà potrebbe anche fare con sua madre in casa ma che quando sei da solo sono molto più divertenti perché diventano pericolose, perché ti senti libero.

John Watson ha tredici anni quando per la prima volta si ubriaca. E’ stato il suo amico Steve a portare le birre a casa perché ha un fratello più grande che le ha comprate per lui senza che gli facessero domande e John ha esitato quando le ha viste perché la birra non l’ha mai nemmeno assaggiata. Ha bevuto un bicchiere di vino in passato, sua madre predilige il rosso, ma sempre a tavola, sempre controllato e non sa come rapportarsi a quella bevanda nuova ma del resto è libero e le cose pericolose gli piacciono, gli piacciono le avventure. Che senso ha avere la casa libera se non vivi un’avventura? Se non fai qualcosa che normalmente non faresti o non potresti fare?

Quando Harry ritorna a casa quella notte, non particolarmente tardi in realtà perché Harry ha solo sedici anni e andare in giro da sola le fa comunque un po’ paura, trova il fratello riverso sul divano con vicino a lui diversi cartocci di patatine fritte, un cartone di pizza, lattine di birra ovunque e una bottiglia di limoncello semi aperta. John mugola quando sua sorella lo sveglia bruscamente e tutto gira e si sente malissimo e vorrebbe potersi staccare la testa e lanciarla il più lontano è possibile tanto visto il risultato pessimo della serata è evidente che non gli serve a molto.

“ Hai il naso rosso!” Gli dice Harry e ride mentre il fratello cerca di rimettersi in piedi e sbuffa e si lamenta nemmeno stesse morendo.

“ Hai il naso rosso! Pensavo che solo nei film le persone che si sono ubriacate avessero il naso rosso!” ripete Harriet che non ha mai assaggiato nemmeno il vino che la mamma le ha offerto a cena in passato.

John si sente malissimo. La testa sembra essere sul punto di scoppiare, gli sembra di avere difficoltà a poggiare i piedi sul pavimento gelido del bagno e il suo viso allo specchio non lo riconosce. Ha il naso rosso, Harry aveva ragione, e gli sembra di essere un po’ gonfio quasi lo avessero picchiato anche se probabilmente l’unica battaglia che ha affrontato è quella contro la federa del cuscino del divano. Perdendo, tra l’altro. Non si è davvero divertito quella sera, non ci sono state davvero avventure, c’è solo stato un gruppo di amici che fa a gara a chi ne esce peggio e a chi dice le battute più stupide. Guarda il suo naso rosso nello specchio, John, e non si piace tantissimo e pensa che quello non sia il modo migliore di conquistare il mondo e di vivere le avventure che cerca.

Mentre si appresta ad andare a dormire il suo sguardo si posa su Harriet che in salotto si sta versando un bicchierino di limoncello. La sorella si volta verso di lui e ridendo gli dice “ Non preoccuparti non ho intenzione di diventare un’ubriacona come te! E’ solo un assaggio!”. John va a dormire.

 

 

 

 

 

Ha iniziato a piovere mentre stavano tornando a casa e Sherlock si è rifiutato di prendere un taxi perché il grande genio doveva pensare e a quanto pare ci riusciva meglio camminando e per questo John Watson è assolutamente di cattivo umore. Londra gli piace, gli piace davvero. E’ la sua città, non riuscirebbe ad immaginarsi altrove come gli ha detto una volta Mike Stamford, ma sembra impossibile riuscire a superare una giornata senza scontrarsi con la pioggia. Questa poi, in particolar modo, da pioggerellina fine fine e quasi impalpabile si è trasformata praticamente in un temporale e John, che si è dimenticato l’ombrello perché come al solito quella mattina sono usciti di corsa e lui stava praticamente ancora dormendo, sa già che arriveranno zuppi a Baker street. Ed è anche vestito leggero, maledizione!, perché è marzo e chi si metterebbe un piumino pesantissimo a marzo? Così arriverà a Baker street bagnato e infreddolito e non riesce a non sbuffare.

“ Smettila.” La voce di Sherlock lo raggiunge nonostante il rumore della pioggia.

“ Non sto facendo niente.”

“ Stai sbuffando. Sei nervoso per il tempo, come se a Londra la pioggia fosse l’equivalente della neve per qualcuno che abita ai Caraibi poi, e ti stai lamentando.”

“ Non mi sto lamentando, non ho detto una parola.” Insiste.

Sherlock rallenta il passo e si ferma a guardarlo. “ Stavi pensando di lamentarti. Io ti sento lo stesso.Ti sento sempre.”

John è quasi tentato di sorridere ma poi la pioggia si fa più violenta e lui trema un pochino per il freddo e allora niente sorriso, non è proprio il momento. “ Lo so che la pioggia è normale a Londra, Sher, non sono mica stupido ma è ugualmente fastidiosa. E ho freddo. “

“ Ogni tanto mi chiedo come riuscissi a sopravvivere in Afghanistan visto quanto sei meteoropatico ”

“ Beh sai il tempo non era proprio la mia prima preoccupazione, c’erano quelle sciocchezze come cercare di non farmi ammazzare e riportare a casa il maggior numero di persone possibili di cui occuparmi.”

“ Noioso.”

Ricominciano a camminare. John si sente le dita doloranti per la pioggia e l’umidità e sicuramente il suo naso si è arrossato come ogni volta che prende troppo freddo e lo detesta. Sherlock improvvisamente si ferma e si toglie il cappotto e glielo appoggia sulla testa. In quel gesto c’è una familiarità che lo riporta a quando era bambino, alle gite fuori Londra e a quando mentre giocava sull’altalena scoppiava a piovere e sua madre gli improvvisava un cappello con il sacchetto di carta dei panini. Era tutto goffo e imperfetto eppure così giusto e adesso con il cappotto di Sherlock, che è assolutamente troppo lungo per lui anche appoggiato sulla testa in quel modo, si sente allo stesso modo. Si sente al caldo, si sente protetto, sente di poter andare ovunque (come da bambino sentiva di poter continuare ad andare sull’altalena nonostante la pioggia), si sente a casa. Nemmeno il naso rosso gli da più fastidio.

“ Ti prenderai un accidente se mi lasci il cappotto, Sher…” Inizia.

“ Se non ricominci a camminare sicuramente, hai già le gambe più corte della media inglese ci manca pure che tu rimanga fermo.” E il consulente è già sparito dalla sua vista. John cammina più veloce e nonostante il cappotto gli sia stato appoggiato sulla testa goffamente non pensa di potersi sentire più al caldo di così.

 

 

 

 

Alla fine prendono entrambi la febbre. Sherlock perché ha camminato per diversi isolati praticamente in maniche di camicia e John perché nonostante il cappotto è arrivato a Baker street già zuppo. Si ritrovano così nel letto di Sherlock, perché è quello più vicino a fonti di calore secondo il consulente investigativo, con John praticamente costretto a fare da infermiere, dottore, balia e paziente contemporaneamente. Sherlock è assolutamente un pessimo paziente, se di solito i suoi sbalzi umorali ricordano quelli di un bambino di dieci anni con il raffreddore regredisce a cinque, ma ha la febbre troppo alta per lasciarlo solo (e in ogni caso John ha ormai abbastanza coraggio per ammettere che il contatto con il suo corpo sotto le coperte è estremamente piacevole). In ogni caso rifiuta le medicine, è convinto di essere capace d’imporre al suo corpo di smettere di stare male, non apprezza il brodo di pollo che John gli ha preparato ed è molto più digeribile del cibo d’asporto da lui ordinato, e si lamenta per qualsiasi cosa. Non la compagnia migliore del mondo ma pur sempre la sua compagnia. Quando la febbre aumenta però, e in attesa che le medicine inizino a fare effetto, Sherlock si dimostra molto meno controllato ed improvvisamente la situazione diventa così divertente che a John sembra che le ossa facciano meno male. Razionalmente sa che non dovrebbe trovare divertente un malato che delira e dice frasi assurde ma non è un malato quello, è Sherlock e vederlo vittima del suo corpo che gl’impedisce di pensare lucidamente è esilarante. Sherlock gli parla della chimica, risponde a domande sulle costellazioni sbagliando completamente la disposizione di tutti i pianeti ( e probabilmente aggiungendo anche qualche pianeta sconosciuto perché davvero John non ne ricordava così tanti) e sproloquia su qualcosa di legato all’infanzia e che John non capisce ma non sembra sicuramente troppo divertente. Mano a mano che le medicine iniziano a fare effetto e causargli sonnolenza il suo migliore amico parla di meno, John non pensava che fosse possibile, e mugugna sempre di più ed è quasi carino e fragile. E’ pallido, ancora più del solito, ma con le guance particolarmente rosate, e il naso tutto rosso e un po’ gonfio e gli occhi socchiusi e sembra un ragazzino, il suo ragazzino. Sembra meno un cervello con le gambe e più umano e sa che se fosse abbastanza lucido Sherlock odierebbe tutto questo ma John non riesce a non apprezzarlo.

Decide di prenderlo un pochino in giro e approfittare di questo suo essere vulnerabile e non propriamente Sherlock.

“ Dimmi qualcosa di carino.”

Sherlock mugugna e si rigira sotto le coperte.

“ Dai! Dimmi qualcosa di bello!”

“ (δ + m) ψ = o”

“ E questo cosa vorrebbe dire?”

“L’equazione che ti ho detto è quella di Dirac ed è la più bella equazione conosciuta della fisica. Grazie a questa si descrive il fenomeno dell’entanglement quantistico, che in pratica afferma che: «Se due sistemi interagiscono tra loro per un certo periodo di tempo e poi vengono separati, non possiamo più descriverli come due sistemi distinti, ma in qualche modo sottile diventano un unico sistema. »  Quello che accade a uno di loro continua ad influenzare l’altro, anche se distanti chilometri o anni luce”.1

E’ sicuramente la cosa più bella che gli sia mai stata detta da Sherlock. E’ sicuramente la cosa più bella che gli sia mai stata detta da chiunque. John avrebbe quasi voglia di piangere se non avesse trentasette anni invece di sedici.

Si sistema meglio sotto le coperte con il viso che tocca quasi quello del suo migliore amico. Gli accarezza i capelli sudati e disordinati, cerca di mettere in memoria di andare a prendere un asciugamano per evitare s’ammali ancora di più, traccia i contorni del suo viso e indugia sul naso rosso. Quel naso rosso, rosso com’è probabilmente anche il suo e che anni prima si era trovato a detestare, è la prova che Sherlock è umano, è reale, è come lui ed è accanto a lui. E’ qualcosa di più di sentire il suo cuore che batte e sapere che è vivo, è vedere il suo cuore, è vedere la sua umanità.

“ Grazie.” Sussurra pianissimo.

“ Mh?” Ovviamente anche con la febbre Sherlock ha tutti i sensi iper sviluppati, apre gli occhi e John si perde in quell’azzurro così chiaro. “ Per cosa?”

“ Perché fai smettere di piovere anche quando piove.”

Sherlock annuisce come se capisse davvero quello che sta cercando di dirgli, forse lo capisce davvero. Sherlock chiude gli occhi e si rannicchia più vicino a lui, probabilmente appena starà meglio torneranno come al solito e non ci saranno più tutti questi momenti diabetici ma intanto John si gode quel tepore, quel contatto. Chiude gli occhi, avvicina il viso a quello del suo migliore amico e lascia che i nasi, entrambi troppo gonfi e rossi, si sfiorino. Baci da eschimese li chiamava Harry quando erano bambini, una nuova avventura la vorrebbe chiamare lui da adulto. Una bella avventura.

Si risvegliano nella stessa posizione.

 

 

 

 

 

 

Solito pippone e blabla: Questa storia nasce a causa di questa deliziosa fanart e dal fatto che Nat mi ha cordialmente invitata a scriverci qualcosa sopra e insomma chiamava a gran voce fluff e cuoricini a profusione. Quindi se questa fosse una dedica e io sapessi fare le dediche sarebbe dedicata a lei (l'uso di tremila ripetizioni è voluto). So che Sherlock è particolarmente poco Sherlock nel finale ma diamo la colpa all’influenza che lo rende un po’ meno macchina e un pochino più umano, e tanto la mattina dopo rimpiangerà tutto. La scena di John con il cappello di carta, giusto per raccontarcela, è del mio vissuto perché era una cosa che faceva sempre mia madre quando ero bambina e tornavo a casa con i codini pieni di briciole di pane. Era una bella immagine e volevo usarla. Il titolo viene da una frase di Clocks dei Coldplay perché non so dare i titoli e insomma poteva pure andare peggio visto che stavo sfogliando Gaiman. *offre frollini al caramello muscovado*

 

1 Stando a google questa frase e l’equazione viene da “Lo psicodramma dell’essere” . Nel mio caso specifico viene da uno dei miei contatti di twitter che l’ha ritrovata in un quaderno e non è riuscita a fornirmi altre informazioni ma insomma era bellissima.

  
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