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Autore: Rosmary    08/06/2013    12 recensioni
Non è detto che si debba dire solo di eroi e favolose gesta. Esistono storie più ordinarie, di persone che combattono quotidianamente le proprie insicurezze.
Persone che sbagliano e che, nonostante l'orgoglio, trovano il coraggio di tornare sui propri passi.
Era il pieno della seconda guerra magica e Ron era tormentato dall'insicurezza che l'aveva addirittura condotto lontano dai suoi più cari amici. Fu un incontro particolare a scuoterlo dal torpore.
“In fondo, non c’era nulla di speciale, di strano, nel sentirsi sbagliati, incompresi e sottovalutati. La maggior parte delle persone viventi attraversa momenti del genere. Non era certo una novità, dopotutto, che un adolescente non si accettasse. Alla fine, il tuo male non era poi tanto speciale, ma il prenderne atto non ti aiutava a star bene. Certo, ridevi, scherzavi, vivevi come tutti gli altri, ma in te c’era sempre un’odiosa spia pronta a scattare, a dare l’allarme, a ricordarti che non eri mica come tutti gli altri. Non tu! Tu eri soltanto l’ultimo ogni volta. L’ultimo continuamente. L’ultimo di professione. L’ultimo, tu, in ogni dannatissima occasione."
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: James Potter, Ron Weasley
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
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I personaggi di questa storia appartengono a J.K. Rowling;

la storia è stata scritta senza scopo di lucro.


 

Non solo eroi

A chi non crede più negli eroi.
A chi ha costantemente paura d'essere l'ultimo.
A chi ha il coraggio di alzarsi e mettersi in gioco.
A Ron, che è il primo a bistrattarsi.

 


L’aguzzino che tormentava il luogo dove passavi la notte, te ne accorgesti presto, era il vento gelido, che t’infilzava con cattiveria. Riuscivi soltanto a tremare di paura, freddo e rabbia. Ti sembrava d’essere passato dallo status di potenziale eroe del ventesimo secolo a malfattore disadattato di bassa leva, e tutto nel giro di qualche ora. Non era come l’avevi immaginata, l’agognata libertà. Non lo era per niente. Nessuna tua sensazione somigliava, anche solo vagamente, a quelle che avevi immaginato di provare quando, finalmente, avresti avuto il coraggio di gettare fuori tutto quel male che ti logorava dentro da tempo, forse da sempre.
Rigiravi quel bicchiere di carta vuoto tra le mani, la Burrobirra l’avevi divorata da un pezzo, tutta d’un sorso, e non avevi provato nulla, nulla, né ristoro, né calore, né acquolina. Nulla. Solo amarezza al ricordo d’averla dovuta rubare a uno di quegli sciocchi Ghermidori, catalogati da te come troppo stupidi per berla, nel vano tentativo di far apparire il furto meno riprovevole ai tuoi stessi occhi.
Una folata di vento più cruenta di altre ti costrinse a stringerti nelle spalle, schiacciando ancora di più la schiena contro il muro. Il fondoschiena, rovinosamente a contatto con uno sporco marciapiede, era dolente e intorpidito al contempo. Ti disturbò una stupida domanda: saresti mai riuscito ad alzarti di nuovo?
Ridesti amaro della formulazione della mente. Quante volte te l’eri posta, quella domanda. E quante volte t’eri costretto ad annuire.
Perché la sensazione d’essere a terra non t’aveva mai, mai, mai abbandonato.
Era una delle storie più vecchie del mondo la tua, lo capivi. In fondo, non c’era nulla di speciale, di strano, nel sentirsi sbagliati, incompresi e sottovalutati. La maggior parte delle persone viventi attraversa momenti del genere. Non era certo una novità, dopotutto, che un adolescente non si accettasse. Alla fine, il tuo male non era poi tanto speciale, ma il prenderne atto non ti aiutava a stare bene. Certo, ridevi, scherzavi, vivevi come tutti gli altri, ma in te c’era sempre un’odiosa spia pronta a scattare, a dare l’allarme, a ricordarti che non eri mica come tutti gli altri. Non tu! Tu eri soltanto l’ultimo ogni volta. L’ultimo continuamente. L’ultimo di professione. L’ultimo, tu, in ogni dannatissima occasione.
Era sempre il momento per sentirsi inadeguato, che fosse un pranzo di famiglia, una rimpatriata tra amici, un’interrogazione o un duello non aveva importanza. Sapevi già che ti saresti sentito inadatto. Quello sbagliato al posto sbagliato t’eri sempre definito. Giusto non esisteva, non poteva associarsi a te neanche in un’altra vita.
Era in momenti come quello che stavi vivendo, schiacciato contro un muro a Diagon Alley, che ti chiedevi cosa diamine fossi nato a fare. Non servivi a niente. Non eri mai servito a niente. Sin dalla tua nascita, eri stato designato come l’ultimo. L’ultimo dei figli maschi, l’ultimo dei fratelli Weasley a frequentare Hogwarts e l’ultimo, l’ultimo, l’ultimo. Non c’era speranza per te di poter essere primo in qualcosa, non c’era! Qualsiasi fosse stata la tua prima parola, qualcun altro era già arrivato prima di te e così per i primi passi, per i primi disastri, per i primi capricci. Non avevi avuto neanche la soddisfazione d’essere il primo nella tua più grande passione: cinque fratelli e tutti già appassionati di Quidditch. Ma non finiva certo lì! Persino la tua prima magia, t’aveva rivelato tra la commozione tua madre, era stata la stessa compiuta da Bill. Già, Bill… il primo sempre, sarebbe stato primo anche se fosse arrivato per ultimo, essere primo era nel suo perfetto genoma. E poi c’era Charlie, con la sua fisicità e il carisma, capace di far parlare di sé l’intera Inghilterra magica pur vivendo da anni in Romania. E Percy con la sua idiozia, il primo Weasley a “tradire i Traditori” per schierarsi con i Purosangue. Ai gemelli non riuscivi neanche a pensare, a loro due somigliavi tanto, in fondo eravate scapestrati allo stesso modo ed era proprio questo il tuo problema: loro erano la versione giusta di te, quella senza errori, quella buona. Ti ricordavano costantemente che non eri neanche riuscito a farlo come si deve, il ribelle. Infine, a sottolineare quanto non fosse nel tuo destino essere primo in qualcosa, c’era Ginny, la prima figlia, la femminuccia tanto desiderata da mamma e papà. Assurdo, non eri riuscito neanche a nascere femmina!
Al tempo di Hogwarts le cose non erano cambiate affatto, di nuovo l’ultimo, in tutti i sensi. Della classe, dei maschi Weasley a Grifondoro, del Quidditch. Persino in amicizia il tuo stupidissimo codice genetico errato, programmato per farti sentire continuamente inferiore al mondo, era riuscito a prendersi gioco di te. Tra le centinaia di studenti che popolavano quell’enorme castello, tu, proprio tu, eri il migliore amico di Harry Potter, il nato primo.
Alla tua storia non c’era altro da aggiungere, e ormai, ripercorrendo la tua vita sotto quella luce, t’era venuto da ridere in modo convulso. Delle lacrime s’affacciarono ai tuoi occhi e non volesti capire se fossero causate dal riso o da quel male che aumentava di secondo in secondo.
Alla fine dei giochi, lì, al freddo, ti rendesti conto d’essere stato l’ultimo anche nel tradire i tuoi migliori amici, nell’abbandonarli. E ti facevi schifo, non c’erano altri termini, se pensavi che prima di te c’era stato solo Minus.
Fu allora che pensasti a quanto fosse completamente inutile la tua esistenza. Anzi, più che inutile! Letteralmente dannosa. Sì. Dannosa per te, che soffrivi, e per chi ti circondava, che doveva sempre guardarsi da quel traditore che sapevi essere.

“Meglio non fossi mai nato.”

“Sei sicuro di quello che dici?”

“Certo che lo sono! Se morissi ora, farei solo soffrire quei poveracci che hanno dovuto affezionarsi a me.”

“Parli come se fossi un cane, ragazzo! E ti assicuro che non lo sei, io i cani li conosco bene!”

“Ma chi miseriaccia sei?” sbottasti infine, rendendoti conto solo in quel momento d’avere un interlocutore. Buffo, ma in un primo momento t’era sembrato che quella seconda voce venisse dalla tua testa.

Il ragazzo che era seduto accanto a te sul marciapiede ti sorrise sghembo, un sorriso per nulla raccomandabile, che ti ricordò immediatamente quelli di Fred e George. Aveva scarmigliati capelli neri, occhi scuri e degli occhiali da vista tondi. Ti era molto familiare, ma complici il gelo e la confusione non riuscivi ad associare quel volto a un nome.

“Mi conosci, ragazzo, mi conosci.”

“Taglia corto, amico, non mi ricordo di te. Chi sei?”

Francamente, non avevi la forza per giocare a indovina chi con quello. Lui, al contrario, sembrava in perfetta forma, persino allegro, come se non appartenesse al tuo stesso mondo lacerato e imbruttito dalla guerra. Notasti che aveva più o meno la tua età, forse un po’ più grande, forse l’età di Charlie. Di sicuro non aveva più di ventuno o ventidue anni. Ma chi potesse essere a te proprio non veniva in mente.

“Mi chiamo James,” disse, “Potter.”

Lo schiantasti.
Non ci pensasti neanche due volte ad aggredirlo. Un ragazzo dal ghigno facile, che si presenta come James Potter, poteva essere solo uno svitato o un Mangiamorte in incognito alla ricerca di Harry. In entrambi i casi, dunque, andava messo al tappeto. Peccato che facesti un buco nell’acqua: il potente fiotto rosso si infranse contro il corpo di quel folle, ma sembrò non fargli neanche il solletico. Ti schernì persino James, mimando di cascare dal marciapiede.

“Davvero un bel tentativo, Ron, ma non hanno ancora inventato gli Schiantesimi per i morti!”

“Basta ora! Chi sei? Bada che non ci perdo tempo a farti diventare un morto per davvero!”

Nel dirlo eri balzato in piedi, con la bacchetta puntata contro quello che definivi l’avversario. Avevi sputato quella minaccia con nervosismo, consapevole di non essere in grado di uccidere. Non saresti mai riuscito a dire quella formula. Mai. Eri l’ultimo anche in quello: per quanto potessi infuriarti, non riuscivi mai a farla pagare davvero a quegli assassini. Era più forte di te, uccidere non era previsto nel tuo errato codice genetico, neanche in guerra.
Vedesti James divaricare le braccia, mostrarsi disarmato, scuotere il capo e sorriderti bonario.

“Vuoi uccidermi, Ron?” chiese retorico.

“Solo se non ti decidi a dirmi chi sei, cosa vuoi e come conosci il mio nome,” minacciasti ancora, sempre più teso.

“Non ti facevo così aggressivo! Chi sono te l’ho detto, il tuo nome lo conosco perché sei amico di mio figlio…”

“…Il padre di Harry è morto!”

“Infatti io sono morto. Anzi, non so neanche come abbia fatto quel vecchiaccio di Silente a farmi venire qui.”

“Cosa c’entra Silente?”

“Lui c’entra sempre, di certo non è stato Harry. Mio figlio sarà anche un grande mago, ma gli manca la scintilla del genio, non ha preso da me.”

Calasti la bacchetta. Non avresti saputo spiegare a nessuno, neanche a te stesso, cosa ti spingesse a calare le difese, a fidarti di un tizio che diceva d’essere un morto, chiamato da Silente, e padre del tuo migliore amico. Quella situazione ti sembrò completamente folle. Raccogliesti il bicchiere di carta da terra, quello dove c’era la Burrobirra, e lo annusasti, timoroso d’aver bevuto qualcos’altro, magari con un elevato tasso alcolico.

“Non sei ubriaco,” sbottò James stizzito, notando il tuo gesto.

“Allora ho le traveggole.”

“Può darsi. Magari te le ha fatte venire quel mattacchione di Silente! Così ora mi vedi e mi senti!”

“La smetti di insultare Silente?”

“Non lo sto insultando! Non l’ho ancora chiamato hippie svitato!”

“Hippie svitato?”

“Gli hai visto quella barba?! Fu Sirius a chiamarlo hippie per la prima volta, leggeva un giornalino Babbano che parlava di questi hippie e avevano tutti queste barbe… sempre un po’ allegretti… e Silente… sai, le parole d’ordine, i discorsi strampalati, io come Caposcuola… uno svitato!”

Notasti che gesticolava mentre parlava e che aveva lo sguardo rapito, similmente a te e Harry quando ricordavate dettagli esilaranti di un pomeriggio trascorso in compagnia.
Fu quello l’istante in cui impallidisti: per una ragione che non t’era nota, stavi facendo la conoscenza di James Potter. Non ci volle molto prima che il senso di colpa nei confronti di Harry t’aggredisse, non eri tu che dovevi conoscere quel ragazzo. Non aveva senso!

“Non sentirti in colpa, Ron. Va bene così!”

“C-come?”

“Ma sì! Sento quello che provi. Non so perché, ma lo sento. Comunque, bando alle ciance, Weasley! Devo farti passare la tristezza!”

“Eh?!”

“Certo che sei un po’ tardo! Sirius ha ragione!”

“Cosa dice Sirius?”

“Peccato non ci sia Remus, lui ti difenderebbe! Cioè… per carità… peccato non nel senso di peccato non sia morto anche lui, ma peccato nel senso di oh, peccato non poterci fare una bevuta insieme, capito?”

No. Non avevi capito affatto. James sembrava completamente perso nei suoi ragionamenti. Non eri sicuro di poter reggere un’intera conversazione con lui, era anche snervante per certi versi, aveva un insopportabile atteggiamento da primo, e poi continuava a passarsi la mano tra i capelli!

“Smettila di sparlare di me!”

“E tu smettila di leggermi nel pensiero,” sbiancasti, “tutto questo è assurdo!”

“Senti, devo farti vedere come sarebbe se non fossi mai nato.”

“Che?”

Alzò gli occhi al cielo, frustrato. “Stupido hippie barbuto! Ma proprio me dovevi mandare! Tanto so che sei stato tu a fare qualche stregoneria con qualche mio bel capello!” tornò a guardarti, trovandoti allucinato. “Senti, segui me, non fare storie. Capirai tutto… spero.”

“Certo che sei antipatico.”

“Ehi, porta rispetto, ragazzino, che sono più vecchio di te!”

Ti mordesti la lingua. Per essere più vecchio di te, riflettesti, era abbastanza infantile. Ma, dopotutto, neanche Sirius era mai stato questo campione di maturità e Sirius era il suo migliore amico, dovevano pure avere qualcosa in comune. Furono questi i pensieri che ti guidarono in quel viaggio al di là della tua immaginazione. Non capisti bene cosa fosse accaduto, t’avvedesti solo di James che ti costrinse a Smaterializzarti assieme a lui. Conoscevi bene quella sensazione, fu persino piacevole provarla, ti sembrò addirittura di confondere James con Harry e questo ti portò a cercare Hermione. Peccato che quando ritoccasti terra la tua mente fu impietosa, ricordandoti che no, non eri più con i tuoi migliori amici, eri con un… fantasma? Neanche avresti saputo definirlo, James.

“Riconosci questo posto?”

Provasti a guardarti intorno, non ci volle molto per comprendere dove t’aveva portato. Sorridesti. Erano mesi che non sorridevi così, spontaneamente. Quella dinanzi a te era la Tana, era casa. Strofinasti goffamente gli occhi, tentando di cacciare via delle lacrime di commozione o forse di disperazione. Avresti dato tutto per vedere, anche da lontano, i tuoi familiari e accertarti di persona che stessero bene, senza nulla di rotto o di mancante.

“Stanno tutti bene, Ron.”

Ancora una volta lesse il tuo cuore. Quella volta, però, ti parve che la voce del papà di Harry avesse una intonazione triste, dispiaciuta. Ma decidesti di non interrogarlo, convincendoti d’aver male interpretato tutto. Lui, che conosceva ogni tuo pensiero, notasti che non ti rincuorò, non di nuovo, preferendo tacere.

“Posso avvicinarmi? Io… non mi farò vedere, voglio solo guardarli un po’.”

James scosse il capo. “Non vedrai ciò che sta accadendo ora, Ron. Vedrai quello che è già accaduto.”

“Non ti capisco.”

“Segui me.”

E lo seguisti. La Tana era esattamente come la ricordavi: logora vista dall’esterno, calorosa e accogliente vista dall’interno. James ti permise addirittura di entrare e non ti facesti pregare. Non credevi affatto alla storia del “è già accaduto”, eri convinto di trovarti nel presente, convinto che da un momento all’altro sarebbe spuntata tua madre, col volto stanco e preoccupato, e ti avrebbe stritolato in un abbraccio amorevole, chiamando a raccolta tutta la famiglia. Sorridesti al solo pensiero, pregustando il momento in cui sarebbe successo. Ma i secondi passavano e nessuno si mostrava. Era strano. Casa tua non era mai tanto silenziosa, non quando avrebbe dovuto esserci tutta la truppa riunita, dopotutto era quasi Natale.

“James, dove sono tutti?”

“Li vedrai tra poco.”

Annuisti, profittando per gironzolare un po’. C’era qualcosa, in quell’ambiente, di diverso. Non sapevi spiegare in quale modo fosse diverso, ma percepivi un cambiamento rispetto a ciò cui eri abituato. E poi lo vedesti, il vostro ingegnoso orologio. Strabuzzasti gli occhi e impallidisti. C’erano otto lancette, otto. Papà, mamma, Bill, Charlie, Percy, Fred, George e Ginny. E tu? Tu dov’eri?

“Cos’hai fatto? Dov’è la mia lancetta?”

Arrabbiato e spaventato, aggredisti James urlandogli contro, ma proprio in quell’istante una bambina di sette anni entrò nella stanza dov’eravate voi due. La bambina aveva lunghi capelli rossi, un visino dolce e un’aria triste. Se possibile, sbiancasti ancora di più. Potevi percepire il colorito abbandonare la tua carnagione. Puntasti l’indice destro contro la bambina, che sembrava non accorgersi di voi, e schiudesti le labbra, come a voler dire qualcosa, ma riuscisti solo a boccheggiare come un perfetto idiota.

“Sì, è Ginny,” intervenne James, spezzando il silenzio. “La trovi diversa?”

“Certo che la trovo diversa, è piccola! Cosa le hai fatto?”

Lo guardasti in cagnesco ed estraesti di nuovo la bacchetta. Forse, avresti ucciso davvero. La tua famiglia no, Ginny no. Ma il tuo misterioso interlocutore non batté ciglio, nuovamente ti mostrò i palmi delle mani in segno della sua mancata belligeranza.

“Te l’ho detto. Stai vedendo come sarebbero stati questi diciassette anni se tu non fossi mai nato.”

“È una follia,” sibilasti tremante.

“Tutto a tempo debito, Ron,” ti sorrise conciliante. “Guardala. Guarda tua sorella.”

All’invito, i tuoi occhi cercarono la minuta figura di Ginny, che se ne stava seduta al tavolo della cucina, annoiata, giochicchiando con due mestoli in legno, immaginando fossero persone. Deglutisti. Li ricordavi, quei momenti. Prima di Hogwarts, passavate tutta la giornata insieme, a giocare e a litigare. I vostri fratelli non c’erano mai e, anche quando erano in casa, erano sempre troppo indaffarati per passare l’intera giornata con te e Ginny.

“Bill è a lavoro, ha iniziato…”

“…il tirocinio alla Banca, sì, lo ricordo,” completasti scioccato.

“Già,” ammise James, “Charlie e Percy sono rimasti a scuola invece. Charlie vuole vincere la Coppa di Quidditch e Percy non vuole distrarsi dagli studi.”

“Ci sono Fred e George!” esordisti rincuorato. Ginny non era sola. “Quando io avevo otto anni, loro non erano ancora andati a Hogwarts. Ci sono Fred e George!”

Vedesti l’altro inarcare un sopracciglio, scettico. “Ma loro non hanno mai giocato con voi.”

“Sì, sì! Giocavamo, noi… ogni tanto… noi giocavamo,” affermasti con tono sempre più flebile.

“Ogni tanto, infatti. Fred e George sono in mansarda, stanno tagliuzzando uno dei riconoscimenti di Percy,” ghignò, “hanno tutta la mia stima! Ma il punto non è questo.”

“Infatti, dove sono mamma e papà?”

“Tua madre sbriga le faccende, tuo padre è a lavoro,” spiegò spiccio. S’avvicinò a te, poggiandoti la mano sinistra sulla spalla. E tu, tu continuavi a guardare la piccola Ginny, che era sola e spenta. Avresti voluto giocare con lei, impugnare una delle due cucchiaie in legno e far ridere tua sorella. Avresti voluto che potesse vederti, che potesse sentirti. “Non è possibile, Ron, non puoi interagire con una dimensione che non esiste,” ti spiegò paziente James.

“Voglio andare via. Mi fa solo stare male vederla lì.”

“Ma non devi stare male, devi capire.”

“Cosa?”

“Che se lei è sola e triste è perché non ci sei tu. Non sei nato, non ci sei tu nella sua vita. È la più piccola, gli unici che hanno l’età per giocare con lei sono troppo impegnati a isolarsi dal mondo. Ecco come sarebbe stata l’infanzia di tua sorella se non ci fossi stato.”

Non ti diede tempo di metabolizzare, di ribattere, poiché svaniste nuovamente. Visitasti assieme a lui altri momenti relativi alla tua famiglia. Vedesti Ginny sempre più sola, coccolata da tutti, certo, ma sola nella quotidianità. Vedesti Percy andare via di casa a soli sedici anni, ospite di un compagno di scuola, perché stanco d’essere continuamente vessato dai due fratelli minori.

“Da dire è un po’ brutto, ma, non essendoci tu, i gemelli hanno concentrato tutte le loro attenzioni su Percy e lui, che ha sempre pensato d’andarsene via, ha fatto le valige prima del tempo,” ti aveva spiegato James.

Era veramente assurdo, ma, in quella prospettiva, sembrava davvero fondamentale la tua esistenza. Nonostante tutto, però, ancora non ti era chiaro quale fosse lo scopo di quella messinscena. Qualsiasi cosa James t’avesse mostrato non avrebbe potuto renderti meno ultimo. Quando la tua guida decise che fosse abbastanza, lo scenario di quelle visite indiscrete mutò completamente: non più la Tana, ma Hogwarts e, in particolare, il primo viaggio sull’Hogwarts Express. Ricordavi quel giorno come uno dei più emozionanti della tua vita ed essere lì, al binario, circondato da facce e situazioni che conoscevi, senza poterle vivere, ti destabilizzò e incupì. Notasti che Ginny non piangeva e non poneva domande, al contrario, era molto silenziosa, rintanata nei suoi pensieri, rigirando una bambola di pezza tra le mani.

“Eccolo!” disse d’un tratto James, a cui, notasti, brillavano gli occhi.

Non impiegasti molto a comprendere perché il tuo accompagnatore fosse divenuto improvvisamente radioso: a pochi metri da voi due, intento a salire sul treno, c’era Harry, così piccolo e confuso, con quella matassa di capelli informi, che, osservasti ridendo, era identica a quella del padre.

“Seguiamo lui, vero? Io ho fatto il viaggio con lui.”

“Sì, vieni!”

Seguisti l’entusiasta James in silenzio, rispettoso della sua gioia, che immaginavi si mescolasse al dolore. Ed eccovi lì, in quello scompartimento, dove un curioso Harry Potter attendeva la partenza. Trascorse metà del viaggio da solo e annoiato. Non acquistò nulla dal carrello dei dolci, non aveva fame. Anche in quell’occasione, avresti dato tutto per potergli parlare e tenergli compagnia. Poi, finalmente, arrivò qualcuno e tu sapevi chi fosse. Ma Hermione non si fermò con Harry, anzi, la tua imbranata assenza non trattenne la ragazzina, che assodata la "questione Oscar" non ebbe nessun motivo per fermarsi a parlottare con Harry, che, timido, le aveva risposto a monosillabi.

“Ma perché non entra nessuno!” sbottasti per l’ennesima volta.

James ti guardava con aria di rimprovero. “Conosci la risposta. Avresti dovuto esserci tu, ma tu…”

“…Non esisto, lo so! Ma se non ci sono io, c’è qualcun altro, no?”

“No,” rispose piatto. “Non funziona così. Se non ci sei tu a occupare il tuo posto, non c’è nessun altro.”

Ma qualcun altro arrivò e James non poté trattenersi dallo storcere le labbra e biascicare qualcosa di molto poco carino tra i denti. Un bambino magro, dal volto pallido e chiari capelli biondi, s’affacciò allo scompartimento di Harry. Alle spalle del bambino c'erano altri due undicenni, più grossi e dall’aspetto tonto. Conoscevi quella scenetta. Malfoy che si presentava, che presentava Tiger e Goyle e che denigrava te. Peccato che tu non ci fossi e, non avendo nessuno da denigrare, il piccolo Draco non mostrò immediatamente il suo pessimo carattere. Harry, che sembrava titubante sulla compagnia di quei tre studenti, stremato dalle ore trascorse in solitudine, accettò che si accomodassero con lui.

“Questo è impossibile! Perché Harry fa amicizia con Draco Malfoy? Mi ha detto che l’aveva già incontrato dalla McClan e gli era stato subito antipatico.”

Eri a dir poco indignato. Non poteva essere! Harry non poteva accettare la compagnia di quei tre. Era contro le leggi della natura, della morale, dei Grifondoro! Ecco, nessun Grifondoro degno di questo nome avrebbe mai potuto condividere lo scompartimento con tre Serpeverde della peggior specie.
Eppure i quattro sembravano andare d’accordo. Draco stava spiegando a Harry le Case, ponendo l’accento su Serpeverde. Harry raccontava dei suoi zii Babbani e di quanto odiasse vivere con loro e Draco, Tiger e Goyle l’assecondavano, dicendo che per un mago non c’era condanna peggiore che la convivenza con un Babbano.

“Sto assistendo alla fine del mondo,” trovasti la forza di commentare, nonostante la salivazione azzerata.

“Harry è solo, Ron. Nessuno ha fatto amicizia con lui, solo Malfoy e compari. È un bambino solo in un mondo che non conosce, è naturale che abbia accettato di conoscerli, di dargli almeno una possibilità.”

Quello fu il primo degli abomini cui James ti costrinse ad assistere. Harry, voglioso di raggiungere gli unici volti conosciuti, non oppose resistenza al Cappello Parlante, che piuttosto convinto l’aveva assegnato a Serpeverde.

“Questo me lo risparmio,” sputasti rabbioso, quando, a metà del primo anno, Harry avvicinò Hermione per chiederle scusa a nome dei propri amici che la insultavano a più riprese. Hermione lo guardò perplessa, quasi timorosa che potesse serbarle un tranello, ma poi accettò di buon grado quelle scuse, presentandosi cortese.

“Perché? Non sopporti una presentazione?” ti schernì James.

“Certo, perché questa non è la nascita del grande amore. Ma per favore!”

Era più forte di te la gelosia. L’avevi sempre covata nei confronti di Harry. Harry, che poteva abbracciare Hermione, che poteva sorriderle e contraddirla. Harry, che aveva il canale preferenziale quando si trattava di lei. E lei, che rinunciava a tutto per correre da Harry. Il solo pensiero che, mentre tu viaggiavi nel nulla, loro due fossero soli, in mezzo al niente, in una tenda, ti mandò letteralmente in bestia. Come avevi potuto essere così sciocco? Avevi lasciato campo libero a Harry, avevi…

“Frena, Weasley! A mio figlio non piace Hermione e a Hermione non piace Harry! Ci sono arrivati tutti tranne te!”

“La smetti di farti gli affari miei? Avrò il diritto di pensare in santa pace!”

“Non qui, amico, non qui. Comunque non è come pensi. Questa stretta di mano che vedi è la nascita di una superficiale conoscenza. Le vite di Harry e Hermione, in questo universo, sono su due strade parallele: possono vedersi, guardarsi, ma mai incontrarsi.”

Non eri molto convinto, ma capisti che non t’aveva mentito quando ci fu un altro balzo temporale. Era il secondo anno. Voldemort era stato fermato dalla sola idea di Silente di stregare la Pietra Filosofale e Raptor era morto comunque, ma ucciso da Voldemort stesso, che l’aveva reputato inutile ai propri fini.
Tuttavia, quello che t’aspettava era tremendo. Soffristi in quella vita inesistente più di quanto avessi sofferto in quella vera.

“Tu… Non è vero! Non è vero!” urlasti, alla vista del cadavere di Hermione.

“Harry non è mai diventato suo amico. Hermione era sveglia, ma non aveva idea di cosa stesse accadendo. Non poteva difendersi, non aveva elementi per capire che il mostro fosse un Basilisco.”

Le crude spiegazioni di James, se possibile, erano più dolorose dei fatti stessi. Lui non perdeva più tempo a spiegarti, ormai ti era chiaro quale fosse lo scopo di quella assurdità. Non avresti mai pensato di doverlo ammettere, ma c’era bisogno di te. La voglia di strappare Hermione alla morte fu tale da portarti a urlare contro gli attori di quella rappresentazione, lanciando fatture contro tutti. Esauristi le forze e nessuno s’accorse di te. Ma fu un bene che le tue energie fossero ridotte al minimo, perché quello che ti mostrò James, subito dopo il cadavere della donna che amavi, non avresti saputo dire quanto dolore provocasse in te.

“Ti prego… andiamo via… io… Io devo esistere.”

Non si fece pregare il papà del tuo migliore amico. Ti trascinò via, lontano dal corpo senza vita di tua sorella, uccisa dal ricordo di Riddle. Lontano da Harry, morto anche lui, quand’aveva rifiutato di unirsi a Voldemort e al regime dei Purosangue.
Quando tornasti al tuo marciapiede, t’accasciasti lì, stremato dal dolore, dalla frustrazione, dalla rabbia per te stesso, ch’eri stato tanto sciocco da credere che non esistere avrebbe migliorato le cose. Piangevi, come non t’era mai capitato di piangere. James si sedette accanto a te, circondandoti le spalle con il braccio con fare paterno.

“Le favole mentono spesso, Ron. Insegnano ai bambini che le grandi imprese vengono compiute dagli eroi, eroi che ricevono in ricompensa l’amore di una bella principessa. Ma la realtà non è affatto così. Le grandi imprese sono merito di tanti grandi uomini con i loro difetti, pregi e debolezze. E l’amore, ricordalo, non è mai una ricompensa. Non sei mai stato l’ultimo. Gli ultimi sono quelli che si rifiutano di affrontare la vita e i suoi problemi, di mettersi in gioco. E, anche in quei casi, non è detto restino ultimi per sempre. Hai solo diciassette anni, è vero, ma hai l’esperienza di un cinquantenne. E non ti sei mai tirato indietro, in nessuna situazione, portando un po’ di allegria nella disperazione... Ogni vita ha valore, non devi dimenticarlo mai.”

“È che mi sento così idiota… vorrei aiutare… Alle volte, io vorrei aiutare Harry, vorrei rendere felice mamma e vorrei essere all’altezza di Hermione… E io…” non proseguisti.

Basta, ti imponesti. Tu avevi il diritto e il dovere di vivere, di esistere. T’asciugasti malamente le lacrime, vergognandoti di mostrarti in quello stato. Ma James sorrise, annuendo alla tua ritrovata determinazione.

“Iniziamo a capire, vedo,” scherzò ghignando.

“Puoi venire con me? Da Harry?”

E il ghigno svanì. “No. Io non sono reale. E sono qui per te, ma il mio tempo sta per scadere, temo.”

“Perché per me?” chiedesti accalorato. Volevi che lui ti seguisse, volevi che Harry riabbracciasse il padre.

“Perché il Deluminatore è tuo.”

“Cosa c’entra questo?”

“Vedi, quando Silente mi chiese il Mantello dell’Invisibilità, io glielo diedi volentieri, ma mi feci prestare il Deluminatore, che mi era sempre piaciuto. Io…” assunse un’espressione sghemba, che, ancora una volta, ti ricordò i gemelli. “Io speravo di poterlo tenere, ecco. Così mi comportai come se m’appartenesse e lo incantai. Volevo incastrarci dentro qualcosa di bello, che potesse farmi tornare la speranza anche nei momenti peggiori. Sai, la guerra... Ecco, non riuscii a perfezionare la mia idea, ma incastrai nel Deluminatore una specie di infuso di ottimismo o speranza o come vuoi chiamarla. Ma non sapevo quando si sarebbe azionato né in che modo.”

“Come mai?”

“Beh, sono morto prima!”

“S-scusa,” balbettasti mortificato, ma lui ridacchiò.

“Credo d’essere comparso io perché sono l’unico legame con quella magia.”

“Quindi non c’entra Silente.”

“Il vecchio c’entra sempre!”

T’accorgesti che stava lentamente svanendo e fosti invaso da un atroce senso di solitudine. “Ti saluto Harry…”

“No! Lui non deve sapere niente, nessuno deve saperlo! Tieniti stretto il Deluminatore, Ron, e anche le favole!”

“Le favole? Il Deluminatore? Ma in che senso?” urlasti, mentre l’immagine, che t’era sembrata tanto reale, diveniva sempre più incorporea.

“Vedrai! Hermione avrà voglia di capire una favola, Ron, tu assecondala, è importante!”

Non riuscì a dirti altro. Lo vedesti sparire e tornasti a essere solo. Ma non t’accasciasti di nuovo su quel marciapiede, ti mettesti in marcia, alla ricerca dei tuoi amici. Era una sensazione meravigliosa quella che ti invase: non sapevi cosa sarebbe successo, né se saresti sopravvissuto, ma avevi finalmente la forza di combattere i tuoi pericolosi fantasmi. Forse, quel male che t’attanagliava non era ancora riuscito a divorarti del tutto. C’era una spiraglio, Ron, e tu lo percorresti correndo. In fondo, non c'erano solo eroi al mondo, i più erano soltanto grandi uomini con grandi debolezze.








 


NdA: la storia trae spunto e ispirazione dal film La vita è meravigliosa diretto da Frank Capra, del 1946.

   
 
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