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Autore: PerseoeAndromeda    22/12/2007    7 recensioni
“Dove vanno le foglie quando il vento le rapisce e le porta con sé?” Si ponevano questa domanda due occhi di bimba che contemplavano, al di là del vetro lucido di una finestra situata ai piani alti dell’immenso palazzo, l’agonia delle piante...
Genere: Generale, Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Andromeda Shun, Cygnus Hyoga, Pegasus Seiya, Phoenix Ikki, Saori Kido
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Dove vanno le foglie quando il vento le rapisce e le porta con sé

 

DOVE IL VENTO TRASCINA LE FOGLIE

 

 

“IO SONO L’ALBERO…”

 

 

“Dove vanno le foglie quando il vento le rapisce e le porta con sé?”

Si ponevano questa domanda due occhi di bimba che contemplavano, al di là del vetro lucido di una finestra situata ai piani alti dell’immenso palazzo, l’agonia delle piante alle quali la brezza autunnale strappava violentemente le proprie compagne rosse e gialle.

Alcune si posavano a terra e presto sarebbe passato il giardiniere a spazzarle, si sarebbero dissolte in fiamme, poi in cenere e anche loro via nel vento; almeno quel che restava di loro.

Alcune foglie morivano ma quelle che scomparivano, trascinate lontano, che fine facevano?

Saori sospirò e si scostò, mestamente, dalla finestra, il capo chino, gli occhi socchiusi sulle calze rosse da bambola, perfettamente armonizzate con la veste ornata di fronzoli e merletti; le era sempre piaciuto il modo in cui il nonno e le domestiche l’avevano abituata ad agghindarsi ma quel giorno, per qualche strano motivo, le pesava, qualcosa in quel suo aspetto da bambolina di ceramica la umiliava e la spingeva alla ribellione, al desiderio di strapparsi di dosso quegli strati di stoffa insensati ed inutili.

Tutto le era pesante in quelle mattinate d’autunno, dal mattino quando metteva i piedi fuori dal letto, alla sera, quando si coricava; non sapeva spiegare a se stessa cosa fosse quel senso di oppressione che le stringeva il petto come in una morsa d’acciaio e nessuno se ne accorgeva, nessuno si rendeva conto della sua angoscia. Era completamente sola, il nonno tornava ogni tanto a casa e in quei momenti lei si mostrava lieta, perché desiderava che gli istanti trascorsi con lui risultassero leggeri e graditi ad entrambi. La servitù si impegnava a servirla e a riverirla ma probabilmente nessuno di loro poteva scorgere l’anima racchiusa in quello che consideravano un guscio di cristallo prezioso da accontentare in ogni modo per non essere cacciati e l’affetto raramente si nasconde sotto la reverenza.

Chiedere ai bambini suoi coetanei il conforto della compagnia e della comprensione? E perché dato che non li aveva mai sopportati e loro non sopportavano lei? Scalciò con un moto stizzito una pallina di vetro che giaceva ai suoi piedi, rimasuglio di un noiosissimo gioco con il quale aveva cercato di distrarsi. Rabbia verso di loro o… verso se stessa… perché non ci credeva più a quell’insofferenza nei loro confronti? Perché ogni momento in cui pensava a loro la pesantezza del suo cuore si faceva intollerabile?

Non ci credeva più da qualche tempo ormai, anche se si sforzava di mantenere una posa, in nome di quell’orgoglio che comunque mai la abbandonava ma, quando al suo passaggio i ragazzini la scrutavano con ostentato disprezzo, le faceva sempre più male.

Non ci credeva più dal giorno in cui il nonno le aveva aperto gli occhi dopo il comportamento capriccioso che lei aveva tenuto nei confronti di Seiya e di Jabu, causando a quest’ultimo delle brutte ferite alle ginocchia costringendolo a fare il cavalluccio per lei, umiliandolo davanti a tutta la scuola. Ma adesso, col senno di poi, era consapevole che la figura peggiore l’aveva fatta lei stessa, che aveva ottenuto di farsi odiare ancor più da loro, ottenendo così il contrario del rispetto, perché tutti si erano raccolti solidali intorno a Jabu, nessuno si era mostrato comprensivo con lei. E perché avrebbero dovuto mostrarsi comprensivi, dopo aver subito l’ennesima cattiveria da un membro di quella casa che li aveva accolti unicamente per schiavizzarli?

Sussultò; mai aveva pensato a loro in questi termini, mai aveva visto e considerato le cose con una tale chiarezza e mai si era interrogata su tutta quella strana situazione; stava mettendo in dubbio l’operato del nonno, aveva, anche se solo per un istante, pensato che era stato crudele e che lo sarebbe stato ancor più lasciando partire quei bimbi della sua età verso mete sconosciute a rischiare la vita, senza una spiegazione che avesse una parvenza di logica?

Scosse nervosamente il capo; qualunque cosa suo nonno avesse pianificato doveva per forza essere, in qualche modo, giusta: suo nonno era un grande uomo, era un eroe, non un uomo cattivo e lei era solo una bambina, loro erano solo bambini, non potevano pretendere di comprendere tutto; loro compito era quello di accettare perché ogni cosa avrebbe, prima o poi, trovato un senso.

Si andò a sedere sul letto e raccolse le ginocchia sul petto, rannicchiandosi e abbracciandosele tristemente; non le bastava, quel ragionamento non la faceva sentire più tranquilla. Tutto ciò che sapeva per certo era che, tra pochi giorni, i bambini sarebbero partiti, trascinati dalla crudeltà umana, lontani, come foglie nel vento.

La lacrima la sorprese ancor prima che lei potesse ingaggiare una lotta per impedirle di uscire; detestava piangere e detestava venire sorpresa da emozioni incontrollate. Tutto doveva restare sotto il suo completo controllo, anche il suo spirito e le sue emozioni. Si stropicciò irosamente la guancia con le nocche del piccolo pugno chiuso; detestava ancor più, non capire cosa accadeva e non capirsi, perché quello che sentiva dentro assolutamente non lo comprendeva, non comprendeva quei sogni, nei quali si vedeva cresciuta, avvolta in una strana armatura, circondata da altri ragazzi in armatura anch’essi… ragazzi che conosceva. Quasi urlò per la frustrazione: se non fosse riuscita al più presto a fare chiarezza su quelle visioni notturne, su quella voce che sentiva dentro, estranea e al contempo sua, su quelle figure che si materializzavano davanti ai suoi occhi ogni volta che contemplava le stelle e su quelle memorie che si risvegliavano in lei dal nulla, memorie di un passato lontano, troppo lontano perché lei potesse saperne realmente qualcosa, se non fosse riuscita a porre un freno a tutto il mistero che sentiva nascere in se stessa, a quel mistero che era lei stessa, sarebbe impazzita, ne era certa.

Un ticchettio leggero contro il vetro cui era stata appoggiata poco prima la fece voltare: una foglia di ginko ingiallita era venuta a bussare, incollandosi un attimo alla superficie trasparente, quasi aggrappandosi in una vana richiesta di aiuto per poi essere riafferrata dalle spire di Eolo, senza pietà e costretta a ricominciare quel viaggio senza ritorno verso un arcano destino. A Saori parve di sentire il suo grido… era come un grido di bimbo che mai aveva conosciuto la gioia.

Si diede della stupida, la sua immaginazione stava galoppando troppo, non era mai stata tanto riflessiva e sensibile… mai fino al momento in cui aveva preso coscienza di quei sogni, di quella voce… di quei ricordi…

Saltò giù dal letto; forse se si fosse affacciata avrebbe ancora potuto vedere l’amica del ginko che si allontanava, riducendosi sempre più ad un puntino; ma era già così piccola quella fogliolina spersa nelle vastità del nulla che si erano impossessate di lei, vederla ancora sarebbe stato impossibile, forse non apparteneva già più al mondo terreno.

Piccola… come la sagoma fugace che Saori vide sgattaiolare tra i cespugli non appena posò nuovamente lo sguardo all’esterno, tra le viuzze del parco spazzate dalle forti folate che piegavano ogni cosa, una creatura minuscola, seguita da un’altra, ancor più minuta; arrancarono per un po’ a fatica contro il vento quindi scomparvero nel boschetto. Un sorriso tenero comparve sul viso di Saori che subito lo represse, non appena si rese conto di essersi lasciata andare ad una cosa del genere nei confronti del più antipatico e del più piagnucolone tra gli ospiti della villa.

Le venne di fare una passeggiata fuori, ma non avrebbe detto niente a nessuno; se Tatsumi o qualunque altro membro della servitù si fossero accorti che aveva deciso di uscire con un tempo simile, avrebbero fatto un sacco di storie e non aveva nessuna voglia di sopportare le loro lamentele.

Così si mise le scarpe, indossò un cappotto pesante e, dopo aver aperto la porta ed essersi accertata che nessuno potesse notare i suoi movimenti, si infilò nel corridoio, scese le scale e con cautela avanzò fino al portone d’ingresso.

La sferzata di gelo che la colpì non appena mise il naso fuori fu come uno schiaffo feroce, ma non la convinse a rientrare; si strinse maggiormente nel cappotto, rintanò la testolina castana nelle spalle e si avventurò in quella baraonda di vento e foglie. Si diresse decisa verso il folto del boschetto, come se, senza rendersene conto, ancor prima di uscire si fosse prefissata una meta precisa; lei, sempre così calcolatrice, ultimamente erigeva sempre di più a propria guida l’istinto e, benché in qualche modo la cosa la facesse arrabbiare, al tempo stesso la trovava una novità elettrizzante. D’altronde cominciava a comprendere che, dati gli incogniti fenomeni che accadevano in lei ed intorno a lei, era forse necessario lasciarsi trascinare dagli eventi, per vedere dove l’avrebbero condotta, forse solo così le spiegazioni, prima o dopo, sarebbero arrivate da sé.

L’ululato selvaggio portò fino a lei un bisbiglio sottile, come un canto di folletti che dialogavano con le folate furiose e ridacchiavano, prendendo in giro il gigante generatore di tempeste, voci piccole, che pure avevano ragione del grido incessante con il quale la bufera scuoteva il mondo. Saori si chiese se non si trattasse di un’altra delle sue ormai quotidiane illusioni, un ennesimo sogno proveniente da un universo lontano che non comprendeva e al tempo stesso sentiva profondamente suo.

Il vento si fece improvvisamente più gentile, una creatura danzante che la prese per mano e dalla quale desiderò immediatamente lasciarsi guidare, senza porsi domanda alcuna; aveva deciso di non porsene più, di lasciarsi assorbire da quel mistero al momento troppo più grande di lei e che forse, al momento giusto, si sarebbe palesato in ogni sfaccettatura.

Non sapeva se stesse camminando, o volando con i piedi lievemente sollevati da terra mentre le divinità dell’aria si impossessavano di lei, desiderose forse di mostrarle qualcosa; e man mano che la trascinavano più vicina alla meta, udiva quei bisbigli di folletti farsi sempre più vicini, fino ad acquisire maggior concretezza, tanto che lei ne potè individuare, senza troppi dubbi, la provenienza, al di là di un gruppo di ginko, quasi evanescenti, dietro il turbinio delle foglie che tracciavano evoluzioni nell’aria per dare loro l’ultimo saluto.

Corse decisa verso l’albero più vicino e si addossò al fusto, non troppo massiccio, ma lo sconvolgimento del paesaggio in tempesta era sufficiente a nascondere la sua presenza, almeno per il momento.

“Dove vanno le foglie, quando il vento le rapisce e le trascina con sé?”

Saori sussultò, credendo di sentire la propria stessa voce, formulare quella medesima domanda che poco prima si era posta; ma non apparteneva a lei quel pigolio gentile, delicato e al tempo stesso più forte del grido del vento.

“Tu lo sai, Niisan?”

La bambina non ebbe più dubbi e seppe ancor prima di sporgere il volto al di là del proprio nascondiglio chi avesse pronunciato quella domanda sofferta. Shun era accovacciato tra le gambe del fratello maggiore Ikki e i tre amici erano intorno a loro, in apparenza indifferenti alle folate che sembravano scuoterli come se fossero giunchi smarriti in una palude di angoscia… giunchi… che non si spezzano e resistono ad ogni intemperie… si trovò a pensare la bambina e, senza che lei comprendesse il motivo, sentì i propri occhi bruciare, la gola chiudersi per il desiderio di piangere… ma perché? Lei li detestava… o forse non era così?

“Nessuno lo sa, fratellino… forse solo le stelle…”

“E non si rincontreranno mai, tra loro, in futuro? Dovranno restare separate per sempre?”

“Neanche a questo ti so rispondere… mi dispiace…”

Gli istanti di silenzio che seguirono furono pesanti come un macigno sul cuore della piccola ascoltatrice celata al gruppetto e probabilmente anche per i cinque ragazzini risultarono altrettanto opprimenti.

Fu di nuovo colui che, almeno per apparenza, era considerato il piccolino del gruppo a riprendere il medesimo, martellante discorso ma il pigolio della sua voce da uccellino si fece così sottile che Saori a fatica recepì le parole mestamente pronunciate:

“Proprio come noi allora… nessuno sa se… ci incontreremo ancora…”

La frase si spense in un singhiozzo, immediatamente soffocato dall’abbraccio di Ikki che, in un impeto di affetto disperato e rabbioso, afferrò il piccino e lo strinse a sé, mentre rispondeva urlando, senza riuscire a trattenere la propria furia di bambino impotente:

“E invece io lo so! A questo ti so rispondere, perché ci rivedremo eccome!”

Saori non seppe come proseguì quella conversazione o se anche i tre compagni fossero intervenuti successivamente perché, non potendo più reggere ai sentimenti sconosciuti che le sconvolgevano il cuore, diede le spalle alla scena e scappò via, senza più impedire alle lacrime di inondarle il volto, contrariamente al solito non volle neanche provarci; in qualche modo le sembrava giusto piangere… piangere per loro… glielo doveva… si trattava di uno dei tanti misteri ai quali non sapeva dare risposta, ma forse non le importava neanche più. Ciò che contava era che avrebbe desiderato mostrare ai ragazzi le proprie lacrime e avrebbe desiderato asciugare le loro, ma il coraggio di uscire allo scoperto, il coraggio di sopportare il loro odio non seppe trovarlo e preferì fuggire via, come aveva fatto ogni giorno della sua vita, fuggire da se stessa e da loro… sarebbe stata, però, l’ultima volta, lo promise a se stessa.

 

 

***

 

 

Il pullman si allontanò lasciando dietro di sé una scia di vento e foglie che, in una vana rincorsa senza scopo, tentavano di seguire gli ultimi bambini trascinati a forza verso il proprio destino.

Gli adulti, indifferenti alle lacrime che i piccoli non avevano saputo trattenere nell’andare incontro all’incognito futuro, avevano lasciato il giardino per tornare, come se nulla fosse, ai propri impegni, insignificanti di fronte alla vastità del terrore che quelle povere creature sicuramente stavano provando, senza sapere perché.

Un’unica figura quasi invisibile era rimasta, minuscola e sola, appoggiata ad una delle tante colonne che adornavano il perimetro del monumentale palazzo dei Kido, ad osservare le tracce lasciate dalla vettura, ad osservare la polvere che, dopo essere stata sollevata dal movimento delle ruote, si attardava nel vento d’autunno.

Quella bambina se ne stava ferma, eretta, senza cedere al vento che scuoteva le cime degli alberi e non combatteva più contro le lacrime; avrebbe voluto correre, come le foglie, dietro al pullman ma a cosa sarebbe servito?

“Un giorno vi verrò sempre dietro e non vi lascerò mai più soli…” sussurrò, sperando che il vento portasse quel messaggio ad ogni bambino partito verso il misterioso addestramento alla guerra.

Per un momento la bufera cessò e il silenzio che cadde sul parco aggredì le orecchie di Saori come un tuono feroce. Una singola fogliolina di ginko scese dal cielo e si perse tra le fronde sollevate ad accoglierla.

“Chissà se è la stessa?” si chiese la piccola, ricordando la foglia che, qualche giorno prima, aveva bussato, discreta, al vetro della sua stanza.

Sapeva quanto quella domanda fosse retorica, dentro di sé era consapevole come non fosse possibile una risposta affermativa eppure perché, per una volta, non lasciare che la speranza rendesse reale il sogno?

Sollevò lo sguardo, chiuse gli occhi e allargò le braccia, proprio mentre il vento ricominciava a far sentire la propria presenza; mantenendosi salda in quella posizione lo accolse ignorando il gelo che colpì le sue membra:

“Io sono l’albero che proteggerà questo mondo… le foglie che mi sono state strappate via crudelmente torneranno e il mio abbraccio le accoglierà una ad una, per non lasciarle più sole…”

Le braccia ricaddero poi lungo i fianchi, il volto si abbassò e, per un attimo i suoi occhi si sbarrarono sul nulla assoluto; la creatura che per un po’ aveva dominato le forze naturali tornò un’indifesa bambina di sette anni, terrorizzata da se stessa e dall’angoscia delle proprie incontrollate emozioni. In balia del vuoto si lasciò scivolare a terra e si addormentò, cullata dalle innumerevoli mani del fato.

 

   
 
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