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Autore: Yoko Hogawa    10/06/2013    12 recensioni
Finalmente il velivolo si alzò. Prese quota lentamente, con le case e le persone che diventavano sempre più piccole, e quando fu arrivato abbastanza in alto da riuscire a vedere il Tamigi e il London Bridge, l’elicottero virò verso ovest e cominciò ad allontanarsi dalla città.
In lontananza, all’orizzonte, una linea aranciata presagiva l’alba ormai prossima. E mentre si lasciavano alle spalle la capitale del Regno Unito, Sherlock sentì suo padre appoggiare le labbra sulla sua testa e sussurrare alcune parole.
Non le capì. Ma gli sembrò che somigliassero a “Dio, perdonami”.
Londra, 7 Luglio 2013.
I posteri avrebbero ricordato questo giorno come una delle più grandi tragedie dell’umanità.

[SciFi][military!AU][dystopia!AU][post-apocalyptic!AU (circa)]
Genere: Azione, Science-fiction, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Lestrade , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Desclaimer: come sempre, i personaggi utilizzati in questa fanfic non sono di mia proprietà, ma sono stati creati da nonno Doyle e presi successivamente sotto l’ala protettiva di Moffat e Gatiss. Se possedessi qualcosa di tutto ciò avrei già un appartamento ad Highgate con vista Cemetery. Ovviamente non prendo niente (vi appesto il fandom gratis).
 
Note: alla fine di ogni avventura c’è l’inizio di un’altra. Con un cambio di genere, a quanto sembra.
 
Prima di tutto, i dovuti credits. Buona parte di quest’idea, a cominciare dallo stile di combattimento che descriverò successivamente, deriva da un anime/manga chiamato Shingeki no Kyojin (anche “Attack on Titan” o “L’attacco dei Giganti”) di Hajime Isayama. Se guardate la opening dell’anime su YouTube (click!) capirete il livello di epicness che mi ha ispirata.
Comunque non è un crossover, è solo liberamente ispirato.
 
Non so ancora quanti capitoli saranno. Vorrei tenermi sotto la decina, ma conoscendomi potrei cambiare di tutto in corso di svolgimento, dunque non mi esprimo.
 
Gli avvertimenti sono quelli già scritti in presentazione: SciFi, military!AU, dystopia!AU, post-apocalyptic!AU. Un sacco di “AU”. Mi ci sto buttando di testa senza paracadute. Ovviamente Johnlock. Potrebbe morire della gente, quindi minor-character!death direi che ci sta.
 
Le età dei personaggi sono state leggermente variate per necessità di trama.
 
E direi che con questo è tutto.
Come sempre, chi vorrà leggere è il benvenuto ♥

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______Uno______
THE SILVER DAWN

 
 
 
 
 
 

Londra.
7 Luglio 2013.
I posteri avrebbero ricordato questo giorno come una delle più grandi tragedie dell’umanità.

 
 
 
A svegliarlo fu il gran trambusto nel corridoio: i passi pesanti sulle assi del parquet e le voci concitate dei suoi genitori. Per un momento ebbe l’idea di alzarsi e andare a vedere cosa stessero facendo ma aveva tanto sonno e i suoi occhi non volevano aprirsi, dunque rinunciò, girandosi dall’altra parte e accoccolandosi meglio sotto le coperte.
Ma poi il trambusto arrivò in camera sua e lui fu costretto a svegliarsi da suo padre, che senza nemmeno accendere la luce – servendosi di quella che entrava dal corridoio tramite la porta spalancata in tutta fretta – tirò indietro le coperte e lo sollevò dal materasso, prendendolo in braccio.
Lui, con l’istinto dei suoi cinque anni d’età, allacciò le braccia al collo del genitore e appoggiò il mento sulla sua spalla. Aveva ancora il cappotto addosso, quello leggero di lana misto cotone color grigio scuro.
« Papà...? » biascicò, i residui di sonno ancora appiccicati come miele alla sua voce.
« Vieni Sherlock, dobbiamo andare » disse solamente l’uomo, la voce profonda ma frettolosa, e lo portò fuori senza prendere né la vestaglia né le pantofole. E dire che sua madre di arrabbiava sempre, quando girava scalzo per casa.
« Dove andiamo? » chiese Sherlock, stringendosi di più alle spalle del padre mentre questo imboccava il corridoio a grandi falcate. Una volta usciti dalla stanza, vide sua madre in vestaglia e camicia da notte uscire dalla camera di suo fratello, tenendo per mano un Mycroft dalla faccia ancora assonnata e con la vestaglia infilata a rovescio.
Siger Holmes non rispose alla sua domanda, così come non lo fece quando fu Mycroft a porla. I loro genitori si limitarono a portarli in fretta giù dalle scale e fuori di casa dove la guardia privata di suo padre, l’uomo gentile con i capelli brizzolati che lo accompagnava al lavoro tutte le mattine, li fece salire frettolosamente sulla sua auto nera. Mycroft salì dietro con Violet mentre lui, ancora fra le braccia di Siger, salì davanti.
L’auto partì quasi immediatamente.
« Gli elicotteri atterreranno ad Hampstead Heath, signor Holmes » disse l’uomo al volante, guidando ad alta velocità per le strade in salita di Hampstead: « saremo lì fra cinque minuti ».
Sherlock rabbrividì di freddo in braccio al padre, che lo strinse di più a sé e cominciò a sfregare una mano sulla sua schiena. Aveva indosso solo il pigiama e i piedi scalzi, dopotutto, e nonostante fosse luglio l’aria della notte era ancora abbastanza fredda.
« Resisti Sherlock, fra poco saremo al caldo » gli disse il padre, continuando a sfregargli la schiena con la mano.
« Dove stiamo andando? » chiese di nuovo il bambino. Con la testa appoggiata alla spalla del padre poteva vedere il sedile posteriore, dove sua madre era silenziosa e seria e suo fratello osservava la nuca del padre con aria interrogativa e le sopracciglia aggrottate. Mycroft lo guardò per un attimo e tentò un sorriso, ma non sembrò neanche lontanamente convincente e Sherlock gli fece una linguaccia.
« Andiamo in vacanza per un po’ » gli disse finalmente Siger, il tono piatto e baritonale.
« Ma non abbiamo portato niente » obiettò subito Sherlock, ma non continuò a fare domande quando si scontrò con il silenzio del padre e capì che quella sarebbe stata l’unica spiegazione che gli avrebbe dato. Fuori dal finestrino, gli alberi del parco di Hampstead Heath sfilavano veloci dietro la cancellata che lo delimitava.
Furono al cancello d’entrata in meno di un minuto, in fila insieme ad altre macchine nere davanti ad un uomo in divisa che ne faceva entrare solo una alla volta. Poco lontano, le pale di un elicottero militare giravano veloci piegando le fronde degli alberi e gli steli d’erba.
Il silenzio dell’auto fu finalmente interrotto.
« Lestrade, vai a casa. Prendi la tua famiglia e allontanati da Londra il più velocemente possibile. Vai verso sud, se ti fidi delle mie parole » disse suo padre rivolto all’autista.
Quello, senza voltarsi, scosse il capo. « Ho il dovere di assicurarmi che voi siate in salvo, signor Holmes » disse.
« Lo siamo, Adrian! » esclamò Siger alzando la voce. Al brusco cambiamento di tono, Sherlock sobbalzò e tutti gli occupanti della vettura puntarono gli occhi su suo padre. « Entreremo nel parco a piedi. Ti prego... vai. Anche tu hai dei figli... » disse, e se Sherlock non fosse stato troppo piccolo per capire, avrebbe sicuramente trovato strana la disperazione che aleggiava nella voce altrimenti ferma del capofamiglia.
E forse, fu proprio l’ultilizzo del nome proprio a convincere Adrian Lestrade che la situazione era più grave di quel che sembrasse.
Si guardarono negli occhi. Adrian cercò negli occhi di Siger la vera gravità di ciò che sarebbe successo e quado la vide trattenne il respiro. Successivamente, annuì.
« Grazie, Siger » lo ringraziò e, ad un suo cenno d’assenso, Holmes disse alla moglie e al figlio maggiore di scendere dalla macchina mentre lui stesso apriva la portiera e portava Sherlock con sé.
Una volta scesi, l’auto nera partì a tutta velocità. Sherlock non avrebbe più rivisto quell’uomo, ma ancora non poteva saperlo.
Facendo cenno alla moglie di seguirlo, Siger Holmes prese a costeggiare la cancellata a passo di marcia, arrivando all’entrata del parco con la famiglia a seguito. Sherlock notò che anche le altre famiglie erano in pigiama – quelle che scendevano dalle macchine nere in procinto di entrare una alla volta – e cominciò a provare una sorta di inquietudine che non seppe spiegarsi. Si strinse di più alle spalle del padre, chiudendo i pugni sulla stoffa del cappotto, ma Siger era troppo impegnato a parlare con il soldato per notarlo, dunque si limitò a sistemarlo meglio fra le sue braccia e a dargli un paio di colpetti sulla schiena.
Una volta finito di parlare, la famiglia ebbe accesso al parco.
Il rumore sotto le pale dell’elicottero era tremendo. Copriva ogni suono, persino la propria voce, e Sherlock dovette per forza coprirsi le orecchie con le mani per il troppo frastuono. C’era anche moltissimo vento, freddo per di più, ma una volta entrati nell’abitacolo sia il rumore che il freddo si attenuarono. C’erano altre famiglie con loro, almeno due coppie e altri tre bambini, e quando anche sua madre e Mycroft ebbero preso posto di fronte a loro un soldato – diverso da quello all’entrata – chiuse il portellone.
In realtà Sherlock voleva sedersi sul seggiolino, ma Siger non lo lasciava andare. Non ne aveva nemmeno l’intenzione, a giudicare dello sguardo assente oltre il finestrino, così il bambino non chiese nemmeno di scendere dalle sue ginocchia. E poi era vicino al finestrino e poteva guardare fuori mentre l’elicottero volava.
Finalmente il velivolo si alzò. Prese quota lentamente, con le case e le persone che diventavano sempre più piccole, e quando fu arrivato abbastanza in alto da riuscire a vedere il Tamigi e il London Bridge, l’elicottero virò verso ovest e cominciò ad allontanarsi dalla città.
In lontananza, all’orizzonte, una linea aranciata presagiva l’alba ormai prossima. E mentre si lasciavano alle spalle la capitale del Regno Unito, Sherlock sentì suo padre appoggiare le labbra sulla sua testa e sussurrare alcune parole.
Non le capì. Ma gli sembrò che somigliassero a “Dio, perdonami”.
 
 
 

Ore 04:52 am.
Un istante lungo quanto un ticchettio di lancetta.

 
 
 
Le persone si spingevano l’una contro l’altra nella ressa, pigiate come sardine all’interno della stazione ferroviaria.
Decine e decine di londinesi ancora in pigiama e vestaglia, usciti di casa con il minimo indispensabile, con le ciabatte ai piedi e i cappotti infilati alla bene e meglio sopra la camicia da notte, rinunciatari di ogni bagaglio e di ogni oggetto più ingombrante di uno zaino.
C’era un silenzio irreale per una situazione d’emergenza, un moderato mormorio di persone che bisbigliavano sottovoce l’uno nelle orecchie dell’altro per non coprire i continui avvisi dati dall’altoparlante della stazione, già difficile da sentire di per sé, e per seguire le medesime istruzioni urlate al megafono da un plotone di soldati che controllavano ogni punto nevralgico della stazione.
Erano della RAMC, John aveva riconosciuto gli stemmi. C’erano anche dei medici, le mostrine con la croce rossa su fondo bianco ben visibili sulle maniche delle mimetiche.
Se non avesse avuto ancora troppa paura, probabilmente avrebbe chiesto a suo padre di che grado erano, perché quelli non sapeva ancora riconoscerli. Ma era sicuro che la sua voce avrebbe tremato se avesse cercato di parlare e suo padre, che lo portava in braccio in mezzo alla folla che si muoveva lentamente un passo alla volta, sembrava troppo impegnato a tenere unita la sua famiglia per ascoltare le sue domande. Dunque non disse niente.
Si chiamava “evacuazione d’emergenza”. John aveva sentito una macchina della polizia passare davanti a casa e dire quelle parole con un megafono, dopo essere stato svegliato dal terremoto.
Era stato molto forte e sia lui che sua sorella avevano urlato per tutto il tempo. In camera sua e di Harry erano caduti parecchi calcinacci e, quando i suoi genitori li erano venuti a prendere e li avevano portati correndo al piano di sotto, aveva visto anche una profonda crepa attraversare il muro a lato delle scale. Erano caduti molti quadri e tutti i libri, i soprammobili e anche il vaso blu che era il preferito della mamma, ma lei non sembrava badarci troppo mentre faceva infilare loro i giubbotti e li prendeva entrambi per mano, uno da una parte e l’altra dall’altra, correndo fuori di casa nel freddo della prima mattina verso la stazione di Clapham Junction.
Non avevano preso niente. Nessun vestito, nessuna foto, nemmeno le scarpe. Suo padre aveva continuato a dire che non c’era tempo e che dovevano andarsene via subito, che non era stato un terremoto ma era successo qualcosa di più grave, qualcosa di diverso, qualcosa di “artificiale”. Aveva detto con l’agitazione nella voce che gli sembrava di aver sentito il boato di un’esplosione e dato che suo padre era stato in guerra, e di esplosioni ne aveva sentite tante nella sua vita, John ci credeva.
Si guardò intorno in mezzo alla folla, alzando la testa dalla spalla dell’uomo. Il realtà poteva anche camminare da solo, ma Jonathan non aveva voluto metterlo giù. La folla era così fitta che persino Harry, calta rispetto alla media dei suoi 12 anni, riusciva a malapena a non scomparire in mezzo alla folla. Sua madre le teneva un braccio intorno alle spalle e la stringeva a sé, in modo da non perderla di vista e per non essere separati, mentre l’altra mano era fermamente stretta in quella del marito che non sorreggeva lui.
John alzò gli occhi, cercando di leggere le scritte in giallo che campeggiavano sull’enorme tabellone delle partenze sulle loro teste. Erano uguali e ripetute in tutti i tabelloni e i monitor di arrivi e partenze, scritte in un giallo brillante e accompagnate dal suono lontano di una sirena che John non aveva mai sentito prima.

 

Stazione di Clapham Junction
EVACUAZIONE DI EMERGENZA
tutti i treni diretti a SUD
binari 1-2-3-4-6-9-10 inagibili
solo donne, invalidi e bambini

 
« Papà, cosa vuol dire “invalidi”? » domandò John senza riuscire a trattenersi. La curiosità dei suoi sette anni era più forte del rispetto della situazione generale in cui tutti loro si trovavano, e davanti a quella domanda si dimenticò della concentrazione che il padre era necessario mantenesse.
Jonathan, però, gli appoggiò una mano sulla testa. « Sono le persone che non possono muoversi bene, John. Quelle a cui dobbiamo lasciare il posto sull’autobus » gli disse, spingendolo con gentilezza a scostare lo sguardo dal tabellone e a piegare di nuovo la testa sulla sua spalla.
John lo fece, ma non smise di parlare. « Perché c’è scritto “solo donne, invalidi e bambini”? » domandò il bambino.
Il padre ci mise un po’, prima di rispondere. « Perché, per il momento, sul treno i papà non possono salire» disse, la voce forte ma bassa, atona.
John prese fiato per opporsi, ma la sua voce venne completamente subissata da quella squillante di un soldato, che abbaiò ordini dentro un megafono poco lontano da loro.
« Tutti i cittadini sono pregati di rimanere calmi e di non spingere. Solo donne, invalidi e bambini. Cercate di predisporvi equamente all’entrata di ogni binario. All’entrata in banchina sarete contrassegnati dal numero del vostro binario. Non spingete. Al momento solo donne, invalidi e bambini. Gli uomini e tutti i ragazzi al di sopra dei 18 anni sono pregati di dirigersi al lato destro della banchina e di attendere lì ulteriori istruzioni. Tutti i cittadini sono pregati... ».
John prese fiato per parlare di nuovo, ma ormai il panico gli aveva già chiuso la gola. Non aveva capito cosa stava succedendo, non aveva capito assolutamente niente; l’unica cosa che sapeva era che suo padre non sarebbe potuto andare con loro e questo, più di tutto, lo spaventava a morte.
Si accorse di stare piangendo solo quando vide le sue stesse lacrime, ed il suo stesso terrore, riflesse sul volto di Harry.
« Margaret, prendi John » disse all’improvviso Jonathan, passandolo in braccio alla madre. Lei non disse niente e John non guardò quando i suoi genitori si baciarono, ma sentì suo padre dire che sarebbe andato tutto bene e che avrebbe trovato un modo per fuggire. Diede un bacio a lui, uno ad Harry, poi fu costretto a separarsi da loro e corse, con la sua vestaglia bordeaux, in mezzo alla folla.
Sparì. John non riuscì a seguirne nemmeno la scia. Forse, se avesse anche solo immaginato che quella era l’ultima volta che lo avrebbe rivisto vivo, si sarebbe dimenato dalla stretta di sua madre e lo avrebbe seguito. Ma all’epoca John credeva ciecamente alle parole di suo padre, per lui era un eroe vivente, e se aveva detto che avrebbe trovato un modo, a ciò John avrebbe creduto.
Sua madre piangeva, ma John faceva finta di non sentirla, così come Harriett. Arrivarono tutti e tre ai cancelli, dove un soldato scrisse con un pennarello nero il numero 12 sui dorsi delle loro mani, ed insieme ad altre persone si diressero, a passo svelto, verso il dodicesimo binario.
Salirono su un treno. Dovettero stare in piedi perché era pieno di gente, persino fra un vagone e l’altro. Sentì il macchinista fischiare e, muovendosi piano, il treno cominciò, insieme ad altri, ad uscire dalla stazione.
In lontananza, il sole appena arrivato oltre lo skyline dei palazzi illuminava la città da est.
Fu così che loro, e altre centinaia di migliaia di persone in fuga dalla capitale inglese, videro.
 
 
 

368.000 i morti sul colpo.
Il quartiere della City, buona parte di Westminster e parte di Southwark completamente rasi al suolo.
Poi, la Nube.
Portata dal vento, si espanse verso nord.
Invase la parte settentrionale di Lambeth e Wandsworth, quella orientale di Kensinghton & Chelsea, tutto Camden, Islington, Hakney e Tower Hamlets.
Più di 1.200.000 le vittime totali.
Quasi 100.000 i dispersi.
Un quarto della popolazione londinese.

 
 
 
Dispersa nel cielo come un grande salice piangente, illuminata dal sole dell’alba che la inondava di riflessi di luce, al di sotto di una nube enorme di fumo nero e denso e di polvere grigia, quella che sembrava finissima sabbia d’argento brillava come polvere d’angelo sospesa nell’aria, colorando il cielo con spicchi di luce argentea.
 
 
 

L’Alba d’Argento.

 
 
 
 
 
In parti diverse della stessa città, due bambini assisterono, involontariamente, all’inizio di tutto.
All’inizio di una nuove era e, allo stesso tempo, alla fine di una.
All’inizio di un mondo senza colori, senza luce, senza speranza o futuro. All’inizio del dominio dell’uomo com’era all’inizio della civiltà.
All’inizio di una storia che, bella o brutta, vale la pena raccontare.
Perché siamo tutti storie, alla fine.1

 
 
 
 
 
 
 
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1.Citazone da Doctor Who.

 
   
 
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