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Autore: adamantina    07/06/2013    8 recensioni
“Eravamo noi, noi irriducibili, e avevamo un'intera vita davanti, o perlomeno un'intera estate che brillava delle luci di un futuro che stringevamo in mano.”
[Prima classificata al Superenalotto Contest di syssy5, prima classificata al contest L'orologio delle fanfiction valutato da _Selina_ e seconda classificata al secondo turno del Pop VS Metal Contest di visbs88]
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: La nostra ultima estate
Autore:
adamantina
Squadra:
Pop
Canzone scelta:
The power of goodbye
Fandom:
Originale
Personaggi:
Originali
Introduzione:
“Eravamo noi, noi irriducibili, e avevamo un'intera vita davanti, o perlomeno un'intera estate che brillava delle luci di un futuro che stringevamo in mano.”
Rating:
Verde
Generi:
Malinconico
Avvertimenti:
One-shot
Note (opzionali):
Nella storia sono presenti alcune citazioni: “Non lo spegni il mare, quando brucia nella notte” [Alessandro Baricco], “"Ciò che la fotografia riproduce all'infinito ha avuto luogo una sola volta: essa ripete meccanicamente ciò che non potrà mai più ripetersi esistenzialmente” [Roland Barthes] e “"Se un giorno tornerai, sappi che ti sto aspettando. Ho perso l'occasione di dirti una cosa molto semplice: ti amo. Forse è tardi, ma voglio che tu lo sappia" [Paulo Coelho, leggermente modificata nel testo].

La citazione iniziale e quella finale sono tratte dalla canzone "The power of goodbye" di Madonna.

L'isola in cui è ambientata la storia non ha nome, ma la immagino situata da qualche parte qui in Italia.

Buona lettura!


La storia si è classificata prima al Superenalotto Contest di syssy5, prima al contest L'orologio delle fanfiction valutato da _Selina_. e seconda al secondo turno del contest Pop VS Metal di visbs88.

Partecipa al contest Le quattro stagioni di Aurora_Boreale.


 

LA NOSTRA ULTIMA ESTATE

 

You were my lesson I had to learn
I was your fortress you had to burn
Pain is a warning that something's wrong
I pray to God that it won't be long

 

Il primo ricordo che ho di quel periodo è il sole.

Un sole caldo, violento, impietoso, che illuminava le lunghe giornate di un'estate che pareva non sarebbe finita mai.

Un sole che scuriva la pelle, schiariva i capelli, inaridiva i campi e scaldava la distesa d'acqua che si estendeva all'infinito.

Ecco, l'acqua è il secondo ricordo – azzurra come non lo era mai stata e come non sarebbe stata più, fresca e rigenerante, splendida.

Bastano questi due tocchi di colore per delineare quel primo momento, l'istante in cui dissi definitivamente addio a cinque anni di prigionia tra le pareti impersonali di una scuola superiore: giallo, come il sole cocente di mezzogiorno che splendeva sulle nostre teste, e azzurro, come il mare in cui ci tuffammo, tutti insieme, urlando, festeggiando la gioia inesprimibile di una desiderata fine, di un atteso nuovo inizio.

Quel giallo e quell'azzurro sapevano di libertà – null'altro avrebbe potuto scandire con più adeguatezza il primo giorno di un'estate indimenticabile.

 

Quella sera ci ritrovammo, come sempre, nell'unico pub del paese, gestito da Mario, che ci conosceva per nome da molto prima che avessimo il permesso di comprare alcolici legalmente.

Le birre abbondavano, le risate anche, le imitazioni di insegnanti vecchi e inaciditi si sprecavano. Mi presi il tempo di guardarmi intorno – di guardarci.

Eravamo il solito gruppo di sbandati.

Chi c'era sempre stato, come me, come Diego, il migliore amico che si potesse desiderare, come Luca con le sue battute volgari che ci facevano rotolare a terra, come Lucia con le sue lentiggini e un consiglio sempre pronto, come Dario e Michi che erano una coppia da anni, praticamente una cosa sola.

Chi era arrivato nel corso del tempo, come Cesco, il secchione che però non negava mai una mano a nessuno, come Arianna e la sua scollatura vertiginosa sulla quale cadeva sempre un occhio, come Dani il taciturno, che c'era sempre ma non parlava quasi mai.

Chi c'era stato e poi se n'era andato, lasciando solo un ricordo che ogni tanto tornava alla mente quando si rievocavano aneddoti epici che cominciavano sempre con ti ricordi quella volta che...

Eravamo noi, noi irriducibili, e avevamo un'intera vita davanti, o perlomeno un'intera estate che brillava delle luci di un futuro che stringevamo in mano.

 

«Ci pensi mai a cosa farai l'anno prossimo?»

La mia domanda parve cadere nel vuoto insieme ai sassolini che stavo lanciando giù dalla scogliera. Eravamo seduti l'uno accanto all'altro sul bordo, come migliaia di altre volte, e le onde mascheravano il suono delle pietre che affondavano nell'acqua cristallina.

«Ci penso» ammise Diego alla fine, dopo un lungo silenzio.

Non lo guardai.

«Anche io.»

«Mio padre si aspetta che vada a lavorare in officina con lui.»

«Beh, è un buon lavoro» affermai, pienamente convinto. «E poi sei bravo coi motori. Ti ricordi quando hai fatto ripartire la vecchia automobile di Lucia, su alla Vetta?»

Diego annuì, ma, stranamente, non sorrise.

«Sì. Immagino che andrà così.» Ancora quello strano silenzio, ma poi si riscosse. «E tu che farai, Milo? Ti darai alla tua segreta passione per il lavoro a maglia?»

«Fottiti» tagliai corto, ridendo e colpendolo con un sassolino. «Ho sentito che la figlia di Mario se ne andrà, a settembre, e lui si troverà a corto di personale. Pensavo di chiedergli se posso lavorare lì, almeno per un po'.»

Diego fece un cenno di approvazione, ma lanciò la pietra successiva con un po' più di forza.

«La Marinetti aveva detto che saresti stato un ottimo insegnante, ricordi?» mi chiese.

Mi voltai verso di lui, incredulo.

«Stai scherzando?» sbuffai.

Lui si strinse nelle spalle, evitando il mio sguardo.

«Potresti farlo.»

«Non essere ridicolo. L'università?» sogghignai. «E per cosa? Insegnare ad un gruppo di adolescenti ingrati che non vogliono altro che suoni la campanella? Non che non possa capirli.» Mi passai una mano impolverata tra i capelli. «E poi, dovrei andarmene» aggiunsi. «Lasciare l'isola. Per carità.»

«Già» mi fece eco Diego, ripulendosi le mani sui jeans corti. «Assurdo.» Si alzò. «Vieni a farti un bagno? Credo che Dario e Cesco siano già in spiaggia, a quest'ora.»

Accettai con entusiasmo e dimenticai quella conversazione. Non mi tornò alla mente fino a qualche mese dopo, e allora il senno di poi sarebbe intervenuto per dirmi che avrei dovuto cogliere i segni.

Ma ero giovane, felice, spensierato, e non mi passò neanche per la mente.

 

Un altro ricordo: il balcone di casa mia, un pomeriggio polveroso, i panni stesi ad asciugare su fili tesi tra le case strette.

La voce di mia madre dalla cucina mentre canticchiava piano una vecchia ballata popolare che, quand'ero piccolo, mi faceva da ninnananna.

Il mio sguardo che scivolava sui tetti vicini, sulle viuzze che si intersecavano in un labirinto del quale conoscevo ogni angolo, sulla lingua di mare che si intravvedeva in lontananza, sulle altalene del piccolo parco giochi in cui avevo trascorso intere giornate.

Memorie colorate di pomeriggi passati a rincorrersi per le stradine dell'isola, da bambini, che mi strappavano un sorriso un po' nostalgico.

Eppure, nulla era cambiato.

Quella era ancora la mia famiglia, la mia vita; le mie radici erano profondamente sepolte sotto al ciottolato e si abbeveravano direttamente dal mare, dandomi nutrimento da sempre.

Ero a casa, ed ero felice.

 

Luglio passò e portò via con sé giorni di ozio e risate.

Passavo il mio tempo sulla spiaggia con i ragazzi, o sugli scogli a pescare con Diego, o sul balcone insieme a mio fratello Giovanni, alle prese con i compiti delle vacanze della quarta elementare.

Dani arrivò, un giorno, con una vecchia Polaroid che aveva trovato tra le cose di suo padre, e ci divertimmo a fotografarci in posizioni sciocche, facendo le boccacce, a sorpresa. Allora non ci riflettevo sopra, ma col senno di poi so che ciò che la fotografia riproduce all'infinito ha avuto luogo una sola volta: essa ripete meccanicamente ciò che non potrà mai più ripetersi esistenzialmente. Ma all'epoca sarebbe sembrato un pensiero stupido: erano giorni come molti altri prima di loro, e certamente mille ancora ne sarebbero venuti, simili tra loro. Non c'era bisogno di accumulare ricordi.

Era un'estate calda, pigra, senza scopo, e la stavo vivendo esattamente come avrei dovuto: senza pensarci affatto.

Poi voltammo pagina sul calendario e tutto cambiò.

 

Come sempre, l'arrivo di agosto significava grande festa.

Il settimo giorno del mese si ricordava San Sisto, il patrono dell'isola, e come sempre questo attirava sciami di turisti. Improvvisamente, le strade venivano popolate da persone sconosciute, le spiagge invase da ombrelloni, i bar presi d'assalto.

Non avevo mai amato particolarmente questo periodo dell'anno, al contrario della maggior parte dei miei amici, che accoglievano la folla come una ventata d'aria fresca. Da parte mia, tendevo a passare quei giorni un po' in disparte, a disagio, aspettando che tutto tornasse come prima, che il mio paese ricominciasse la sua vita quotidiana.

Una sera, tuttavia, mi scoprii impossibilitato a rifiutare la proposta di Diego di uscire e passeggiare per la fiera. La sua insistenza e le sue minacce mi costrinsero a cedere e raggiunsi lui e il resto del gruppo.

La notte era illuminata da numerose lanterne poste sui balconi, che rendevano l'atmosfera quasi fiabesca. Per i vicoli che si snodavano nel centro, le bancarelle si rincorrevano, schiacciate contro i muri in pietra, lasciando poco spazio alla gente per camminare tra i due lati della strada. Il profumo di dolci e zucchero filato pervadeva l'aria fresca.

Mi ritrovai a divertirmi, mio malgrado, ridendo per il buffo cappello da messicano che Cesco si era comprato e che portava con orgoglio.

Arianna ci convinse a fermarci in una delle bancarelle e a comprare alcuni di quei braccialetti di stoffa colorata che ritornavano di moda tutte le estati.

«Dovete esprimere un desiderio e annodarli tre volte» ci spiegò la signora che li vendeva con assoluta convinzione. «E non dovete toglierli finché non si staccano da soli, altrimenti il desiderio non si avvererà.»

Tra le risate e le prese in giro per la sciocca superstizione, cedemmo tutti e acquistammo un braccialetto a testa, annodandocelo ai polsi a vicenda.

Io lo legai a Diego, avendo cura di formare tre nodi, e lui ricambiò il favore. Mentre me lo chiudeva, espressi in silenzio il mio desiderio, senza troppa serietà.

Vorrei che tutto restasse com'è ora.

 

Proseguimmo per le vie, fermandoci in piazza per ascoltare un gruppo che suonava la musica tradizionale dell'isola, e cantammo in dialetto a squarciagola, sbagliando le parole, cambiandole con vari torpiloqui, finché le occhiatacce della gente non ci convinsero ad andarcene, sempre ridendo come matti.

In una via laterale ci imbattemmo in un gruppo di ragazzi sconosciuti. Dalle apparenze – i vestiti alla moda, la pelle poco abbronzata, i visi delle ragazze perfettamente truccati – era chiaro che si trattava di turisti.

«Ehi» ci chiamò una di loro, una bionda vestita di rosso, che, avrei scoperto in seguito, si chiamava Diana. «Siete di qui?»

«Già» rispose Luca, facendo un passo avanti con la sua migliore espressione seducente. «Possiamo fare qualcosa per aiutarvi?»

«Conoscete un bel posto dove andare a bere qualcosa?»

«Naturalmente!»

E fu così che ci ritrovammo nel pub di Mario a bere birra e a fare conoscenza.

Venne fuori che il gruppo, composto da tre ragazzi e quattro ragazze, veniva dal nord, da una grande città. Osservai in silenzio i miei amici ascoltare rapiti la descrizione di quello che sembrava un luogo favoloso – grattacieli, locali alla moda, vie ricolme di negozi, linee della metropolitana, discoteche, università prestigiose, taxi, musei, monumenti.

Non mi sembrò molto interessante: come potevano essere felici di vivere in un luogo freddo, senza il mare, con luci troppo forti perché si potessero vedere le stelle?

 

Passammo con le nostre nuove conoscenze parecchio tempo, nei giorni successivi.

Non c'era niente da fare, però: mentre gli altri stringevano amicizie, io tendevo a restare sulle mie. Non sapevo esattamente la ragione della mia istintiva diffidenza verso quel gruppo: ero una persona socievole, in genere. Tuttavia, c'era qualcosa, in loro, che mi rendeva stranamente inquieto.

Non capii di cosa si trattava finché non fu troppo tardi.

La sera prima che loro tornassero a casa, organizzammo un falò sulla spiaggia. Vi cuocemmo sopra spiedini di carne e pesci; la mia trota si annerì in fretta a causa della mia distrazione.

Mentre la musica suonava lenta, uscendo dalle casse del vecchio stereo di Cesco, mi ritrovai ad osservare Diego, poco distante. Era silenzioso, quella sera; forse ne aveva motivo. Quel pomeriggio, mentre attraversavo il paese per andare dal fruttivendolo per conto di mia madre, lo avevo visto in un vicolo laterale, intento a baciare Diana. Non ero rimasto sorpreso dell'evento in sé, perché li avevo visti molto vicini negli ultimi giorni, quanto del fatto che lui non me ne avesse parlato.

Fino a quel momento, era stato naturale raccontarsi ogni cosa: ero stato il primo a sapere di quella volta in cui Diego aveva infilato le mani sotto la camicetta di Arianna, e io gli avevo descritto nei dettagli che cosa esattamente io e Lucia avessimo fatto un pomeriggio d'inverno, soli a casa sua.

Eppure, anche quando ci eravamo visti, Diego non aveva accennato a Diana. Non aveva parlato di niente in particolare, in realtà; era stato molto taciturno.

Immaginai che fosse triste perché lei sarebbe partita il giorno successivo e decisi che sarebbe stato meglio lasciarlo in pace. Tuttavia, notai anche che non stava facendo alcuno sforzo per stare vicino a lei, che invece stava ridendo con i suoi amici dall'altro lato del falò.

Dopo qualche minuto di incertezza, mi decisi ad alzarmi.

Raggiunsi Diego e mi sedetti sulla sabbia accanto a lui. Non dissi nulla per un po', limitandomi a guardarmi intorno.

Il fuoco divampava alto, il suo crepitio non del tutto mascherato dalla musica. La spiaggia era deserta, eccezion fatta per noi; uno spicchio di luna splendeva nel cielo sopra di noi, attorniata da uno stuolo di stelle. Ero convinto che non ci fosse un altro posto al mondo dove le stelle si potessero vedere nello stesso modo di lì, sulla mia isola.

E il mare... il mare lo vedevo attraverso lo specchio del falò, e pareva che le fiamme lo stessero lambendo. Non mi sembrò un buon segno – non lo spegni il mare, quando brucia nella notte.

Guardai Diego. Avrei voluto chiedergli se andava tutto bene, ma lo conoscevo abbastanza da sapere che non avrebbe gradito la domanda. Mi limitai ad incrociare il suo sguardo senza dire nulla e, come mi aspettavo, fu lui a parlare per primo.

«Me ne vado, Milo» disse.

Quattro parole, e il mio mondo andò in pezzi.

 

Diego mi parlò a bassa voce.

Era l'una di notte del nove di agosto, tutto ciò che avevo si stava rapidamente sgretolando, ma lo lasciai sfogare.

Mi disse ciò che provava, che si sentiva fuori posto, sprecato, rinchiuso. Mi disse che l'isola non era più abbastanza, che sarebbe morto se avesse dovuto restare lì per sempre.

Mi parlò di Diana e del suo gruppo, dell'invidia bruciante che aveva sentito e che ancora provava nei loro confronti, per ciò che avevano senza neanche rendersene conto.

Mi spiegò che non se ne andava per seguire lei, ma per trovare se stesso, il suo posto nel mondo.

Ascoltai in silenzio, senza capire.

Per me erano problemi insensati: quell'inquietudine mi era estranea. Per me l'isola era una casa, non una prigione, e non provavo certo invidia nei confronti dei turisti che venivano dalla grande città.

Eppure, quando Diego smise di parlare e io fui costretto a voltarmi verso il falò perché non riuscivo ad incrociare il suo sguardo, capii che non era vero.

Guardando Diana e i suoi amici che ridevano, mi resi conto che in effetti era davvero invidia quella che provavo – perché loro avevano già tutto ciò che potessero desiderare, eppure avrebbero preso anche Diego e se lo sarebbero portati via.

E a me, allora, cosa sarebbe rimasto?

 

Quella sera tornammo a casa insieme, senza parlare.

La musica era cessata, il rumore delle onde era ormai alle nostre spalle e il vento aveva smesso di soffiare: il silenzio era assordante.

Quando arrivammo di fronte alla porta di Diego, ci guardammo.

Cercai disperatamente qualcosa da dire, qualunque cosa che non fosse ciò che avrei voluto dire veramente: resta.

«Fai buon viaggio» tirai fuori invece.

Lui annuì. Per un momento scorsi qualcosa nei suoi occhi – delusione, forse, o rimpianto. Ma scomparve subito dietro ad un mezzo sorriso e io mi convinsi di essermelo immaginato.

«Grazie, Milo.»

«E fatti sentire» aggiunsi.

«Certo.»

L'imbarazzo calò su di noi. Fui io a spezzarlo, mormorando buonanotte e allontanandomi in fretta.

In bocca mi restava il residuo amaro delle parole che non ero riuscito a dire.

 

Partirono la mattina dopo.

Mentre guardavo il traghetto che lasciava il porto (così piccolo, in lontananza, da non sembrare altro che una barchetta di carta), al sicuro sul balcone di casa mia, pensai che forse era stato meglio così. Era stato un taglio netto, effettuato con forbici tanto affilate da non fare quasi male. La ferita sanguinava, ma mi pareva di non sentire nulla. Non ancora, almeno.

Spostai lo sguardo sulle vie deserte.

La mia isola, improvvisamente un po' più vuota, non sembrava più così accogliente.

 

Vorrei poter dire che tutto si sistemò, che il mio lavoro al pub di Mario era entusiasmante, che non desiderai mai andare via anche io.

Naturalmente, non è mai stato così semplice.

L'estate passò e giunsero i venti autunnali, portando via con sé gli ultimi turisti e anche Dario, Michi e Cesco, che cominciarono l'università.

Io e i ragazzi iniziammo a lavorare, trovandoci ancora ogni tanto, la sera, sempre da Mario, e ricordando i bei vecchi tempi tra birra e risate.

Mi adattai a quella vita diversa perché era sempre casa: ogni volta che pensavo alla remota, irreale possibilità di andarmene, il timore mi frenava. No, l'isola era il posto a cui appartenevo, non sarei fuggito – perché poi ero certo che avrei finito per tornare, e allora sarebbe stato ancora peggio.

Mi mancavi, Diego, non potevo negarlo. Ci pensavo ogni volta che passavo vicino a casa tua, o quando capitavo sugli scogli dove eravamo soliti sederci insieme per lanciare sassi nel mare sottostante. Ripensavo al nostro ultimo saluto, davanti alla tua porta, e alle parole che non avevo saputo pronunciare.

Ancora adesso, dopo tanto tempo, mi capita di ricaderci.

Gli anni sono passati, io e Lucia ci siamo sposati – io ho rilevato il pub quando Mario è andato in pensione, lei mi tiene la contabilità – e non abbiamo mai parlato di lasciare l'isola. Ci amiamo e siamo contenti di restare qui; se mai ci capiterà di avere dei figli, cresceranno come noi tra questi vicoli stretti e la spiaggia assolata.

Tu, Diego, non ti sei mai guardato indietro.

Se un giorno tornerai, sappi che ti sto aspettando. Ho perso l'occasione di dirti una cosa molto semplice: ti voglio bene. Forse è tardi, ma voglio che tu lo sappia.

Tutto è cambiato, qui sull'isola, ma in fondo tutto è sempre com'era allora. Se mai ti venisse voglia di tornare a casa, ricordati della nostra ultima estate. Il mio braccialetto ormai si è staccato e il mio desiderio... beh, in una certa misura si è avverato. Mi chiedo quale fosse il tuo, e se si sia realizzato quella mattina in cui hai lasciato l'isola per sempre.

Una parte di me, piccola e nascosta, ancora spera che il tuo braccialetto non si stacchi finché non tornerai a casa.

 

There's nothing left to try
There's no place left to hide
There's no greater power
Than the power of good-bye



     

 




   
 
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