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Autore: mamie    13/06/2013    7 recensioni
[Crossover col Notturno di D'Annunzio]
Inverno 1916. Lavi e Kanda fanno parte della squadriglia aerea di Sant'Andrea, a Venezia. Da tempo progettano insieme un rischioso volo su Zara. Lavi però, a causa di un incidente, resta ferito ad un occhio e deve rimanere confinato a letto per molti giorni. Kanda decide di partire ugualmente, ma il suo aereo si schianta sulla laguna e il suo corpo non viene ritrovato. Lavi vaga alla sua ricerca come un fantasma delirante per una Venezia funerea e nebbiosa.
"Ma io non posso più volare. Questo tizzone ardente che mi scava nell’orbita un buco nero mi tiene inchiodato all’odore melmoso dei canali. Anche la penna e l’inchiostro mi sono vietati e le parole non escono dalla mia bocca riarsa. Alla fine hai fatto una specie di sorriso, quel tuo sorriso storto che tiri fuori nelle ore più scure.
- Io non muoio – mi hai detto.
“Io non muoio”.
E mi hai lasciato così, con quella piega trionfante delle labbra. Mi hai lasciato alla mia immobilità e al mio buio, al mio strisciare da lumaca su questa terra pesante."
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Lenalee Lee, Rabi/Lavi, Yu Kanda | Coppie: Rabi/Kanda
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie '... e di altre Storie'
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 Note: Rileggendo il Notturno di D'Annunzio mi venivano in mente i personaggi di D.Gray Man. Non so se per l'atmosfera cupa o l'ambientazione guerresca. Alla fine ho deciso di scrivere questo breve racconto, insolito per due motivi, perché non mi piace molto D'Annunzio e perché non mi piacciono molto le AU... XD.
Le parti in corsivo sono tratte direttamente dal testo del Notturno.
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NOI TORNEREMO A VOLARE
 

Ora la morte che doveva prenderne due, ne prese uno, uno solo,
contro il patto, contro l’offerta, contro la giustizia, contro la gloria.

 
 
Non riesco a dormire. Il mio occhio sano fissa da ore il rosone di stucco del lampadario. L’altro mi brucia sotto le bende come se qualcuno vi avesse cacciato a forza un tizzone ardente. Non posso più starmene qui, immobile, bruciato dalla sete, scavato dagli artigli dell’inquietudine.
Il suono dell’acqua mi arriva a tratti dalla finestra aperta insieme al grido delle sentinelle sulle altane. C’è odore di nebbia. C’è odore di morte.
 
L’ultima volta che ti ho visto eri qui, ai piedi del mio letto. Avevi la faccia seria, come sempre, ma io lo sapevo che eri eccitato all’idea di volare. Non volevi farmelo vedere. Doveva essere il giorno della nostra grande impresa. Dovevamo volare insieme, come sempre. Come sempre avremmo sentito il gelo dell’aria, l’odore delle nuvole. Era quella la promessa, ti ricordi? Due vite e due ali: una sola rapidità, una sola prodezza, una sola morte.
La morte del fuoco ci aspettava.
Ma io non posso più volare. Questo tizzone ardente che mi scava nell’orbita un buco nero mi tiene inchiodato all’odore melmoso dei canali. Anche la penna e l’inchiostro mi sono vietati e le parole non escono dalla mia bocca riarsa. Alla fine hai fatto una specie di sorriso, quel tuo sorriso storto che tiri fuori nelle ore più scure.
– Io non muoio – mi hai detto.
“Io non muoio”.
E mi hai lasciato così, con quella piega trionfante delle labbra. Mi hai lasciato alla mia immobilità e al mio buio, al mio strisciare da lumaca su questa terra pesante.
 
Lena è venuta a smorzare la lampada. Le dico di no, che non voglio restare del tutto nell’oscurità. D’improvviso il buio mi pare infinito; la mia immobilità diventa quella dello scriba deposto per l’eternità nel suo sarcofago di legno colorato. Se mi levassi, il mio capo non urterebbe il coperchio dov’è dipinta all’esterno la mia immagine di prima coi grandi e limpidi occhi aperti verso la bellezza e l’orrore della vita?
Sento l’odore greve dei giacinti che Lena ha messo in un vaso accanto alla finestra. Sono viola scuro, sembrano gonfi di sangue, fiori nati dal sangue.
Il mio occhio è una fornace che vomita bagliori e scintille dal metallo incandescente. Si riempie di visioni. Dal bulbo dell’occhio, con una fitta improvvisa, rompe il giacinto violetto. Fiori per le corone funebri, riempiono ogni angolo della stanza, mi soffocano. L’Aquila Marina che torna tutta bagnata di sangue, carica di morte. Il sibilo lugubre della fiamma ossidrica che sigilla il piombo delle bare. I volti bianchi e sfatti di chi è rimasto.
Non finisce più questa notte?
 
Ho dormito infine? Sento i colpi alla porta. Dalla finestra appena socchiusa filtra la luce di un mattino chiaro, un mattino finalmente senza nebbia. Perché questi colpi?
Lena torna su con gli occhi enormi, sembra si siano mangiati il resto del viso da bambina. Leggo tutto in quegli occhi prima che le sue labbra abbiano pronunciato la sentenza. Poche parole smozzicate. “È caduto… i resti dell’aereo… non si trova…”. Non capisco. Non voglio capire.
 
***
 
Basta. Basta con questa tortura. Basta. Respingo le mani di Lena e dell’infermiera che tentano di tenermi ancora incollato a questo sepolcro che è diventato il mio letto. Basta. Non voglio guarire. Voglio solo stare in piedi di nuovo, respirare di nuovo l’aria.
Mi trascino per le calli nel freddo del pomeriggio invernale, avvolto nel mantello nero che non mi scalda. Sento il rumore dei miei passi come un’eco distorta dall’acqua. Ne hanno riportato uno, mi dicono. Non sanno il nome.
Salgo la larga scala di marmo col gelo che mi entra nelle ossa. Il generale Tiedoll è sulla porta, silenzioso, invecchiato di cent’anni. Non oso chiedere.
Il corpo steso sulla barella è grande. Troppo per essere lui. È Marie. L’anno ripescato vicino ai resti dell’aereo fracassato. Metà della sua faccia è un ammasso gonfio e nero. Le sue mani sono livide. Senza sapere come mi ritrovo in ginocchio. L’occhio destro mi manda pugnalate di dolore alle tempie. Voglio urlare e dire qualcosa, ma dalla bocca non mi esce il fiato.
Una mano mi prende e mi tira in piedi. È il vecchio Panda. Mi guarda e basta. Non dice niente. Mi trascina via come un pupazzo di stoppa.
 
Non voglio più nessuno. Non ascolto più niente. Non riesco a tornare a casa. È calata di nuovo la nebbia, densa e gelida come un fiato di fantasmi. Mi aggiro sulla Riva degli Schiavoni ascoltando i tonfi cupi delle gondole contro le paline. L’orrore mi assale. Mi sembra di sentire il rumore del tuo corpo gonfio di sale, rivoltolato dall’onda, che sbatte sulle pietre delle fondamenta. Mi sembra di sentire il risucchio del fango nella laguna che ti ha inghiottito.
“Io non muoio”.
 
La città è piena di fantasmi. Una città di sogno, una città d’oltre mondo, una città bagnata dal Lete o dall’Averno. Le lampadine lucono come i fuochi fatui in un camposanto. Dove sei? La laguna è scomparsa, si è fatta muro di oscurità. Cammino verso casa tua, pensando forse di ritrovarti come tante volte seduto accanto al camino, muto.
C’è una sagoma che mi cammina davanti senza fare rumore, senza luce. Un altro viandante smarrito come me che non sa di cosa andare in cerca? Ma la figura ha la tua statura, ha il tuo passo. È vestita di grigio, silenziosa, di un silenzio singolare, come se non abitasse in lei alcuna voce né alcun soffio.
Rallento, poi mi affretto di nuovo, tento di raggiungerla. Accendo la mia lanterna per vederla meglio, ma svanisce nella nebbia. Non è caduta nel canale, non ha passato il ponte, non è entrata in una porta. Cerco affannosamente in giro, torno indietro di corsa. La calle è deserta. Deserto è il campo San Maurizio. Il cuore mi trema. Una falda di nebbia mi striscia sulla gota. Dove sei?
 
***
 
C’è intorno un silenzio spaventevole.
Il cielo grigio si abbassa sul mio capo, come una cappa di ferro.
E il silenzio sembra eterno.
Il profilo rosso dell’Arsenale spunta dalla nebbia come il castello maligno di una fiaba. Il grido della sentinella mi fa trasalire “Per l’aria buona guardia”. Il grido si allunga da un’altana all’altra, si spegne nella lontananza. Di nuovo silenzio.
È buio. Perché è già notte? Le masse marmoree dei leoni sono guardiani d’oltretomba che mi sbarrano il passo. L’acqua del bacino è ferma e morta. I gabbiani non volano e non gridano, se ne sono andati nei loro rifugi segreti. Dove sei?
 
Sono tornato alla chiesa di Santa Maria  del Giglio. Nel tripudio bianco e barocco vado a toccare di nuovo il bassorilievo di Zara, come facevamo insieme. La nostra grande impresa è ancora lì ad aspettarci, dischiusa come un fiore notturno. La pietra è gelida e bagnata sotto le mie dita. Quando parlavi di volare ti si accendevano gli occhi.
 
Ho vagato tutta la notte. Mi sono accasciato, livido, ad aspettare l’alba sulle Fondamente Nove. Lontano, un nereggiare di cipressi. Il Casino degli Spiriti, dove andavamo a passare le nostre ore leggére. Allora bastava uno sguardo per riconfermare, in mezzo ai giochi e alle risa, l’idea, la fedeltà, la gravità dei nostri sogni. Di fronte, man mano che il cielo si schiara, si svela il colore lugubre di San Michele. Là, nel quadrilatero di terra dove sono sepolti i nostri compagni, le lapidi mandano lunghe ombre come meridiane che non segnano più alcun tempo. Io, vivo, guardo l’isola dei morti e so che dovrei essere là, là con tutti gli altri nella terra che disfa la carne. La loro morte e la mia vita sono la medesima cosa. Ma tu dove sei? Dove ha portato il mare il tuo corpo straziato?
“Io non muoio”.
 
V’è un luogo dell’anima, là dove il nero fiume e il fiume chiaro confluiscono. Le nostre immagini vi si rispecchiano e vi si confondono.
Ti aspetterò. E anche tu aspettami. Due vite e due ali. Una sola morte. L’abbiamo giurato.
Lo grido finalmente, con la voce alta e chiara.
– Aspettami, Yu!
 
Nel chiarore del sole che d’un tratto mi colpisce,  mi rispondono per te le strida dei gabbiani.
Noi torneremo a volare.
 
 

  
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