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Autore: AntheaMalec    10/06/2013    7 recensioni
Stando a recenti studi sul cervello umano, si è potuto elaborare una nuova macchina che avrà il potere di rilegarci a persone perdute per sempre o rivivere momenti passati. Lo studioso Robert Hiddleston, specializzato in neurologia da molte decadi, ha finalmente rivelato il suo lavoro di una vita. Si chiama “Brain-Heart” e molti hanno già storto il naso per la banalità del nome, ma il signor Hiddleston ha rilasciato un’intervista solo per noi: ‘E’ glorificante pensare che la società moderna potrà smettere di piangere su cari familiari o amici defunti o rivivere il giorno più bello della loro vita ancora una volta, ecco.'
Genere: Angst, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Mycroft Holmes , Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Un’altra, ultima volta
 
But if you close your eyes,
Does it almost feel like
Nothing changed at all?
And if you close your eyes,
Does it almost feel like
You've been here before?
How am I gonna be an optimist about this?


Pompeii
 
 
“Al mio tre. Uno, due, tre, libera!”
Aveva le mani ghiacciate contro il jeans umido di sudore freddo mentre gli occhi era costantemente fissi sul gruppo di dottori intorno al lettino da ambulanza, cercando di risvegliare qualcuno che non avrebbe mai più posato il suo acuto sguardo su nient’altro che non fosse l’interno delle sue palpebre chiuse. John aveva cercato di prepararsi a quella scena con tutte le sue forze perché sapevano entrambi, da oltre due mesi, che sarebbe finita in quel modo, che Sherlock non ce l’avrebbe fatta a superare quella malattia.
“Ancora una volta. Libera!”
Eppure non riusciva a non trovare irritante il suono acuto della sirena dell’ambulanza, non riusciva a non trovare irrisori i continui tentavi da parte dei medici, il loro continuo aggrapparsi ad una vita che era già scivolata dalle loro mani interi minuti fa. John avrebbe voluto piangere e sfogarsi contro o con qualcuno, ma tutto ciò che arrivava alle sue orecchie e alla sua anima sembrava ovattato, come se nulla potesse veramente ferirlo. La schiena di Sherlock si inarcó ancora sotto la scossa di elettricità dovuta all’elettroshock e John trattenne il respiro, come se il piccolo elettrocardiogramma posizionato nell’angolo del veicolo potesse in qualche modo smettere di essere così dannatamente immobile e ritornasse a scandire gli armoniosi e appassionati battiti del cuore del suo uomo.
John batté le ciglia una volta sola, non perdendo un momento di vista il corpo di Sherlock, come se potesse scomparire da un momento all’altro.
Poi il silenzio.
“Okay…ora del decesso?” John sentì distintamente l’ambulanza fermarsi proprio come sentì il suo cuore frantumarsi in milioni di pezzi e, al suo posto, comparire il vuoto più assoluto.
Una malattia che aveva portato all’uccisione di due persone. Sherlock Holmes era morto e John Watson insieme con lui, sprofondato nel silenzioso dolore dell’abbandono.
 
15 marzo 2014
 
Il sole calava dietro lo skyline di case creato dai grigi edifici della periferia di Londra. Un altro giorno filtrato nuovamente via dalle dita mentre la calma quotidianità di John arrivava al suo termine. Un monotono alzarsi dal letto tutte le mattine, da solo, incamminarsi fino al lavoro e fingere per tutto il tempo di non avere un buco grande quanto il mondo proprio al centro del petto, dove faceva più male. Alle volte si concedeva delle piccole eccezioni, come quando andava a visitare la sua tomba e ci restava rannicchiato fino a non sentire più le ossa o dove finiva il suo corpo e iniziava la pietra fredda.  O quando, come in quel momento, si limitava a restare seduto sul minuscolo balcone che gli concedeva il condominio di quarta categoria dove alloggiava, con, sulle gambe, il giornale appena comprato e dentro al cuore la promessa di non leggere nessuna cronaca nera che potesse collegare a misteri, ovvero casi da risolvere, ovvero tutto ciò che lui aveva perso. John si sentiva come un vulcano inesploso, dentro aveva tutto, aveva l’universo, ma nessuno lo sapeva. Distolse lo sguardo dall’ultimo pallido bagliore pomeridiano e si riconcentrò sulla prima pagina accartocciata malamente sulle ginocchia. Un titolo a caratteri cubitali recitava ‘la scoperta che potrebbe rivoluzionare il mondo di milioni di persone’. John aggrottò le sopracciglia, pensieroso, passando un dito sulle piccole righe dell’articolo. A quanto pareva, era uscita una di quelle nuove tecnologie che piacevano tanto alle nuove generazioni. La scienza sembrava continuare a fare portentosi passi avanti, portando il cervello molto più in alto delle sue capacità reali, cosa che a John pareva un po’ dubbia, visto il continuo rovinarsi esponenziale del pianeta dovuto agli effetti collaterali di tutte le loro nuove invenzioni. La scienza continuava a fare progressi sulla creazione del cosmo e non nel curare malattie mortali –niente di personale, ovviamente, proprio nulla. John continuò a leggere l’articolo, perso nei suoi pensieri, proprio quando la reale importanza di quel marchingegno gli attraversò il cervello come un fulmine.
Stando a recenti studi sul cervello umano, si è potuto elaborare una nuova macchina che avrà il potere di rilegarci a persone perdute per sempre o rivivere momenti passati. Lo studioso Robert Hiddleston, specializzato in neurologia da molte decadi, ha finalmente rivelato il suo lavoro di una vita. Si chiama “Brain-Heart” e molti hanno già storto il naso per la banalità del nome, ma il signor Hiddleston ha rilasciato un’intervista solo per noi: ‘E’ glorificante pensare che la società moderna potrà smettere di piangere su cari familiari o amici defunti o rivivere il giorno più bello della loro vita ancora una volta, ecco. Brain-Heart è direttamente riferito alla potenzialità che questa macchina ricava, per l'appunto, dal nostro cervello, da cui vengono prese le informazioni necessario per creare un mondo parallelo, assolutamente immaginario e astratto, e dal nostro cuore, che fa prendere la decisione di usare questa macchina, senza rischio alcuno né futuro né presente, e muove i fili di quell’intricato mondo. Sarete voi a decidere cosa succederà, potrete distorcere i vostri ricordi o crearne nuovi, potrete dire addio a persone a cui non potete più parlare, potrete ballare sotto le luci brillanti del vostro matrimonio ancora una volta. Sì, è decisamente glorificante.’ Lo studio si trova a Londra, luogo di nascita dello scienziato, e, nonostante l’apertura sia stata solo oggi, si possono contare già giovani ricchi che vogliono provare l’esperienza più entusiasmante degli ultimi vent’anni. Affrettatevi, solo se avete il portafoglio molto pieno!”
John rimase a fissare la pagina per minuti interi, sentendosi la gola secca e la testa girare. Sherlock. Sherlock era lì, in quel laboratorio, ad aspettare che lui andasse a ritrovarlo, a stringerlo come non aveva più potuto fare. Prese un respiro profondo mentre le mani continuavano a tremare senza controllo. Poteva davvero rivederlo? Abbracciarlo come se non si fossero mai lasciati? Respirare il balsamo dei suoi ricci e guardare i suoi occhi pieni di conoscenza? Poteva lasciarsi quel mondo noioso alle spalle per ritornare sul campo di battaglia? No, non poteva, ecco qual era la risposta. Una news di quella portata sarebbe stata al livello di grossi e grassi ricchi, che non avevano un affitto da pagare, insieme a bollette e cibo. John non poteva permetterselo, lo sapeva, ma un desiderio incontrollabile stava aumentando dentro lui come un fuoco incendiario; stava prendendo possesso del suo petto, bruciando i contorni del buco che la mancanza del suo uomo aveva creato, bruciando il suo cuore che ora batteva forte e potente, rimbombandogli nelle orecchie. Un’occasione più unica che rara, un’occasione che non poteva, assolutamente, farsi scappare.
Si alzò dalle mattonelle scure del balcone, lasciando lì il giornale come una bambola rotta e correndo a prendere il cellulare.
Aveva sempre pensato, dalla morte di Sherlock, che non avrebbe più sentito quella determinata voce, che non avrebbe più permesso a delle macchine nere di seguirlo, che non si sarebbe più abbassato a parlare con qualunque altro Holmes che non fosse il suo Holmes, perché avrebbe fatto troppo male, ma quello non era un giorno come gli altri. Quello era il giorno e lui non era intenzionato a farsi scappare l’occasione di una vita per il suo stupido cuore ferito.
“Pronto, Mycroft? E’ da tanto che non ci sentiamo…”
 
John si sentiva come un bambino particolarmente ansioso, in fila per salire su una giostra mai provata prima. Non che stesse facendo qualche fila, in realtà, e non si trovava nemmeno in un parco divertimenti, né era un bambino. Se Sherlock fosse stato di fianco a lui, in quel momento, gli avrebbe detto senza giri di parole di stare zitto, perché il suo continuo pensare a stupidità lo stava irritando. John sorrise un po' a quel pensiero, torcendosi le mani nella sala d’aspetto bianca del Brain-Heart. John si era fatto un’idea totalmente diversa di quell’edificio, magari con qualche cervello sanguinolento sul pavimento e corridoi in vetro in cui si potevano vedere tante persone legate e imbavagliate, con fili ovunque. Aveva elaborato quella visione raccapricciante all’una di notte, il giorno scorso, dopo aver bevuto tre pinte di birra ed essersi visto un documentario inquietante sulla riproduzione delle cicale. A conti fatti, a John sembrava di trovarsi in un normale ambulatorio, con pareti bianche e poster sulla potenza del cervello e sulle reazioni chimiche presenti nel corpo umano. Era grande, arioso e le luci erano tenui, come per permettere di aspettare il proprio turno con calma e leggerezza. Cosa che John non riusciva a fare. Mycroft era riuscito a fargli avere un appuntamento per la settimana seguente alla sua telefonata, pagando il servizio per lui. John aveva dichiarato che glieli avrebbe ridati al più presto, avrebbe cercato altri lavori e risanato il debito che aveva con lui. Mycroft, come risposta, aveva fatto un mezzo sorriso di scherno e altezzosità, mentre inarcava un solo sopracciglio. “Non credo tu possa ripagarlo neanche se volessi, John,” aveva proferito, prima di salire sulla sua macchina lucida e sparire dalla sua vista. Non che poi gli dispiacesse così tanto, si disse John, osservando alcune dottoresse passare dalla sala d’aspetto e volatilizzarsi all’istante, sapeva che gli Holmes era una famiglia ricca e Sherlock aveva lasciato a suo nome anche una ben discreta quantità di denaro, ma non voleva intaccarla in alcun modo –non le ultime cose che gli rimanevano di lui.
“John Watson?” John alzò la testa di scatto, guardando l’uomo sulla quarantina che ricambiava il suo sguardo, sorridendo cordialmente. “E’ il suo turno.” Si alzò, sentendo le gambe molli e la testa girare. “Stia tranquillo, non proverà alcun dolore.” John annuì, seguendo il signore lungo uno stretto corridoio color pastello, fino a una stanza arredata come una camera da letto. Una camera da letto? John aggrottò le sopracciglia, confuso, mentre l’uomo continuò ad avere un sorriso accondiscendente sul volto. “Non si preoccupi, è la procedura. Ora deve solo stendersi sul letto e rilassarsi, cerchi di svuotare la sua mente e di concentrarsi su un unico pensiero, ovvero ciò che vorrà nel suo nuovo mondo parallelo.” John annuì, schiarendosi la voce e togliendosi le scarpe, in imbarazzo. Lo scienziato sparì dalla sua vista per poi ricomparire dietro il vetro della stanza a fianco, monitorando e schiacciando vari pulsanti che John non riusciva a vedere. John si sedette sul letto e si stese lentamente. “Okay, ora chiuda gli occhi e si rilassi, per favore.” Disse la voce storpiata dall’altoparlante del dottore precedente. John si sentiva come uno di quei topolini che venivano intrappolati in quei laboratori enormi e asettici, per venire poi riempito di radiazioni e liquidi mai provati prima. E’ tutto normale, si disse, non c’è alcun pericolo di non uscirne vivo. Fece come gli era stato detto, prendendo un profondo respiro e svuotando la sua mente. Milioni di flash con protagonista Sherlock gli rimbalzarono per la mente: lui sul divano, lui mentre sparava contro al muro, lui che correva nelle strade buie di Londra, lui che rideva, lui che usciva dalla sua camera solo con un lenzuolo, lui che baciava come un bambino troppo cresciuto, lui che si imbarazzava per gli abbracci ma non per sparare insulti su una scena del crimine, lui. “Mi dica quando è pronto, signor Watson.”
“Sono pronto.” Rispose, stringendo le lenzuola bianche sotto di lui.
“Sentirà un lieve pizzicore quando le antenne del sensore entreranno sotto la pelle delle tempie, ma non si agiti o rischierà di compromettere il lavoro.” Avrebbe voluto sbraitare che non era un maledetto bambino impaurito e che aveva visto più atrocità lui che la metà del popolo inglese, quando un lieve ronzio lo riscosse. “Si concentri, si concentri sul pensiero che ha scelto e lo focalizzi. Le macchine stanno per iniziare il loro lavoro. Si ricordi che ha tempo un’ora dall’entrata del sensore. Buon viaggio.” Il ronzio continuò ad aumentare, sempre più vicino, fino a quando sentì distintamente una decina di spilli penetrargli leggermente nelle tempie. In quel momento sentì una scarica percorrergli tutto il corpo, prima che il buio dietro alle palpebre venne rimpiazzato dalla luce della camera da letto di Sherlock Holmes, al 221 B di Baker Street.
Era sdraiato su un nuovo letto, in quel momento, e la sensazione che il materasso dava al suo corpo pareva come quella di tutti giorni e nello stesso tempo completamente diversa. John aveva gli occhi aperti, a fissare gli spari a forma di S sul soffitto, la tavola periodica alla sua sinistra insieme all’attaccapanni dietro alla porta. Era ritornato a casa. Provò a muovere le dita delle mani e poi quelle dei piedi e scoprì di poter spostarsi e respirare normalmente, come se quella fosse la sua realtà. John si alzò e andò a sbirciare dalla finestra, come un bambino la mattina di Natale, e ritrovò la quotidianità di quelle strade che erano state tutta la sua vita fino alla morte di Sherlock. John sorrise, felice, prima di girarsi verso la porta e osservare il lungo cappotto scuro del consulting detective. Era a casa. Sherlock era lì con lui. Corse nel corridoio fino al soggiorno che trovò completamente vuoto. “S-Sherlock?” Il solo ridire il suo nome ad alta voce gli provocò un’ondata di emozioni inimmaginabile. “Sherlock, dove sei?” John sentì un rumore nella cucina, chiusa dal vetro opaco, per poi sentirne un altro e un altro ancora, mentre una spirale di fumo grigio allungava le sue dita da sotto la porta. L’aprì di scatto per notare Sherlock, con la sua tipica camicia viola e i pantaloni dal taglio classico, intento in uno dei suoi esperimenti, chino su un liquido verdognolo che emanava quel vapore assurdo.
“Mh, no, credo di aver messo troppo azoto.” Borbottò, annotando qualcosa su un taccuino lì vicino. John sentì un’emozione così grande da sentire gli occhi farsi umidi, cosa che non capitava dalla prima vista di un cadavere martoriato in Afghanistan. Sherlock, l’amore della sua vita. John lo strinse così forte da lasciarlo senza fiato. “John, sto lavorando!” Rise, rise di cuore perché era l’unica cosa buona che sentiva da anni. Rise perché anche nella sua testa, Sherlock rimaneva Sherlock e non un burattino senza cervello nella sua mente. “Dio, Sherlock, mi sei mancato così tanto!” Sprofondò il viso nei suoi capelli, pressando le sue labbra contro la cute. C’era tutto, in quel momento. Il suo profumo, il calore della sua pelle che traspariva anche dal tessuto leggero della sua camicia, il tono strafottente ma calmo, quello che usava solo insieme a lui.
“Mi sembra che tu stia esagerando, John, io non me ne sono mai andato.” Il resto dell’ora la passarono abbracciati sul divano, con una vecchia soap di sottofondo che non guardava nessuno. Sherlock continuava a brontolare su quanto quel tempo fosse buttato al vento e sull’incompetenza del supermercato che non vendeva il nitrato di potassio –John, ormai tutti vendono nitrato di potassio!– mentre John continuava a spostargli i riccioli dalla fronte e a guardarlo negli occhi, come se fosse la cosa più importante del mondo –e lo era. Quando John osservò di nuovo l’orologio, notò che mancavano pochi minuti al ritorno alla realtà. Sherlock sembrò percepirlo, perché lo strinse un po’ di più e gli sussurrò tutti gli elementi sulle labbra, come se fosse la poesia d’amore più bella, schioccandogli un bacio a ogni numero atomico. John sorrise, sentendo la stanza girare e scomparire, pian piano, da lui. Prima le foto sul muro, poi la televisione, il tavolino e le porte, fino a quando rimase solo il divano con sopra loro due, librandosi nel vuoto buio della sua mente.
“Non lasciarmi, Sherlock, ti prego. Non farlo.” Sherlock lo osservò per un ultima volta, con le sue iridi acute e profonde.
“Chi si ama non si abbandona mai veramente.” John battè le palpebre e si ritrovò in una stanza da letto bianca, con il dottore che gli sorrideva cordialmente. Sospirò e chiuse gli occhi, con la consapevolezza che prendeva il posto dell’ossigeno nel suo corpo. Non sarebbe più potuto andare avanti senza rivederlo un’altra volta.
 
Erano passati tredici giorni dall’ultima volta che aveva stretto Sherlock Holmes. Tredici giorni che John aveva sentito come anni o forse secoli. Cercava di ritrovare il profilo del suo viso tra i tetti delle case, cercava il colore dei suoi occhi nell’acqua e nel cielo, ma niente era vero, niente era stato come quel momento, in cui tutti si era fermato per dar spazio a loro. Aveva trovato altri tre lavori part-time, così da riempirsi i giorni per non pensare a lui e, al tempo stesso, di racimolare un po’ di soldi per ritornare al Brain-Heart, la sua nuova idea di sogno. Non dormiva quasi più, giusto due orette, se faceva in tempo a prendere la metro per tornare in periferia. Mangiava patatine o fish and chips in mezzo alla strada, correndo per arrivare da un ambulatorio all’altro in tempo. Non si sentiva stanco, o almeno solo in parte, perché il pensiero di rivedere il suo amore era più forte di tutto il resto. Alla fine del mese, John era riuscito a procurarsi solo la metà del denaro sufficiente a un’altra seduta allo studio del signor Hiddleston, ma la necessità era troppa, tutti i suoi sensi gridavano disperati alla ricerca di quel corpo e di quel carattere che, prima di quell’invenzione prodigiosa, si era rassegnato a non rivedere mai più, vivendo in un limbo tra vita e morte che lo angosciava silenziosamente. Ora era animato dalla voglia selvaggia di rivederlo e riprendersi tutto quel tempo perso che un Dio crudele gli aveva strappato dalle mani. Così, quel giorno, andò in banca a ritirare la somma mancante dal denaro di Sherlock. E’ per rivederti, si disse, perché senza di te la vita non è più il mio campo di battaglia. Solo un’altra, ultima volta.
 
“Mi dica quando è pronto, John.”
“Sono pronto, ora.” John chiuse gli occhi e liberò la mente, inspirando forte quando gli aghi si infilarono nella sua pelle. Riaprì gli occhi e si ritrovò a casa, nel letto di Sherlock. Lui era sdraiato sul pavimento, mentre sbuffava sonoramente, con la pistola carica in mano.
“John, hai comprato il latte?”
“No, Sherlock, non ce l’ho fatta, sono stato occupato.” Mormorò, alzandosi e osservandolo dall’alto.
“Oh, noioso. Una vecchietta è venuta a chiedere il mio aiuto, voleva sapere dove si fosse cacciato il suo dannato gatto.” Sherlock prese a calci una pila di fogli lì a fianco, creando una nube di carta che finì sul pavimento. John sbuffò, stendendosi vicino a lui.
“Che cosa le hai risposto?”
“Di andare dal medico, perché l’affaticamento al cuore era una brutta bestia da gestire.” John gli strinse forte la mano, rannicchiandoglisi addosso.
“Sei completamente pazzo, Sherlock Holmes.”
L’ora sembrò passare più velocemente dalla volta scorsa, facendo innervosire John. Un’altra volta, giurò, e poi avrebbe tagliato quel mondo in mille pezzettini per sempre. Perché Sherlock era morto, cercò di ripetersi quando, dopo aver fatto una lunga passeggiata per Londra mano nella mano con Sherlock, tutto incominciò a svanire. Quella non era la realtà.
O forse sì?
 
“John, c’è un chiaro motivo per cui sei venuto qui, oggi.” John si guardò attorno, frustrato, trovandosi in un magazzino inutilizzato. Si strofinò il viso stanco.
“Non sono venuto qui di mia volontà, questo incontro è forzoso.”
“Chiamalo un po’ come ti pare. Devi dare un punto deciso a questa storia.” John guardò l’orologio: mancava una mezz’ora buona all’inizio del suo secondo lavoro, dall’altra parte di Londra.
“Non capisco di cosa stai parlando, Mycroft.” Per tutta risposta, Mycroft fece roteare il suo ombrello, fissandolo con i suoi occhi chiari.
“Lo sai, invece. E questa è la prova definitiva che è una situazione…ingestibile per te.” John lo fissò iroso.
“Non sono affari che ti riguardano.”
“E’ mio fratello.”
“Tuo fratello è morto, okay?” Disse John, alzando la voce. “Non c’è più e l’unico modo che mi è rimasto per stargli accanto è quel maledetto congegno!”
“Un uso continuo provocherà un collasso del tuo cervello, John. Sherlock non avrebbe voluto questo, per te.”
“Tu non sai cosa avrebbe voluto, io ero l’unico che gli è rimasto accanto, sempre, fino alla fine.”
“E’ questo il problema, John, la fine è già arrivata e tu non riesci ad affrontarla.” John aprì la bocca per ribattere, ma nessun suono ne uscì. Non era vero, John era consapevole che Sherlock era morto molto tempo fa, ma questo stava a significare che doveva abbandonarlo? Doveva solamente smettere di pensare a lui e far finta che la sua vita gli piacesse in quel modo? Non ci riusciva. Ci aveva provato, dopo la prima seduta, ma il desiderio di potergli stare vicino era troppo forte persino per un soldato. In fondo, quella del giorno precedente era stata la seconda, niente di cui preoccuparsi. I medici cercavano sempre di fare i melodrammatici, quando si parlava di questioni di salute, John si sentiva in perfetta forma. O almeno, si era sentito in perfetta forma prima dell’arrivo della consueta macchina nera davanti al suo palazzo.
“Pensaci, John. Puoi porre fine a tutto questo.”
“No, non posso.” Rispose flebilmente, prima di dirigersi verso il portone, zoppicando. Non prima di aver rivisto di nuovo il suo volto.
 
John battè i polpastrelli sulla poltrona in pelle, osservando la donna di fronte a lui, con in mano penna e taccuino. Aveva dovuto farlo, Mycroft non gli aveva dato altra scelta. O incominciava una terapia di dialogo con una psicologa o tutte le porte dello studio Brain-Heart sarebbero state inaccessibili per lui, per sempre. “Com’è incominciato?” Chiese lei, sfiorandosi una ciocca di capelli con le dita e osservandolo intensamente. Nonostante fosse bella, quella donna non gli provocava il minimo fascino e interesse. Sapeva a cosa quella domanda si riferiva. Non alle sue gite recenti nel suo mondo parallelo, ma alla persona che amava, quella che aveva lasciato ferite così in profondità nel suo animo da farle intravedere anche nei suoi occhi e nel linguaggio del suo corpo.
“Non so esattamente quando e come sia cominciato, ma so il luogo, il tempo, le emozioni e gli occhi di quando ci siamo conosciuti. Quelli me li ricordo come se fossero pochi minuti fa.” Si fermò un momento, sentendosi indeciso se continuare o meno ad aprire i punti alle ferite che Sherlock gli aveva inferto. “Non so dire razionalmente quando tutto è cominciato, quando i nostri sguardi si sono uniti, guardando in un unico senso, quando i battiti acceleravano e diminuivano contemporaneamente e quando la semplice cotta è diventata qualcosa di più importante. Io non so dirlo perché con Sherlock non sono mai riuscito a percepire l’amore, era già dentro di noi e basta. Dalla prima parola, dal primo sorriso accennato, dalla prima stretta di mano.” La psicologa non scriveva, si limitava a fissarlo e John ringraziò che fosse stato Mycroft a sceglierla e che non ci fosse Ella dall’altra parte, con tutte quelle parole inutili e sbagliate sul suo maledetto taccuino. Sembrava interessata, no, si disse, sembrava toccata nel profondo. Era quello il giusto, tutti si sentivano toccati quando parlava di Sherlock perché anche loro lo percepivano, quello che era stato –quello che c’era ancora.
“Mi dispiace per la perdita.” Mormorò lei. Aveva capito. John si sentì di farla salire al primo posto tra le persone che gli stavano più simpatiche, al momento.
“Io dovrei porgerle delle domande esistenziali sui miei problemi e lei dovrebbe darmi la magica risposta, giusto?” John si leccò le labbra secche, inarcando la schiena, in posizione fiera e guardandola dritta negli occhi.
“Lei lo sa che rumore fa, una persona che crolla? Io penso di averlo capito. Non fa nessun rumore, per questo nessuno viene a raccoglierla. Lui è la lacrima che resterà sospesa nella mia anima per sempre.”
La donna chiuse il taccuino e abbassò gli occhi. “Abbiamo finito.” John riuscì a cogliere il bagliore scuro di un anello nero intorno all’anulare sinistro e fece un mezzo sorriso. Era crollata anche a lei.
 
“Si ricorda le procedure, dottor Watson?” John annuì, poggiando la testa sul cuscino che sapeva di disinfettante come se fosse un’ancora di salvezza. Da quanto tempo non si sdraiava su un letto?
“Sono pronto, proceda pure.” John chiuse gli occhi e sorrise, accogliendo con gioia il dolore alla tempia. Riaprì gli occhi in camera di Sherlock e fece il suo primo respiro della giornata, dopo un mese passato a rincorrere quel momento disperatamente. Sherlock sembrava dormire accanto a lui, immobile e calmo come un bambino. Non gli piaceva mai quando aveva gli occhi chiusi, ricordava troppo bene l’ultimo momento in cui ce l’aveva avuto davanti, in ambulanza, senza vita. Una vita fa, perché adesso Sherlock era lì con lui. Sherlock non era più morto, era vivo e vegeto e suo. “Sherlock?”
“Sto pensando.” Mormorò lui, aprendo solo un occhio. “Spero sia importante.” John sorrise, solare, come riusciva a fare solo con lui.
“Volevo solo passare un po’ di tempo con il mio ragazzo.” Disse, accarezzandogli il naso con un dito.
“La mia glicemia sta salendo vertiginosamente, è meglio che ti fermi.” John rise, baciandogli le labbra lentamente e prendendo tra le labbra il suo labbro superiore.
“Sei davvero un cattivo fidanzato. Non riesci a dirmi qualcosa di romantico, per una volta?” Sherlock aprì gli occhi, fissandolo intensamente. Stava pensando, poteva sentire le sue rotelle girare ininterrottamente.
“(∂ + m) ψ = 0” John si trattenne dal ridergli in faccia e inarcò le sopracciglia. Era da Sherlock, uscirsene con affermazioni che nessuno avrebbe capito.
“Oh, beh, è interessante. Puoi farmi una traduzione in lingua terrena?” Sherlock roteò gli occhi, evidentemente scocciato da tanta ignoranza.
“E’ l’equazioni di Dirac. Si dice sia la più bella equazione della fisica. Mai sentito parlare?” Chiese speranzoso, giocando con le sue dita.
“Mi dispiace, no.” Sembrò seriamente oltraggiato per la risposta.
“Sono cose elementari! Con questa si descrive il fenomeno dell’entanglement quantistico. Si afferma infatti che se due sistemi interagiscono tra loro per un certo periodo di tempo e poi vengono separati, non possiamo più descriverli come due sistemi distinti, ma in qualche modo sottile diventano un unico sistema. Quello che accade a uno di loro continua a influenzare l’altro, anche se distanti chilometri o anni luce.*” John sentì il magone risucchiargli tutta l’aria che aveva nei polmoni.
“Anche in mondi diversi?”
“Non dire stupidaggini, John, nessuno vive in mondi diversi.” John gli baciò le labbra e lo coccolò come se ne andasse della sua vita.
“Grazie, Sherlock. Grazie.”
 
Andava avanti di caffè, aveva borse sotto agli occhi e occhi spenti mentre osservava da dietro gli occhiali da sole la vita frenetica in mezzo alla strada. La gente correva e correva, senza sosta, non si fermava mai. Al telefono, mentre messaggiava, passando con il rosso per arrivare prima a casa o a lavoro. Tutti sembravano avere uno scopo nella vita, persone da cui tornare, amici da vedere, un lavoro da affrontare. Avrebbe voluto alzarsi in piedi e urlare a tutti quanti che affezionarsi a persone che potrebbero andarsene da un momento all’altro non ne valeva la pena. Per niente. Ci si riduceva a pietose ombre di se stessi. Invece John rimaneva lì, il caffè freddo in una mano, a fissare dal tavolino di un bar il formicaio di persone che facevano finta di vivere. Nessuno vive se ha perso qualcuno di importante. Si sopravvive e basta. Lui riusciva a fare male anche quello. L’ultima visita dal signor Hiddleston l’aveva lasciato spossato dentro e fuori. Il mal di testa non riusciva ad abbandonarlo, era sempre di cattivo umore e non riusciva più a chiudere occhio se non con il ronzio soddisfacente dei sensori nelle sue tempie. Quante sedute aveva fatto, dalla prima volta? Venti? Venticinque? Aveva perso il conto. Quello, ormai, non era il suo vero mondo. Il suo vero mondo risiedeva in una stanza ben congegnata, con macchine di ferro e una parete di vetro. Il suo mondo era tutto nella sua testa, non in quella dannata città. Non voleva vivere lì da solo, non voleva vivere da solo. John si strinse le tempie, sentendo una fitta più forte delle altre accentuargli il mal di testa. Finì il caffè e si alzò, finendo in un vicolo cieco, con il fetore della spazzatura a intasare l’aria. Non riusciva a reggersi in piedi e crollò a terra, chiudendo gli occhi e cercando le pupille di Sherlock da dietro le sue palpebre. Dove sei?, hai detto che non mi avresti mai lasciato solo, urlò dentro se stesso, dove sei? Si rannicchiò contro al muro e scoppiò a piangere, silenziosamente e ininterrottamente, sentendosi sull’orlo di un precipizio così buio da non avere fine.
 
John batteva il piede contro il pavimento in granito, nervoso e agitato, con gli occhiali da sole scuri che gli proteggevano gli occhi stanchi da quel bianco accecante. Ormai sapeva tutto della sala d’aspetto, avrebbe potuto bendarsi e continuare a conoscere ogni angolo e ogni poster a memoria. John guardò l’orologio: erano in ritardo di cinque minuti. Scoccò la lingua, infastidito, massaggiandosi una tempia con due dita. Dannato mal di testa, era da settimane che continuava ad assillarlo imperterrito. L’anziano signore che ogni volta lo riceveva lo guardò con aria preoccupata, mordendosi l’interno guancia.
“Dottor Watson, è ancora qui?”
“Pago per il servizio, non vedo perché dovrei non esserci.” L’uomo si girò in direzione di alcune colleghe che in risposta alzarono le spalle e ritornarono ai loro rispettivi lavori. John si alzò e avanzò il signore di qualche passo, conoscendo la strada.
“Lo sa, vero, che il continuo svolgersi di queste sedute porterà a una sola destinazione?” John fece finta di non sentirlo e andò a sdraiarsi sul letto, chiudendo gli occhi e togliendosi gli occhiali da sole, ormai superflui.
“Sono pronto, proceda.” Stava tornando alla sua vita reale.
 
John aprì gli occhi, alzandosi in piedi, più scattante del solito. Notò subito che qualcosa era sbagliato. La stanza non era illuminata come al solito, ma in penombra. John si guardò intorno e capì di non essere nella solita stanza, quella di Sherlock, ma nella sua, al piano di sopra. Che cosa stava succedendo? Un odore di bruciato lo riscosse dai suoi pensieri mentre il fumo incominciava a passare da sotto la porta, sempre di più. John corse alla porta, cercando di aprirla. Era chiusa. Il panico incominciò a scorrergli nelle vene. Tirava e dava spallate alla porta ma questa sembrava di acciaio e non ne voleva sapere di aprirsi. “Sherlock! Sherlock, rispondi!” Urlò John, cercando qualcosa con cui forzare la porta. Nessuno rispondeva. No, no, nessuno doveva morire in quel mondo, erano nella sua mente e lui non voleva che succedesse quello. “Sherlock!” Urlò, dando un’altra potente spallata alla porta. “Non morire! Non di nuovo! Posso salvarti!” Si coprì la bocca con la manica del maglione per ripararsi dal fumo, dando un calcio alla porta. Per favore, non ancora, pregò.
 
Nel mondo reale, il signor Felton guardava preoccupato oltre il vetro. Il paziente aveva da subito incominciato ad agitarsi, cosa assai strana, e cercava di mormorare qualcosa che lui non riusciva a capire. Il dottor Watson sembrava stesse per avere una crisi senza via d’uscita. Felton prese un respiro profondo e afferrò il suo cellulare, scorrendo la rubrica e trovando il numero che un certo Mycroft Holmes gli aveva dato, in caso quel particolare uomo avesse avuto anomalie con la nuova invenzione.
“Signor Holmes?”
“Sì, signor Felton?” L’uomo aveva la voce bassa e calma e si chiese come facesse a sapere il suo numero, visto che non avevano mai avuto contatti fino a quel momento.
“Credo si stia verificando un problema.”
 
Il fumo invadeva tutta la camera e l’ossigeno incominciava a scarseggiare. “Sherlock, ti prego, rispondi!” Urlò con tutta la sua voce, spintonando ancora la porta che, come per magia, cedette ai suoi sforzi. A John affiorò un sorriso che si spense subito quando il suo sguardo si posò sulle fiamme roventi che lambivano tutta la casa. Sapeva dov’era Sherlock, il suo subconscio lo guidava come una bussola perfetta. Corse il più veloce che potè, saltando per cercando di evitare il fuoco che sembrava attratto dal suo corpo, come una calamita. Scese velocemente le scale, evitando i buchi che si erano formati a causa del fuoco. Trattenne il fiato e balzò un’altra volta, arrivando davanti alla porta chiusa della camera di Sherlock. “Sherlock, apri! Apri, sono io!”
“Sono qui, resta indietro e salvati.” Disse una voce sommessa da dietro la porta. John scosse forte la testa mentre le lingue di fuoco divampavano sempre di più.
“Apri, lasciami entrare! Devo salvarti!”
“C’è ancora speranza per te, va’ via!” John diede un potente calcio alla porta.
“Non questa volta.”
 
Le condizioni del ragazzo stavano peggiorando.
“Sapeva a cosa andava incontro, non si preoccupi.” Disse la voce, con quel tono tra il freddo e l’avvolgente.
“Devo fare qualcosa, è mio dovere fare qualcosa!”
“Lui vuole questo, signor Felton. Non esiste un dottore che non sappia quali sintomi può avere una macchina di questa portata. Lui la stava cercando disperatamente per poter andare via nel migliore dei modi.”
“Non c’è un migliore dei modi.” Mormorò, vedendo che dal sangue del dottore incominciava a fluire del sangue.
“Esiste, se la persona a cui tieni maggiormente può vivere solo nella tua testa.”
 
John riuscì a buttare giù anche quella porta, guardando Sherlock che era seduto sul letto, apparentemente tranquillo. “Non puoi morire un’altra volta.” Mormorò, facendolo alzare e abbracciandolo forte mentre la nube li avvolgeva, come un altro abbraccio.
“Io sono già morto, John.” Sussurrò, baciandogli le labbra e stringendogli forte i capelli.
“Lo so, anch’io.” John prese potenza sulle gambe e incominciò a correre, con ancora tra le braccia Sherlock, verso la finestra. Spinse la testa di Sherlock contro il suo collo quando la schiena di John impattò contro il vetro, che finì miseramente in mille pezzi. Sherlock alzò il viso dall’incavo naturale della sua spalla e lo fissò negli mentre volavano nel cielo notturno. John si scontrò contro il marciapiede ghiacciato proprio nel momento in cui le labbra di Sherlock mormorarono un fioco ti amo. Poi chiuse gli occhi e non sentì più niente.
 
Le dottoresse entrarono in fretta nella sala quando un allarme incominciò a suonare per tutto lo studio. Ciò significava solo una cosa: l’encefalogramma, per qualcuno, era diventato piatto. “Al mio tre: uno, due, tre, libera!” Il petto di John si alzò, ma niente cambiò, né il respiro né il battito del cuore. Il signor Felton stava a guardare sulla soglia della porta quella vita che era sparita e non avrebbe più fatto ritorno. Qualcuno mormorò quale fosse l’ora del decesso e lui sospirò stanco, passandosi una mano sugli occhi. Sperava solo che avesse trovato la pace.
 
“Bentornato, John.”
“Ciao Sherlock, sono arrivato da te, ce l’ho fatta.”
 
NOTE:
*Lo psicodramma dell’essere. No, non avevo mai sentito questa equazione e sì, mi sono commossa quando l’ho letta. Don’t judge.
 
SPAZIO AUTRICE:
Non sono pazza, lo giuro. Non sono ben sicura sul PERCHE’ sia uscita questa ff o sul COME MAI ho pensato a questa atroce stranezza, ma l’ho finita e sono soddisfatta. Sono stata tanti mese assente, ne sono consapevole, ma l’anno scolastico è stato…beh, un anno scolastico. Già solo il dirlo procura un lungo brivido di terrore e ribrezzo nell’anima. L’idea per questa storia l’ho presa da qui: http://www.youtube.com/watch?v=xyqQ4iT4IeU.
Ringrazio Chiara, perché senza di lei non avrei Nvu <3 e ringrazio Sabrina, perché anche se ha detto “no grazie, così tanto angst non lo posso reggere”, le voglio bene comunque (e dovrà leggerla). Spero abbiate la forza di non buttarvi giù dal balcone xD
Prima scrivete la recensione!
Adieu.
   
 
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