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Autore: Ester Fy    10/06/2013    0 recensioni
Medioevo, o giù di li. Una contadina povera che lavora presso un mulino fa un incontro che ha tutta l'aria di essere innocuo. In realtà quando bellezza, morale e desiderio si incontrano non è mai bene trovarsi nel mezzo. Se poi si aggiunge il diavolo e la stregoneria...diventa questione di vita o di morte.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Non-con
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Campagna. Una lunga strada sterrata si snoda polverosa e bruciata dal sole verso l’orizzonte, su e giù per le colline e attraverso i campi. Contadini. Per ogni dove. Uomini e donne intenti a lavorare per garantirsi la sopravvivenza. Una carrozza si avvicina in lontananza annunciata da una nuvola di polvere. Qualcuno si ferma un attimo a osservarla, tirando il fiato. La carrozza passa veloce, trainata da due fieri Arabi con il manto lucido per la fatica e il caldo. Dentro sta seduto con aria altezzosa un sacerdote dalla veste scura. La polvere avvolge i contadini costringendoli a chiudere gli occhi. La carrozza scompare dietro una collina. Qualche miglio più avanti, un fiume, un ponte, un mulino.
“Cocchiere ferma i cavalli! Abbiamo viaggiato a lungo, occorre una pausa!” Urla il sacerdote dalla sua vettura. Il cocchiere si asciuga il sudore con un lembo della giacca e tira le redini. I due cavalli scalciano e scuotono le loro nere criniere indispettiti. La carrozza si ferma proprio davanti al mulino, una giovane contadina con un fazzoletto rosso in testa che si stava rinfrescando al fiume va loro incontro sorridente. Il sacerdote la osserva, è accaldata e di una bellezza senza pari. “Buondì messeri, da dove venite? Posso offrirvi ristoro e un riparo da questa calura se ne avete piacere.” Il sacerdote scende dalla sua carrozza attratto dal quel viso angelico. “Abbiamo viaggiato molto. Il mio cocchiere e i miei cavalli necessitano di cibo e acqua fresca, e per quanto mi riguarda nulla mi farebbe più piacere della vostra compagnia.” La contadina arrossisce e abbassa umile lo sguardo. “Voi mi fate un grande onore, messere e io sarò ben contenta di servirvi finché vi aggradi per ciò che posso”, dice con voce soave e fresca, un soffio fra le labbra morbide e rosate. All’improvviso il sacerdote sente dentro di lui un’agitazione mai provata prima che non si sa spiegare. Prova desideri dai quali dovrebbe fuggire, ma che non riesce a domare.
“Signor Cocchiere la prego di portare i cavalli sull’altro lato del mulino, li troverà un uomo che si occuperà di loro e dei suoi bisogni”. Dice ancora la contadina rivolgendosi al servo seduto a cassetta. “Si andate. Che aspettate? Dobbiamo ripartire presto e sarà meglio che i cavalli siano riposati”. Dice brusco al suo servo animato da un’inspiegabile gelosia e un grande odio che lo perseguita mentre vede il suo servo allontanarsi con i cavalli.
“Da dove venite Signore?” Chiede ancora la giovane. “Avete fatto un lungo viaggio? Dovete essere stanco. Seguitemi, vi accudirò come farebbe una moglie affettuosa e starete presto meglio”. Una moglie, diceva! Com’è gentile il suo animo! E come ne è piacevolmente sorpreso il sacerdote. Vuole averla tutta per sé. “O vi prego, mia dolce Signora. Ho viaggiato così a lungo da esserne mortificato sia nel corpo che nello spirito! E per verità sto male oltre ogni immaginazione. Prendetevi cura di me”. La ragazza obbediente si fa seguire nel mulino. Su per una scala, attraverso una modesta porta, lo conduce in una stanza. Un tavolo, una sedia e un letto. Dei fiori. Le tende tirate alla finestra aperta. “Vi prego di accomodarvi. Farò tutto quel che mi possiede affinché vi sentiate meglio, Signore”. La ragazza riempie un bicchiere con dell’acqua e glielo porge. “Avete fame, Signore?” Il sacerdote beve avidamente e scuote il capo in segno di diniego, l’acqua gli cola sul petto per la foga. “In verità, mia buona signora è il mio spirito più che il mio corpo ad essere affaticato. Venite sedetevi qui in parte a me. Tenetemi la mano. Come vi chiamate?” La giovane obbediente si siede. “Il mio nome è Agnese, ed era il nome di mia madre.”
“Il tuo nome viene dalla Bibbia, cara Agnese. Ma vieni più vicina, voglio vederti bene negli occhi. Questa stanza è così piacevolmente buia da nascondere anche la tentazione”.
Agnese si inginocchia davanti al sacerdote e lo fissa in viso timidamente. Uno sguardo così impertinentemente puro che l’uomo la odiò per ciò che inspiegabilmente provava per lei. Eppure non poteva fare a meno di accarezzarla. Aveva amato quella donna dal primo istante.
“Il mio spirito sta male cara bimba, siediti sulle mie ginocchia e fatti cullare. Che nulla è più benefico all’anima che l’amore per il prossimo”.
“Dio nostro padre dice di amarci come fratelli. Se è vero che mai vorrei disobbedire al Signore io mi siederò sulle vostre ginocchia”.
La giovane contadina si siede sulle ginocchia ossute del sacerdote e si fa cingere la vita sana e morbida dalle sue braccia di studioso e gli accarezza il viso come farebbe una sorella per un fratello ammalato. Come dice di fare Gesù nella Bibbia, la sola cosa che Agnese ha studiato e conosce. Il sacerdote divampa e brucia: amore e desiderio. Gli è tutto fin troppo chiaro. Con le sue mani che mai avevano stretto altro che libri sacri accarezza ora le pieghe del vestito umile e sporco di farina di lei e le bacia il collo sudato. Ma la ragazza a quel contatto si ritrae confusa e intimorita: “Signore, questo mi pare che vada oltre l’affetto fraterno”. Gli dice confusa mentre lo osserva bruciare del suo fuoco e lo vede soffrire le pene dell’amore. Capriccio e odio si affacciano da quegli occhi stanchi. Lei si alza in piedi e si allontana. Il sacerdote vinto dalla lussuria cerca di trattenerla.  “E’ Dio che mi ha mandato da te. Vieni e lasciati amare come Lui comanda, cura il male del mio spirito.”
“Se è vero che Lui dice di amarci io non mi concederò a voi. Che non sarebbe amore, ma pura follia”.
Il sacerdote divampa offeso dalla verità di quelle parole. Il suo viso è una maschera di rabbia e disprezzo per lei che così ingenuamente gli ha fatto perdere la ragione.
“Tu, sciocca contadina! Hai osato rifiutare un uomo di Dio che umile è venuto nella tua casa. Brucerai nella casa del Diavolo tuo padre fino a pentirtene per sette volte sette.”
 
E’ un nuovo giorno di primavera in campagna. Il sole sorge sui campi e sul fiume che porta al mulino. Gli uomini e le donne lasciano il villaggio per recarsi nei campi. Le grida dei bambini che corrono vispi si unisce al canto degli uccelli. Musica e allegria. Ma c’è di nuovo polvere sulla strada, un gendarme a cavallo galoppa veloce. Proviene dal luogo dove la carrozza si era diretta il giorno prima e porta cattive notizie. Si ferma anche lui davanti al mulino. E’ un giorno buono per lavorare i campi. Gli uccelli cantano e i bimbi ridono.
“Ehila! Abitatori del mulino”. Chiama il gendarme dal suo sauro. Una giovane esce spolverando i suoi abiti dalla farina dei cereali e saluta di buon umore il nuovo venuto: “Benvenuto, signore! In cosa posso servirla?”
“Sto cercando una donna che so lavorare qui, il suo nome è Agnese.”
“Sono io, Signore. Perché mi cercate?”
“Ho ricevuto ordine di portarvi via. Vi prego di seguirmi.”
“Che cosa ho fatto signore?”
“Non è a me che dovete chiedere i vostri peccati, né io ho tempo da perdere in chiacchiere.”
Il gendarme scende da cavallo e lega le mani di Agnese con una corda che poi avvolge intorno alla sua vita risalendo a cavallo e strattonandola.
Agnese ammanettata e confusa è costretta a seguire il grosso animale con il suo condottiero. Con i suoi calzari laceri, senza aver avuto il tempo di levarsi la farina dal grembiule. I suoi biondi capelli sono raccolti sopra la testa con disattenzione, le sue belle spalle abituate a lavorare i campi e spostare sacchi di cereali sono incurvate. Il suo sorriso tanto raggiante si è spento. Sparito. Cammina e il sole la segue lento lungo la strada polverosa. I contadini si volgono a guardare, tirando il fiato. I bimbi tacciono al loro passaggio. La strada è lunga. Sale e scende, su e giù per le colline. Di quando in quando attraversa qualche villaggio di povere capanne. A volte si fermano a qualche corso d’acqua e si rinfrescano. Ogni passo, ogni sguardo è motivo di vergogna e imbarazzo. Agnese vorrebbe solo sprofondare nella polvere. Non sopporta di essere guardata come una criminale. Il gendarme non risponde alle sue suppliche e nemmeno alle sue domande di chiarimento, il suo cuore è duro come la pietra.
La strada polverosa diventa sempre più larga e trafficata. Il sole si alza e si abbassa davanti al gendarme e al suo cavallo. Basso fra i tetti dei palazzi e delle case di una città. Agnese non ne conosce il nome, ma ormai è cosi stanca che non le importa nemmeno. Non sa dove va né perché e non ricorda nemmeno da dove proviene. La fame e la stanchezza sono le uniche cose che riesce ancora a sentire. Quando è davvero sul punto di non poterne più il sauro si ferma. Agnese non si accorge di essere entrata nella città e di aver camminato fino all’ingresso della chiesa dalle mura di pietra. Si accascia stremata. Il buio la avvolge e perde i sensi. Il gendarme la carica inespressivo sulla schiena e prosegue il cammino abbandonando il cavallo al servitore che era accorso. Il cielo è quasi scuro, ma c’è ancora qualcuno che deve fare ritorno a casa e, passando di là, si volta per osservare quella povera contadina completamente coperta di polvere e i suoi biondi capelli che fuoriescono disordinatamente dal fazzoletto rosso legato intorno al collo. La vedono oltrepassare la soglia della chiesa e veloci allungano il passo verso la serenità della loro famiglia. Il gendarme attraversa la navata, oltrepassa l’altare, entra in sagrestia. Al suo arrivo un uomo vestito di nero, magro e smunto si alza dalla posizione di preghiera in cui si trova. Lo stesso sacerdote che era passato al mulino il giorno prima. “Ottimo lavoro Joshua. Puoi andare.” Il gendarme con un inchino esce rapido dalla chiesa, verso la prima osteria. Il sacerdote si avvicina alla giovane. Ha il cipiglio crudele e soddisfatto di un avvoltoio. Le prende una ciocca di capelli fra le dita e li accarezza mentre un uomo dalla bassa statura e dall’andatura zoppicante lo raggiunge. “Sagrestano, portala alle prigioni. Bada bene a non rivolgerle la parola.”
 
Oscurità. Freddo. Le gocce di umidità picchiettano qua e la cadendo sul pavimento. Per il resto, silenzio. Uno zoppo con un vassoio cammina lungo i corridoi delle segrete facendo rimbombare i suoi passi. Si ferma davanti ad una porta di legno cercando qualcosa in una tasca del lungo vestito. Estrae un mazzo di chiavi. Apre la porta e appoggia il vassoio sul freddo pavimento. In un angolo, dove l’aveva deposta poco prima, scorge a fatica la sagoma di una figura immobile. Scuote con mala grazia quel corpo maltrattato e gli versa sul viso un po’ di acqua. La giovane riprende i sensi. Ha lo sguardo spaesato, ma brilla ancora una scintilla nei suoi occhi chiari. Il sagrestano zoppica via e si chiude la porta alle spalle. “No! Aspetta..” sussurra Agnese allungando una mano per fermarlo. Si alza disperata e raggiunge a tentoni la porta “Aspettate! Signore, ve ne prego. Abbiate pietà”. I passi disarmonici del carceriere si fanno sempre più lontani. Agnese vorrebbe piangere, ma la fame è più forte della disperazione e dal vassoio che quell’uomo le ha portato le arriva il profumo del brodo caldo. Si accuccia a mangiare seduta sul pavimento, come un cane. Pane e brodo di verdura.
Passano ore, giorni, forse solo minuti, attimi che ad Agnese paiono anni. Nella cella fa sempre freddo, le gocce cadono monotone sul pavimento e non si vede niente. Non si sa se piove o c’è il sole, se è giorno o notte. Lo zoppo continua a portarle il cibo, ma non parla mai e Agnese continua a chiedersi perché l’abbiano portata li, finché non sente un nuovo tipo di passi nel corridoio. Si alza in piedi e attende che la porta si apra lasciando entrare un confessore con una torcia. Agnese si copre il viso accecata. “Non ti piace il fuoco, ragazzina?” Le chiede arcigno il confessore chiudendo la porta. “Signore, non sono abituata a tanta luce”.
“Lo credo bene, ragazzina”. Replicò l’uomo come se quelle parole avessero un senso più profondo. “Quanti anni hai?”
“19, signore”. Agnese aveva imparato che i confessori sono uomini degni di fede a cui bisogna portare rispetto e con cui si deve essere sinceri e buoni.
“Sei sposata?”
“No, signore”.
Il confessore rimane un attimo in silenzio e la osserva avvicinandole la fiamma al viso tanto che Agnese si sente bruciare le guance. “E perché una giovane donna in età da marito e per giunta tanto bella, non sarebbe sposata?” Borbotta dandosi l’aria di sapere già la risposta.
“E’ per questo che sono qui, signore?”
“Lo credo bene che è per questo, ragazzina”.
“Nessun uomo ha ancora chiesto la mia mano”.
“Dici bene. Nessun uomo l’ha fatto, ma ciò non significa che qualcuno di non umano non lo abbia fatto. Infatti voi siete bella”.
“E’ un peccato signore?”
“Lo è se quella bellezza è un dono del diavolo.”
Agnese rimane senza parole, non capisce di che cosa parla il confessore.
“Tu sogni, ragazzina?”
“Si, signore. Tutte le notti”.
“Molto bene”. Dice l’uomo sistemando la torcia alla parete e rimuginando su qualcosa. “E cosa sogni?”
“Molte cose, ma ultimamente sogno la morte.”
“La morte?”
tante volte in quel lungo tempo buio Agnese aveva infatti desiderato di morire. Il confessore riprende la torcia e si avvicina alla porta. “Non ve ne andate signore. Sono tanto sola e ho paura”.
“Fate bene a temere, perché il Signore è terribile contro le creature di Satana”.
“Io non capisco, non so nulla del diavolo. Non ho chiesto io di essere bella. Abbiate pietà di me”.
“Non cercare di sedurmi ragazzina. Il Diavolo è il tuo sposo e il tuo signore e tu menti. Sei una peccatrice, la tua bellezza è perdizione. Tenta anche i più puri di cuore”.
“Signore, aspettate..”
Il confessore se ne va così come è venuto e Agnese si inginocchia tremante e abbandonata in un’oscurità ancora che le pare ancora più nera. I confessori sono uomini buoni che non mentono mai, ma perché era stato così duro con lei, perché quelle parole cattive?
 
Le ore, i minuti tornano a scorrere. Nei suoi sogni Agnese inizia a incontrare un elegante signore attorniato dalle fiamme, con le corna sopra la testa e un abito nero. Le sorride.
Il confessore torna e torna ancora e ogni volta la porta in una grande sala illuminata da alte vetrate e la lega ad una macchina terribile che le spezza le ossa e la fa gridare di dolore. Vuole che gli riveli qualcosa, le dice che è una creatura del diavolo e che è cattiva. Agnese desidera solo morire, smettere di soffrire. Il confessore però le ha detto che le anime pure non desiderano morire, che lei vuole morire solo per raggiungere il suo sposo. Il confessore è saggio e rispettabile e non può mentire. Lei invece è una peccatrice, non crede neppure più alla sua stessa innocenza. Che significherebbe non credere al confessore. Che se fosse innocente Dio non la farebbe soffrire così. La tenebra della sua cella la terrorizza perché è li che la raggiunge il diavolo e le parla e le chiede baci. Le pare di sentire il sagrestano confabulare col confessore e con un altro uomo fuori dalla sua porta. Dicono che ha la febbre, che la sua salute va male che le ferite inflittele durante gli interrogatori si stanno infiammando, ma quelle voci sono solo un sottofondo ai suoi lamenti e ai suoi pianti e alle sue grida e ai sussurri del diavolo. Sono allucinazioni. Non riesce più a dormire ne a mangiare, non ha più le forze di lottare. Crede di essere la sposa del diavolo e di avere rapporti costanti con lui. Confessare di essere cattiva e impura le risparmia le sofferenze di quella macchina spacca ossa. Ma niente la salva dagli incubi. Ha rubato un coltello dal vassoio del sagrestano e a volte pensa di liberarsi da quel tormento, ma ogni volta le manca il coraggio.
Agnese si sveglia dall’ennesimo incubo urlando. C’è qualcuno nella sua stanza, lo sente muoversi e respirare affannosamente, il terrore la immobilizza. Sa chi è: è il diavolo ed è venuto a prendere il suo corpo. Lo sa. Non è la prima volta. Il diavolo le viene vicino e la accarezza mentre Agnese piange e supplica. E’ troppo buio per vederlo in viso, ma lei sa che è lui: il diavolo. Le solleva la gonna e abusa del suo corpo con una violenza senza pari, col suo respiro affannoso e i suoi grugniti di piacere. Agnese non può far niente. Solo piangere e ascoltarlo mentre le sussurra cose cattive e urlare per il dolore. Sente il sangue caldo bagnare le sue vesti e impiastricciare il pavimento e poi sente il demonio ridere crudele al culmine del suo piacere e lo guarda con sollievo uscire dalla porta come un fantasma. Quel giorno Agnese ferita nel corpo e nello spirito, ombra di quello che era stata e stanca di soffrire prende il coltello dalla paglia del suo giaciglio. Niente, pensa, può essere più terribile di quello che sta vivendo. Agnese si toglie la vita in quella cella, al buio. Appena una settimana dopo aver lasciato i ridenti campi e il suo mulino. Sola. Si libera dalla sofferenza e dal ricordo di quella spensierata giovinezza che le è stata tolta così in fretta.
 
Qualche tempo dopo il diavolo torna a farle visita. E’ vestito da sacerdote e porta una fiaccola. Non immagina nemmeno che cosa è successo e quando la vede riversa sul pavimento in un lago di sangue le prende una ciocca di capelli bagnati fra le dita. “Sciocca contadina. Hai osato rifiutare un uomo di Dio che umile è venuto nella tua casa. Brucerai nella casa del Diavolo fino a pentirtene per sette volte sette.” Le sussurra.
  
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