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Autore: honeyes    10/06/2013    12 recensioni
Barbara, ragazza di 19 anni, decide, andando contro tutto e tutti, di inseguire il suo più grande sogno:
lascia la sua città e vola dritta a New York per studiare nella miglior scuola di recitazione della metropoli statunitense, dimenticando però che non è sempre tutto rose e fiori e che per potersi definire un'artista completa avrebbe dovuto imparare anche una disciplina da lei mai studiata prima d'ora... la danza.
L'insegnante severissima del corso di danza le affianca un "Tutor" per le lezioni intensive, al fine di farla migliorare... sarà davvero l'unico fine per questi due ragazzi che da un giorno all'altro si ritrovano a dover stare sempre insieme?
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Prologo

betato da MedusaNoir



Al suono mandato dalla cabina di comando schiusi gli occhi e assonnata mi resi conto di essere senza cintura, completamente scomposta e un tantino sporgente verso il sedile alla mia destra. Prontamente presi la cintura per riallacciarla, cercando di ricompormi e, imbarazzata per essermi presa uno spazio in più, sorrisi al vicino per poi riporre la mia attenzione fuori dal finestrino, dal piccolissimo finestrino dell'aereo, ammirando le nuvole aspettando di poter vedere dall'alto la città del mio cuore: New York.

In attesa dei bagagli decisi di recarmi al bagno per rinfrescarmi, soprattutto in viso, poiché sentivo una stanchezza disumana addosso. D'altra parte erano le cinque del mattino quando avevo preso l'aereo a Milano e, dopo nove ore di viaggio, eccomi a New York con sei ore di fuso: essendo le 8.00 am, ho tutta una bella giornata davanti a me.

Uscita dal bagno intravidi il mio bagaglio e mi ci fiondai con rapidità tale che poteva apparire una riserva di oro; ero letteralmente a pezzi e avrei dato tutto pur di potermi lanciare in un letto e dormire per ore.

Beh, magari anche per giorni...

Vista la situazione in cui mi trovavo dovevo risparmiare e rinunciare al gran lusso di un taxi, quelle “belle” macchine gialle che mi guardavano con occhietti lucidi, implorandomi di poggiare il mio bel sederino pigro sui loro sedili...

Bel sederino?

Sbuffai, contrastata dai miei stessi pensieri, e ripresi la marcia verso il compromesso economico: un bus sudicio e pieno di gente diretto a Manhattan.

«Biglietto, signorina» disse scorbutico l'autista.

Gli porsi il mio e andai a prendere posto nell'ultimo sedile rimasto vuoto. Prima di sedermi provai ad alzare la valigia per riporla nell'apposito spazio, ma a stento riuscii a non cadere con lei addosso a un ragazzo seduto nel lato opposto al mio.

«Aspetta, ti do una mano.»

Mi girai per guardarlo e sì, era proprio il ragazzo che ha rischiato di trovarsi schiacciato da me e la mia valigia. Capelli scombinati, all'apparenza morbidi, occhi scuri, un leggero strato di barba sul viso, corpo da urlo...

Davvero? Ti sembra davvero il caso di fare questi pensieri?

Mi trattenni dall'alzare gli occhi al cielo per non sembrare una pazza scostumata in piena crisi isterica e così, appena in tempo prima che si rendesse conto d'esser fissato da una maniaca made in Italy, gli sorrisi ringraziandolo; lui rispose con un cenno del capo e le mie guance arrossirono.

Uffa...

Detestavo arrossire, eppure era una caratteristica di me che spesso veniva apprezzata, però mi faceva sentire troppo esposta e non amavo sapere che era così facile per altre persone – bei ragazzi in primis - leggermi dentro.

Finalmente presi posto e per rilassarmi un po' accesi l'iPod impostando la ripetizione casuale.

Troublemaker... ah ah, molto divertente, caro iPod.

Una volta partiti ci misi veramente poco a crollare in un sonno profondo, cullata dall'andamento del bus.

Avvertii qualcuno toccarmi il braccio, ma ero troppo stanca e con la mano cercai di togliere quell'elemento disturbante dal mio corpo, mi girai mettendomi ancora più comoda e cercai di tornare tranquilla al mio sonno.

«Ma... oh, affari tuoi. Resta sul bus sentii dire con tono stizzito.

Bus?

«Oh cazzo!» urlai in italiano, spalancando gli occhi. Mi resi conto immediatamente di quanto fosse poco educato strillare in quel modo e misi le mani davanti alla bocca, vergognandomi da morire.

Il ragazzo che gentilmente mi aveva aiutata alla partenza scoppiò a ridere sonoramente mentre prendeva di nuovo la mia valigia.

Che carino...

Scossi immediatamente il capo, sconcertata da come fosse facile ammaliarmi.

Alzai lo sguardo per ringraziarlo, ancora una volta, ma venni interrotta dalla sua voce.

«Benvenuta a New York!» esclamò, facendo l'occhiolino.

Oh Dio... grazie!

I miei ormoni avevano preso il sopravvento e in seguito a quel gesto del bel ragazzo iniziarono un party, ma in quel momento non fui in grado di proferir parola e così gli sorrisi, consapevole d'esser totalmente rossa in viso - ma poco importava, chi l'avrebbe più visto?

Lo guardai allontanarsi verso l'uscita del bus e mi decisi che era arrivato il momento di svegliarsi sul serio o non sarei sopravvissuta mezzo giornata, sola e semi squattrinata com'ero.

 

Mi guardai attorno qualche secondo ancora incredula d'essere a New York, chiusi gli occhi per prendere un respiro profondo e inspirai a pieni polmoni l'aria della Grande Mela quasi come fosse la mia unica possibilità d'uscita, o di riuscita.

Fu inevitabile ripensare a quanto potessi essere felice al momento se la situazione fosse stata differente, se non mi avessero voltato le spalle senza una reale ragione, se...

No, non è il momento di ripensare a ciò che mi hanno fatto!

Il sarcasmo della mia mente stranamente fece spazio alla pura e semplice ragione: in questo momento non potevo permettermi di star male per quello che era successo.

Presi la cartina dallo zaino, allontanando così i brutti pensieri, e cercai di capire dove fossi di preciso per dirigermi finalmente verso casa di Amy, la nuova casa di Amy.

Avevo conosciuto Amy diversi anni prima durante la mia prima e unica vacanza studio fatta proprio qui a New York. La sua famiglia mi ospitò per ben tre mesi, i mesi più belli di tutta la mia vita, e io ricambiai ospitandola l'anno successivo.

È stato strano rendermi conto come bastasse non conoscere un posto per poterlo amare e apprezzare in modo incondizionato. Ricordo ancora molto bene quanto fosse innamorata di Milano, ero sconvolta perché conoscendo la sua città natale non mi capacitavo di come potesse trovare così suggestiva una città a mio avviso piatta, grigia e banale come la mia.

Amavo Milano, nonostante gli aggettivi con i quali la descrivevo, e amavo l'Italia che è pur sempre casa mia e rimane un grande orgoglio per me sapere di esser nata in una nazione così ricca di storia e di meraviglie, ma sono sempre stata attratta dall'immensità degli Stati Uniti, dalla loro contemporaneità disarmante e dall'assenza, o quasi, di quel maledetto e insistente pregiudizio che impedisce agli artisti di esprimersi davvero – cosa un po' troppo ricorrente in Italia, mio malgrado.

Arrivai sotto la palazzina di Amy dove fortunatamente trovai il portiere proprio all'ingresso.

«Buongiorno! Sono una cara amica della signorina Amy Roberts, sa per caso dirmi come raggiungere il suo appartamento?»

Il portiere mi guardò con il sorriso stampato in volto e fu prontissimo nel rispondermi.

«Buongiorno a lei signorina! Guardi, deve entrare nel cortile e prendere la scala A – sesto piano sulla sinistra.»

Sorrisi alla sua risposta e lo ringraziai.

Presi l'ascensore, sei piani erano decisamente troppi e la mia pigrizia di certo non si sarebbe tirata indietro in momenti come questo.

Suonai il campanello e attesi la risposta; non ebbi neanche il tempo di dire chi fossi che la porta si aprì e mi ritrovai al collo le braccia della dolce Amy.

«Oh mio Dio, Barb! Cosa ci fai qui?» urlò nell'abbraccio.

Troppa tensione accumulata, troppa emozione, anzi troppe emozioni. E così fu inevitabile per me scoppiare il lacrime.
Si staccò dall'abbraccio e iniziò a guardarmi mortificata; probabilmente comprese subito il problema, anche se dubito potesse immaginare tutto quello che era successo, sarebbe stato assurdo pure per una veggente.

Mi condusse dentro casa facendomi appoggiare la valigia vicino alla porta di ingresso e ci sedemmo sul divano in soggiorno.

«Tesoro, vuoi raccontarmi tutto per favore?» chiese con dolcezza.

Asciugai le lacrime con un fazzoletto preso dallo zaino e con voce strozzata iniziai a parlare.

«Io... io sono... scappata, Amy.»

Rabbrividii nel vedere i suoi occhi aprirsi come non mai, mentre rimaneva in silenzio.

«Ho provato ad aprirmi, ho provato a spiegare loro quanto amassi recitare e il desiderio che ho di rendere il mio sogno reale. Ho provato con ogni mia cellula a far capire loro che questa sono io: Barbara che sogna di poter arrivare un giorno a essere fiera di sé per aver interpretato ogni genere di personaggio, per essere arrivata nei cuori degli spettatori, per aver reso giustizia ai ruoli in cui si è calata, per aver svolto bene e nel miglior modo possibile un lavoro che è da quando sono nata che desidero di poter fare» confessai tutto d'un fiato.

Amy mi guardò per un attimo prima di rispondere, forse aveva bisogno anche lei di un po' di tempo per metabolizzare il tutto.

«Barbi, lo sai che ti voglio bene ma non so se questa sia stata davvero una buona idea. Cerca di non fraintendermi, appoggio il tuo voler inseguire i tuoi sogni e penso sia giusto tu sia qui, solo... non così!»

Scossi il capo e decisi di non voler continuare il discorso, non per il momento.

«Io... sono troppo stanca oggi per parlarne.»

Annuì e mi sorrise, concludendo la discussione, almeno per quel giorno.

Da lì in poi, per almeno tre ore, parlammo del più e del meno toccando ogni tasto possibile escluso quello tabù. Mi raccontò del suo stage per la rivista Vogue, di quanto fosse dura per lei doversi mordere la lingua il più delle volte ma che niente e nessuno le avrebbe impedito di sfondare e diventare un'eccellente redattrice.

Parlammo della mia permanenza qui a New York e concordammo che mi avrebbe ospitata finché non mi avrebbero dato la stanza al college della scuola.

Durante i nostri vari racconti mi introdusse una novità davvero molto bella e inaspettata: dopo tre anni il suo ragazzo, Justin, le aveva chiesto di sposarlo.
«Oh. Mio. Dioooooooooooooooooooo» urlai entusiasta mentre Amy arrossiva.

Era bello vederla per una volta così esposta, era più semplice per me leggerle negli occhi la gioia.

«Beh, ancora non c'è una data e considerando lo stage non penso accadrà prima di terminarlo e aver qualcosa di più stabile, però...» e lasciò in sospeso una frase che racchiudeva tutto il suo essere, tutto l'amore che provava per quel ragazzo meraviglioso che la rendeva così felice.

Si alzò per sistemare dei vestiti lasciati in giro.

«Amy, ti dispiace se faccio una passeggiata? Ho bisogno di liberare un po' di tensione.»

«Certo, verrei con te se non stessi aspettando Justin! Però posso sistemarti la camera per gli ospiti, così al tuo ritorno sarà tutto a posto.»

Mi alzai dal divano e lei mi seguì fino al pianerottolo che dava sulle scale. Ero quasi arrivata ai gradini e girandomi le chiesi un'ultima volta, «Sei sicura che a Justin non darà fastidio la mia presenza in casa? Voglio dire, ormai convivete e siete promessi sposi, forse sono di troppo, no?»

Non mi accorsi che nel mentre stavo proseguendo la mia marcia verso le scale, così, prima che me ne potessi rendere conto, prima che Amy concludesse il suo “stai attenta”, prima che qualsiasi cosa mi impedisse di fare l'ennesima figura maldestra ecco che il mio piede finì dritto dentro il secchio di acqua con il quale pulivano le scale. Persi immediatamente l'equilibrio e, a occhi chiusi, pensando al mio corpo volar giù per le scale, credetti di morire.

Sentii delle mani cingermi il busto, appena sotto il seno, il mio viso sbattere contro qualcosa di duro e le mie braccia allacciarsi a un qualcosa di apparentemente stabile.

«Ehi, inizio a pensare tu lo faccia apposta!» disse il ragazzo che mi salvò la vita.

Aprii gli occhi e mi accorsi di aver praticamente abbracciato il mio salvatore con il viso poggiato al suo petto. Alzai lo sguardo per ringraziarlo e mi maledissi per non aver riconosciuto la voce.

«O-oddio, scusami...» mormorai, pietrificandomi. Il bel ragazzo di stamattina mi aveva appena salvato la vita.

Senza staccarmi da lui mi accorsi di avergli bagnato le scarpe con l'acqua del secchio e mi sentii ancora più in imbarazzo.

Sei un disastro!

«Uhm... non che avere una ragazza a contatto con il mio corpo mi dispiaccia poi così tanto, ma pensi di staccarti, piccolo danno?»

Piccolo danno?

Va bene, avrà anche impedito di schiantarmi a terra, ma si sarebbe potuto risparmiare quel nomignolo.

Staccai le braccia da lui e cercai di ricompormi mentre toglieva le sue mani calde e ben salde dal mio busto. Per un secondo mi sentii girare la testa.

«Tutto bene, Barbi?» chiese Amy molto preoccupata. Si sarà sicuramente presa un bello spavento con quel mio quasi-volo.

«Sì, tutto bene...» farfugliai, sul punto di iniziare a urlare con me stessa per non fare mai attenzione e finire in situazioni così imbarazzanti.

«Barbi... uhm...» sussurrò il ragazzo, per poi continuare, «Ehi, vicina, ma la tua amica ha sempre questo vizio di cascare addosso alle persone?» chiese divertito.

Dio, stavo cominciando a odiarlo.

Amy rise, divertita, e stizzita iniziai a scendere le scale, cercando di sbollire l'ira che stava prendendo possesso del mio corpo.

Che bella presa che ha però... e che pettorali!

Bene, ci mancavano i miei pensieri perversi.

«Barbi, non è il caso che ti cambi prima di uscire?» mi fece notare Amy, tentando di non umiliarmi per non essermi resa conto dell'ovvio: pantalone e scarpe fradice, ottima combinazione per uscire.

Feci marcia indietro e risalii le scale, lanciando uno sguardo di fulmini e saette al ragazzo divertito della mia goffaggine, entrai dentro casa di Amy e mandai al diavolo la mia passeggiata liberatoria.

 

«Ma toglimi una curiosità: Matt prima ha detto delle frasi che... cioè, vi siete già visti?» chiese Amy mentre girava per la stanza alla ricerca delle lenzuola pulite da mettere al letto a me destinato.

«Sul bus per arrivare qui dal JFK... mi ha dato una mano a metter su la valigia avendo visto che stavo per crollargli addosso!» risposi seccata.

«Amoooore!» si sentì dall'ingresso. Justin era arrivato.

«Ne riparliamo, mia cara, i tuoi occhietti svelano più delle tue parole o del tuo tono scocciato. Tesoro, siamo qui in camera, qualcuno ci ha fatto una sorpresa!»

Salutai Justin felice di rivederlo dopo tanti anni, se si considera che quando lo conobbi non erano ancora una coppia. Dopo qualche domanda di rito e battute varie decisi di andare a farmi una bella doccia e lasciarli un po' soli.

Sì, sei un tantino di troppo, mia cara!

La gentilezza unica e indistinguibile dei miei pensieri.

Entrando in bagno mi accorsi della vasca, così abbandonai l'idea della doccia per qualcosa di più rilassante. Presi uno dei flaconcini posti lì vicino e versai un po' di bagnoschiuma mentre l'acqua riempiva la vasca.

Schiuma e bollicine... perfetto!

Ripensai alla frase di Amy perché proprio non riuscivo a comprendere cosa potessero dire i miei occhi più delle mie parole. Lungi da me il pensiero di averle fatto capire un interesse inesistente nei confronti di quel Matt!
Sì, era indubbiamente un bel ragazzo con un bel fisico, degli occhi profondi e magnetici, dal capello sexy, la barbetta che gli dava un'aria attraente, le labbra che urlavano al bacio...

Altro?

Era assolutamente fuori discussione, stop.

Scossi il capo e tornai a rilassarmi prima di finire quel pericoloso elenco.

Bussarono alla porta mentre ero ancora dentro il bagno. Presi l'accappatoio, lo misi e aprii.

«Barbi, noi andiamo dai genitori di Justin, non sapevamo del tuo arrivo e avevamo promesso loro che saremmo passati nel tardo pomeriggio. Magari ci vediamo più tardi per un gelato. Ti va di venire? Ti scrivo dove e ti aspettiamo nel caso.»

«No, sono distrutta! Penso non cenerò nemmeno e mi lancerò nel letto... jet lag» risposi, strizzando l'occhio per farle intendere che è tutto okay.

Mai e poi mai sarei uscita con la coppietta. Justin era un ragazzo d'oro e molto simpatico, ma non mi è mai piaciuto fare la terza incomoda e di certo non era un buon modo per iniziare la mia vita newyorkese.

Eravamo verso gli ultimi giorni di Settembre e il caldo non aveva ancora lasciato del tutto la città, misi così un pigiama leggero e semplice: canotta e pantaloncini, giusto per restare comoda.

Presi valigia e zaino e provai a sistemare lo stretto necessario per quei giorni in cui sarei rimasta da Amy.

Nel rovistare lo zaino mi capitò tra le mani la lettera per i miei genitori e mi si bloccò il respiro.

La mia famiglia era convinta io fossi in vacanza con amici e che sarei ritornata a metà Ottobre ma così non era. Ero partita senza dire niente, decisione presa quasi d'istinto dopo l'ennesima, intensa litigata con mio padre. Sia lui che mia madre non riuscivano proprio a concepire la mia passione per la recitazione ed ero stanca di lottare contro un muro di mattoni ben costruito.

Sospirai, pensando a quanto male gli recherà il giorno in cui leggeranno la lettera e si renderanno conto che la loro primogenita non avrebbe fatto ritorno ad Ottobre, né i mesi successivi.

Se la sono cercata.

Sì, ma questo non rende il tutto indolore.

Il suono del campanello attirò la mia attenzione e per una volta ringraziai il cielo di avermi mandato una distrazione.

Aprii la porta senza badare a chiedere chi fosse o guardare dallo spioncino della porta.

«Ehi, Barbi» salutò il “ragazzo della porta accanto”.

«Prima di tutto Barbara e non Barbi, non mi risulta tu sia mio stretto amico e in quel modo mi chiamano gli amici» dissi stizzita. Ripresi fiato per poi continuare: «e poi... ehm... che... vuoi?» Terminai rapidamente, realizzando che era davanti a me a petto nudo.

Che bel panorama! Bella, la casa di Amy...

Sicuramente si accorse della mia attenzione verso i suoi pettorali perché sorrise compiaciuto prima di rispondermi.

«Niente, ”Barbara”... stavo pensando di uscire e mi chiedevo se ti andasse di unirti a me!»

Oh, se esci a petto nudo sì!

«Io n... non ti conosco, perché dovrei uscire con te?»

Mi sfilò dalle mani la lettera dei miei genitori mentre tentavo di rispondere al suo invito usando il senno e non altro.

«Che fai? Ridammela!» gli ordinai saltellando per cercare di riprenderla.

«Sei troppo cucciola quando saltelli!» rise.

Lo guardai, sollevando un sopracciglio, incredula.

«Okay, se accetto me la restituisci negoziai, ricomponendomi nella speranza di mostrarmi seria.

Sorrise e in poco più di due secondi lasciò un bacio sui miei capelli, scappò verso la porta di casa sua e prima di chiuderla, lasciandomi a bocca aperta sull'uscio di Amy, ammiccò dicendomi: «Questa la tengo come garanzia! Passo a prenderti tra dieci minuti, muoviti!»

In quel momento avrei tanto voluto sbattere i piedi come una bambina ma cercai di trattenermi, se non altro per non umiliarmi del tutto.

Sarei mai riuscita a riposare? Iniziavo a dubitarne.

Non solo ero stata obbligata sotto ricatto a uscire con lui – ragazzo sconosciuto, o meglio conosciuto grazie alla mia goffaggine – per di più avevo solo dieci minuti di tempo per prepararmi.

Dalla valigia già aperta presi un paio di jeans e una camicia che decisi di infilare sopra la canotta che avevo già addosso. Misi solo un filo di mascara e matita nera, poi andai in cucina per scrivere un biglietto ad Amy:

 

NO, NON SONO SCAPPATA ANCHE DA TE... SEMPLICEMENTE HAI UN VICINO STRONZO E BRAVO CON I RICATTI.
A DOPO

BARBI

 

«Tieni.»

Afferrai la lettera e la poggiai sopra il mobile vicino all'ingresso, dal quale presi invece le chiavi di casa.

«Sei stata veloce a prepararti» notò squadrandomi.

«Avevo scelta?» risposi sarcastica.

Matt fece spallucce e chiamò l'ascensore.

Uhm... in ascensore. Si fa interessante la serata!

«Ehm... non possiamo fare le scale?» chiesi imbarazzata.

«Non sono un maniaco, Barbi, sono solo gentile, tranquillizzati!»

Sapevo di averlo appena conosciuto e di non aver alcun interesse nei suoi confronti, ma alcune volte gli ormoni impazzivano inspiegabilmente portandomi a scabrosi pensieri.

Sì, è un bel ragazzo ma dovevo rilassarmi.

Sarà l'astinenza, cara?

Dio, quanto avrei voluto poter spegnere quei dannati pensieri.

L'ascensore arrivò ed entrammo. Mi ero messa il più vicino possibile alla porta per poter sgattaiolare fuori nell'istante esatto della riapertura.

Matt, alle mie spalle, schiacciò il pulsante del piano terra e l'ascensore chiuse le porte automatiche.

Ero tesissima e non riuscivo nemmeno a spiegarmelo, non aveva alcun senso.

Sentii un mano accarezzarmi il braccio, scendendo dalla spalla; quel tocco mi fece sussultare e irrigidire. Ero troppo irrequieta e questo comportamento non mi avrebbe portato a nulla, se non a una lunga serie di figuracce.

«Ehi, rilassati. Te lo giuro, ti ho chiesto di farmi compagnia perché mi andava di farti passare una bella serata... È solo gentilezza» disse con tono tranquillo.

Mi voltai per guardarlo e sembrava sincero. I suoi occhi, scuri e profondi, non sembravano mentire - anche se non conoscendolo potevo leggere ben poco dalle sue espressioni, ma perlomeno sembravano coincidere con il suo tono di voce.

Annuii con il capo e mi rigirai, sentendo le porte riaprirsi.

«Dove andiamo?» chiesi, seguendolo indipendentemente dalla risposta.

«Volevo fare due passi, boh... ti va se andiamo al Battery Park?»

Lo fissai come un bambino guarderebbe l'insegnante se in prima elementare iniziasse a parlare di fisica quantistica.

Matt rise.

«Dai, ti ci porto così non ti ritroverai più a fare questa faccia!»

Mi strinsi nelle spalle e ricominciammo la marcia.

Erano le sette del pomeriggio, le strade erano piene di traffico, taxi gialli ovunque e una fiumana di turisti in giro in ogni singolo angolo della città. New York era sempre troppo bella, indipendentemente dalla stagione.

«Cosa ti porta qui a New York?» domandò Matt a un certo punto.

«È una storia lunga...» E non mi andava proprio di parlarne. A quanto pare comprese perché non indagò oltre.

Girammo l'angolo, dove c'era un enorme Starbucks. Dio mi tenga lontana da quel posto o faccio fuori tutti i suoi dolci fino a star male.

«Baaaaaarbiiiii!» sentii urlare. Era Amy che passeggiava poco distante da Starbucks.

Matt e io ci stavamo dirigendo verso Amy e Justin quando Amy disse una frase che mi fece storcere il naso.

«Oh, che sorpresa vedervi qui insieme...»

«Amy» dissi con tono di rimprovero «devo dirti due cose, vieni.»

«Justin, vai con Matt a ordinare qualcosa? Noi prendiamo posto.»

Entrammo così da Starbucks e una volta sedute le rivolsi uno sguardo fulminante.

«Scusa, lo so... mi dispiaceva tantissimo essere fuori con Justin e lasciarti sola a casa, così ho pensato di chiedere a Matt di farti uscire! Mi è sembrato aveste una certa intesa...»

Sbarrai gli occhi a tal punto che temetti potessero uscire dalle orbite. Come diavolo poteva pensare che tra me e Matt ci fosse intesa? Che genere di intesa?

Sessuale... magari?

Nascosi il volto con le mani per la disperazione. Ormai non sapevo chi mi stesse tradendo di più tra il mio cervello e i suoi pensieri punzecchianti o la mia amica americana con le supposizioni basate sul nulla.

«È un bel ragazzo, non lo metto in dubbio, ma non ci conosciamo per niente... non ci siamo nemmeno presentati!» esclamai.

Amy alzò le mani in segno di resa e mi sorrise.

«Eccoci!» I ragazzi ci raggiunsero con un sacco di prelibatezze scelte a caso, ma non importava: qui era tutto buono.

Sedendosi Justin lasciò un rapido bacio sulle labbra di Amy e io avvertii inevitabilmente una stretta allo stomaco.

Quanto tempo era che qualcuno non faceva così con me? In realtà nessuno si era mai comportato in quel modo, nonostante i miei diciannove anni, l'unica storia che avevo avuto era durata meno di un mese e... No, dovevo lasciar perdere quei pessimi ricordi.

Matt mi diede una gomitata leggera per richiamare la mia attenzione; alzai lo sguardo e gli sorrisi, cercando di non far trapelare nulla dai miei occhi, almeno questa volta.

«Ehi, Matt, ma che cafone sei? Presentati a Barbi!»

«Amy» la richiamai a denti stretti.

Matt si alzò dalla sedia e con gesto teatrale mi rivolse una sorta di inchino.

«Gentile signorina, è un immenso onore per me conoscerla. Mi presento, sono Matthew Ian Clarke.» Sporse la mano aspettandosi la mia in risposta.

Imbarazzatissima afferrai la sua mano, mentre con quella che avevo ancora libera mi coprivo il viso per nasconderne il rossore.

«Il suo nome, dolce milady?»

«Barbara Lea Loveti» risposi, soffocando le risate.

Baciò la mia mano e ritornò a sedersi.

«Contenta, Amy?» le domandò alla fine di quel teatrino.

«Uhm...» Faceva anche la difficile ora? Ero allibita.

«In realtà, considerando il fatto che Barbi sogna di diventare un'attrice mi sarei aspettata una performance migliore da parte sua. Tu, Matt, invece, sei stato impeccabile!»

«M-ma...» balbettai poco prima che scoppiasse una sonora risata di gruppo.

La serata terminò tranquillamente, chiacchierando del più o del meno nemmeno fossimo vecchi amici presi dai propri racconti.

Ne avevo proprio bisogno.

 

Era passata poco più di una settimana dall'ultima volta che avevo visto Matt, dalla serata di risate e frappuccini buonissimi da Starbucks. Ammisi a me stessa che la cosa mi dispiaceva un po'.

«Dove stai andando?» chiese Amy, vedendomi già vestita alle nove del mattino, cosa alquanto insolita per i miei standard.

«La scuola... Mi hanno mandato una mail qualche giorno fa perché l'insegnante di danza vuole vedere le matricole.»

«Farai anche danza?» esclamò, stupita.

«Lasciamo perdere, credimi!» risposi rassegnata. Danza era una materia che speravo di non seguire. Andare agli spettacoli non mi era mai dispiaciuto, al contrario amavo guardare delle belle coreografie sia di contemporaneo, hip-hop o classico. Ma ballare io?

Se intendi fare il comico...

Sì, era tremendamente vero. Una volta provai ad andare in discoteca, di nascosto dai miei genitori, e tornai a casa in perfetto orario perché in pochi minuti ero diventata il guest della serata grazie alla mia immensa abilità nel far ridere tutta la sala.

Presi le chiavi poggiate nel piattino sul mobile e salutai Amy con la mano. Aspettando l'ascensore, guardai la porta di casa di Matt e dentro di me sperai con tutto il cuore che ne uscisse con quella sua aria da “sono troppo figo, lo so”, ma così non fu.

La scuola non era tanto distante da casa di Amy, ci misi veramente poco ad arrivare.

Dramatic Arts Academy of New York”.

La scritta risultava imponente all'ingresso dell'immensa struttura che dava accesso al campus. Vi entrai intimidita: se solo non fosse stato per danza non sarei stata così agitata.

Afferrai subito un opuscolo con la cartina, cercai l'edificio verso il quale mi sarei dovuta dirigere e dopo pochi minuti lo trovai.

Questa scuola era davvero grande, piena di edifici, spazi aperti, la sezione di canto, danza, recitazione, doppiaggio, regia, sceneggiatura, scenografia... C'era davvero di tutto lì dentro. I dormitori invece si trovavano vicino all'ingresso e accanto c’erano la mensa e la biblioteca.

Arrivai all'edificio, dove trovai già tantissimi ragazzi nel corridoio che dava accesso all'aula, dentro la quale doveva esserci l’insegnante.

Rabbrividii all'idea di dover ballare davanti ad altri, anche gente incapace come me.

Cercai qualcuno a cui chiedere informazioni e trovai una ragazza in apparenza normale - non una di quelle “me la tiro perché posso”.

«Scusa, sai cosa... cioè, chiamano loro o...»

Lei mi sorrise e rispose tranquilla che avrebbero chiamato gli insegnanti uno alla volta facendoci entrare.

Appena terminò la frase mi accorsi che una ragazza era appena uscita in lacrime.

Cazzo.

Quello era uno di quei momenti in cui lo yoga mi avrebbe fatto bene, non dovevo andare in iperventilazione per nessuna ragione.

Calma, Barbara, è tutto ok!

Entrarono, man mano, altre dieci persone e la tensione nel corridoio si faceva sempre più consistente; le ragazze che prima scambiavano parole, risate e irritanti gridolini da pettegole ora erano in silenzio con lo sguardo perso nel vuoto.

«Barbara Lea Loveti.»

Oddio, tocca a me.

L'aula era spaziosa e coperta di specchi. Sulla parete di fronte all'ingresso erano state posizionate le sbarre e il muro accanto era attraversato da enormi finestre.

L'insegnante era seduta su uno sgabello in modo molto elegante, al suo posto avrei assunto una posa totalmente diversa e molto poco fine.

«Buongiorno» dissi, cercando di non esitare.

Lei, con sguardo di superiorità, fece un cenno con il capo.

Dire “buongiorno” no, eh?

Effettivamente era poco simpatico il suo modo di atteggiarsi.

«Sono Eleonor Hudson Smith, insegnante di danza classica in questa accademia da innumerevoli anni.»

La guardai rimanendo in silenzio per paura di dire cose inappropriate.

«Hai mai ballato in vita tua... Barbara?» disse, controllando sul foglio il mio nome.

«No, mai , sig...»

«Signorina, grazie» terminò prima che potessi darle della signora. Riprese subito chiedendomi di andare alla sbarra.

A quel punto era inutile nasconderlo, me la stavo facendo sotto.

«Come ben sai, cara Barbara, danza ti darà ben 5 dei 12 crediti che, nel caso in cui tu studiassi e fossi eccellente, otterresti alla fine del tuo primo anno.»

Cinque dannati crediti a una materia che non avevo idea come avrei fatto a superare.

Fantastico!

«Prima posizione, grazie!» ordinò improvvisamente.

Prima posizione?

Cominciai a sudare freddo, non avendo la più pallida idea di cosa volesse dalla mia vita con quella richiesta. La guardai, sperando non mi urlasse contro e decidesse di eliminarmi del tutto prima ancora di iniziare i corsi.

«Quei dannati attori che accettano gente che non ha mai danzato... IDIOTI! Ecco cosa sono» sbuffò presa dall'ira.

Dentro di me mi feci piccola piccola. Penso di non essere mai stata così intimorita davanti a qualcuno durante il corso di tutta la mia vita.

«Vai, vai. Tanto che ti faccio ballare a fare? Non sai proprio niente. Fatti trovare qui alle sei in punto.»

«Di stasera?» mi uscii spontaneo e me ne pentii meno di un secondo dopo.

«Magari potessi permetterti di perdere altro tempo, mia cara! VAI!»

Scappai fuori dall'aula con una tale velocità che sembrava avessi un drago sputafuoco alle calcagna.

Passai le ore successive nel giardino del campus in preda al panico. Perché diavolo mi aveva chiesto di tornare in aula più tardi? Sarei stata l'unica? Che vergogna.

Le domande scorrevano veloci nella mia testa, una dietro l'altra senza sosta. Era una situazione paradossale e quando avevo scelto di iscrivermi in questa scuola era per riuscire a diventare un'attrice davvero brava e completa, ma mai e poi mai avrei immaginato fossero rigidi a tal punto da pretendere persone eccellenti in tutte le discipline.

Dovevo ammettere di non aver minimamente pensato a prepararmi almeno un pochino per il corso, ma che senso avrebbe avuto fare una o due lezioni prima di oggi? Forse a quest'ora saprei cos'è la prima posizione, niente di più.

Continuavo ad agitarmi, oltre la frustrazione stava prendendo piede la rabbia.

In recitazione ero portata, me la cavavo bene e, anche se normalmente ero timida ed era facile farmi arrossire, quando interpretavo un ruolo mi calavo completamente nel personaggio e interiorizzavo il suo essere, il suo carattere, tutto dando sempre il 100%.

Ammazzai il tempo girovagando per il campus e curiosando un po' ovunque e poco prima dell'orario stabilito ritornai all'edificio di Malefica.

Le calza a pennello, lo ammetto.

Mi strinsi nelle spalle.

Entrando nell'edificio notai di essere sola.

Barbara, non sarai l'unica, tranquilla, mi ripetevo come un mantra cercando di calmarmi e in quel momento arrivò Malefica.

«Vieni!» disse senza nemmeno voltarsi a guardarmi.

Entrammo in aula e aspettai le sue parole.

«Tra tutti gli studenti visti oggi sei decisamente l'unica messa davvero così male. Sì, di incapaci ne ho visti tanti... oggi come ogni santissimo anno, ma tu...» E mi guardò con sdegno. «Tu, mia cara, come puoi essere così sfacciata da entrare in questa scuola senza sapere nulla di danza?»

Era una domanda retorica, vero?

Nel dubbio rimasi in silenzio.

«Purtroppo per te, o per me temo, amo le sfide perciò non permetterò che tu vada via di qui senza aver imparato qualcosa. Di tempo da perdere non ne ho, ecco perché ho deciso di affiancarti un Tutor con il quale dovrai seguire le mie lezioni e che dovrai vedere tutti i giorni, per almeno due ore, in privato così che tu possa imparare e, che Dio mi assista, arrivare al pari dei tuoi compagni. Nota bene, occhi blu, non mi interessa quanti corsi avrai o quanto dovrai studiare per superare le altre materie... Questa è un'imposizione che dovrai seguire se vorrai quei 5 crediti.»

Mi guardò soddisfatta, notando il mio silenzio e il mio sguardo spaventato.

«Entra, mio caro!» disse infine, rivolgendosi alla porta.

La porta si aprì ed entrò un ragazzo.

Matt!

«Piacere, sono Matt!» si presentò gongolando.

Era ufficiale: qualcuno ce l’aveva con me.

 

* * * * *

SPAZIO AUTRICE

Grazie a tutti coloro i quali sono passati di qua e hanno deciso di leggere il prologo di questa storia.
Ringrazio la splendida Beta Reader, che mi ha dato le dritte per non proporvi un capitolo drammaticamente ricco di errori, ringrazio Alba, sempre pronta ad incoraggiarmi e sostenermi, e tutte le persone che mi hanno dimostrato interesse ancor prima di leggere.

Spero con tutto il cuore il prologo vi sia piaciuto e vi abbia incuriosito per tornare a leggere i prossimi capitoli e, se così fosse, vi lascio il link del gruppo dentro il quale inserirò immagini, spoiler o, più semplicemente, potremo parlare in modo più immediato della storia: honeyes !

Queste, invece, sono delle storie che vi consiglio di leggere: | Gli eroi di Sandpoint | :)

Grazie ancora a tutti!
Willa 
   
 
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