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Autore: grenade_    13/06/2013    1 recensioni
... Ma credo che la vita consisti proprio in questo, condividere quei continui eccessi con le persone che ti stanno accanto, e alleggerirli di volta in volta. Un peso si sostiene meglio in due, e finché lui me lo permetterà, io gli sarò sempre accanto, per far sì che non inciampi mai più.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tenevo lo sguardo puntato sulla porta di legno quasi immobile, come in un pietoso stato di trance, con la piccola e inutile speranza che questa si riaprisse, e tutte le urla e le grida fossero state solo uno dei miei peggiori incubi. Si sarebbe spalancata dopo essere stata sbattuta con così tanta violenza, e la persona appena uscita mi avrebbe sorriso e sarebbe corsa ad abbracciarmi, mi avrebbe sussurrato all’orecchio che andava tutto bene, di stare tranquilla, perché non se ne sarebbe mai andata senza di me. Meglio ancora mi sarei svegliata, con gli occhi spalancati e terrorizzati, qualche gocciolina di sudore a dorare il mio viso, diventato ormai tutt’uno con i capelli. E la prima cosa che avrei visto sarebbero stati i suoi occhi, profondi e brillanti come sempre, la solita scintilla infantile e terribilmente adorabile che mi aveva catturato e intrappolato quand’ero ancora un’adolescente problematica, capace ancora oggi di calmarmi, di farmi sentire a casa. Ed io sapevo bene che la mia casa era una sola, ed era accanto a lui.
Mi accorsi di stare piangendo solo quando due grosse lacrime rigarono inconsapevolmente le mie guance accaldate, e con tutte le reazioni che avrei potuto avere, non feci nulla. Rimasi in piedi imbambolata, con l’alta possibilità di sembrare ipnotizzata agli occhi di una piuttosto improbabile spia nascosta dietro la finestra del salotto, con lo sguardo fisso davanti a me, gli occhi lucidi e le guance bagnate, il labbro tremante assieme alle dita della mano destra. Non mi sentivo in grado di far nulla, né volevo reagire in nessun modo, e sentivo la gola secca a causa delle nostre urla immotivate, che ancora risuonavano nella stanza come un terribile eco.
Non ricordavo come il litigio fosse iniziato, a dire il vero. Ricordavo soltanto il mio palpabile fastidio nel vederlo sempre così svogliato, così disinteressato negli ultimi giorni. Ero stata clemente per quanto la mia personalità me lo permettesse, sapevo che quello non fosse il suo solito comportamento, così allegro e spensierato, ed ero certa che ci fosse qualcosa ad aver spento il suo sorriso, quindi avevo deciso di dargli tempo, aspettando la sera in cui avrebbe posato la testa sul mio petto, e tra qualche carezza ai suoi capelli mi avrebbe raccontato tutto quanto dettaglio dopo dettaglio, e avremmo finito col riderci su ed addormentarci, come sempre accadeva. Ma se c’era una tra le molteplici cose che odiavo di me, era la mancanza di pazienza, conseguenza di parecchi viaggi mentali completamente gratuiti, che mi irritavano e sapevano mettermi ansia come nient’altro. Non avevo retto il suo silenzio bambinesco per più di quattro giorni, non avevo più la voglia di vederlo ignorare appositamente il mondo attorno a lui, e soprattutto non riuscivo a sopportare di non conoscere la causa di quel cambio di umore. Ormai stare in sua compagnia era diventata una vera agonia, e le nostre conversazioni solo e soltanto a senso unico, visto che lui non mi degnava di risposte più esaurienti di alcuni monosillabi stanchi.
Quella sera, come avevo previsto sarebbe successo, ero scoppiata, portando a galla il lato peggiore di me, se mai ve ne fosse uno migliore. Non mi ero risparmiata in prediche e critiche, stufa di dover essere l’unica persona adulta in quella casa, e se in un primo momento lui era rimasto in silenzio ad ascoltare, dopo si era alzato dalla sedia, aveva fatto la sua sfuriata e se n’era andato, lasciandomi lì da sola con un grosso peso sulla coscienza e un vuoto nel cuore. Non aveva detto molto, non gli avevo neppure dato il tempo di spiegare e controbattere alle mie accuse, e con gli occhi colmi di rabbia e delusione, mi aveva sbattuto la porta in faccia.
Solo due volte mi era capitato di sentirmi così vuota, così sbagliata, incapace di fare altro oltre piangere in silenzio, pentirmi come una perfetta ragazzina alle prese coi genitori, ed erano in qualche modo legate tra loro, da una sensazione che avevo catalogato come la peggiore di tutte: la paura di perderlo. Ricordavo ancora lo stato penoso in cui mi ero presentata a casa sua ventidue anni prima, carica di tutte le colpe e con un grande vuoto da colmare. L’avevo cercato dopo averlo rifiutato così insistentemente, dopo i mille tentativi di cacciarlo fuori dalla mia vita come se non la costituisse. La verità era che, per quanto fossi testarda e determinata in alcuni casi e avessi cercato di dimenticarlo, non ci ero riuscita, e mi ero dimostrata molto più debole di quanto pensassi che fossi, e allora avevo capito che ogni esperienza vissuta insieme non doveva essere stata così sbagliata o cattiva, se mi aveva permesso di tornare da lui, dove appartenevo. E lui mi aveva accolta a braccia aperte, come se non gli avessi spezzato il cuore e non fossi stata la colpevole di quei giorni così bui, felice di poter tornare a sorridermi senza che il mio sguardo glaciale trafiggesse il suo. Ogni cosa aveva preso il suo normale percorso, io ero tornata a sorridere dopo tanto tempo, e quello che ne era venuto dopo non faceva che rendermi fiera della mia scelta, ventidue anni fa.
Avevo paura. Ero terrorizzata dal solo pensiero che quella porta non si sarebbe più aperta, o peggio lo avrebbe fatto per portare più astio e arrecare maggiori danni, magari permanenti. Di litigare ci era capitato spesso, ma mai avevo visto i suoi occhi così delusi e quasi indifferenti come quella volta, l’unico tratto del suo viso ad avermi spaventata. Avrei dato qualsiasi cosa per tornare indietro, sopportare i suoi insostenibili silenzi pur di non vederlo andar via. Infondo non sapevo se sarebbe tornato o meno, e il mio cervello amava interrogarsi su questa prerogativa così orribile.
«Mamma?»
A quel richiamo mi asciugai frettolosamente le lacrime con la manica della maglia e mi voltai, sforzandomi di esibire un sorriso, nonostante i miei occhi parlassero da soli. Vidi Kirsten ai piedi delle scale in pigiama, intenta a fissarmi. Sapevo di poter lasciare cadere le mie difese con lei, aveva l’innata capacità di carpire lo stato d’animo delle persone, caratteristica che attribuivo senza alcun dubbio a lui, io ero una frana coi sentimenti.
Si avvicinò e intrecciò le sue dite con le mie, mentre tentava di infondermi un minimo di coraggio attraverso la stretta forte, ma così dolce allo stesso tempo. Mi sorrise ed io mi persi un attimo a contemplare i suoi occhi, così simili a quelli di suo padre, e le fossette sulle guance, suo tratto caratteristico.
«Papà tornerà, vedrai.»
Mi stava fissando da qualche secondo, quindi posai un braccio attorno alle sue spalle a l’attirai a me con l’intento di coccolarla e tranquillizzarla, per niente capace di esibire un sorriso in cui non credevo.
 
Portai il vetro della bottiglia alle labbra, e mandai giù l’ultimo sorso di birra. Gettai poi la bottiglia lontano da me, incurante di stare accrescendo la rabbia dei netturbini. In verità non mi importava nulla, sembravo essere diventato improvvisamente insensibile ed ogni mia azione era dettata dall’istinto.
Intorno era tutto tranquillo. Personalmente adoravo uscire passate le undici di sera durante l’inverno: era raro trovare gente per strada, fatta eccezione per coloro che tornavano a casa da lavoro o da qualche pub al centro della città. Il resto della gente, ovviamente, si trovava all’interno del locale, e stava già scolandosi la terza birra della serata, per poi arrivare ad un numero indefinito e azzerare il grado di intelletto a 0.
A me i pub non piacevano. Sapevo bene che una volta entrato lì dentro ti toccava bere, non potevi uscirne senza aver scolato almeno un alcolico oppure far finta di aver sbagliato destinazione, come molti ragazzi provavano a fare. Erano senza dubbio locali pericolosi, ma il trucco stava nel saper destreggiare, era per questo che avevo deciso di prendere solo una birra ed uscire, sicuro che se fossi rimasto lì dentro avrei finito col ridurmi peggio di come già stessi.
Mi trovavo in spiaggia. Non era certo una buona idea recarvisi in pieno febbraio e di notte, ero certo che chiunque mi avesse visto mi avrebbe scambiato per un pazzo, anche se dubitavo fortemente ci fosse qualcun altro insano di mente ad osservare l’oceano a quell’ora. Non sapevo perché avessi avuto l’idea di rintanarmi lì, lontano dalla città e da qualsiasi forma di contatto umano, ma quella tranquillità e serenità che il paesaggio emanavano non facevano che giovarmi, regalandomi qualche momento di calma. Come si sol dire, la calma dopo la tempesta.
Se chiudevo gli occhi riuscivo a sentire ancora la sua voce urlare come un fastidioso eco nelle orecchie, a vedere i suoi occhi sul punto di inumidirsi e la rabbia, così tanta rabbia che non avrei mai pensato il suo sguardo potesse contenerne. E rivivere quegli odiosi momenti, non faceva che alimentare la mia ira.
Tirai un calcio alla sabbia, sollevandone una certa quantità, che finì col depositarsi sulla mia scarpa. Piegai le ginocchia e mi presi la testa tra le mani, irritato dall’imminente mal di testa. Le tempie mi pulsavano e la testa cominciava ad appesantirsi, ma avrei potuto dire non fosse l’effetto dell’alcool, bensì dei miei pensieri. Gli stessi pensieri che avevo tentato di accantonare con una birra, gli stessi che non avevano accennato a muoversi dalla mia testa, come a farmi un dispetto.
Puntai lo sguardo verso l’orizzonte, incantato. Le acque sembravano tranquille e la luna splendeva in quella sera, riflettendo la sua luce sulla superficie cristallina. Neanche una nuvola. Un’atmosfera così in contrasto con il caos nella mia testa, che non riuscivo a domare in nessun modo.
Tirai fuori il cellulare dalla tasca per controllare l’orario: 01.43. Tra le varie chiamate perse nessuna sua, ma un paio di Kirsten. Mi dispiaceva così tanto per mia figlia, ma mi ritrovai a pensare che se lei non mi aveva neppure chiamato per sapere dove mi fossi cacciato, allora non le interessava. Probabilmente le avevo persino fatto un favore andandomene, forse sperava non tornassi, per avere quella tranquillità a cui tanto agognava.
Scossi la testa, sconvolto dal percorso che la mia mente bacata riusciva ad intraprendere se turbata, e riposi il cellulare nella tasca destra dei pantaloni. Dovevo assolutamente mancarle, lei mi amava. Me lo aveva ripetuto e dimostrato così tante volte che sarebbe stato da idioti dubitarne, aveva abbattuto i suoi muri grazie a me e non se n’era mai pentita, mi era stata accanto quando nessuno lo avrebbe fatto, e aveva pronunciato quel sì con le lacrime agli occhi, sussurrandomi che quello fosse il giorno migliore della sua vita. Mi amava e ne ero sicuro, riuscivo a cogliere quel sentimento così forte nel suo sguardo e in ogni suo sorriso, e non c’era cura migliore per il mio malumore.
Quello era stato soltanto un terribile litigio. L’ennesimo, per giunta. Forse non avrei dovuto essere così passivo negli ultimi giorni, forse non dirle nulla era stato sbagliato, ma non trovavo il coraggio per confidarle quel mio segreto. Non avevo mai voluto nasconderglielo. Ma vederla così felice, consapevole di quanto i miei problemi riuscissero a devastarla, mi aveva spinto a tenermi tutto dentro: non volevo darle un’altra delusione. Perché non avevo mai fatto altro, sin da quando ero un immaturo adolescente di diciotto anni. Ed io odiavo deluderla. Odiavo quel suo sguardo basso e quel suo sorriso forzato, quel suo “non preoccuparti, non è nulla” così finto, il suo accarezzarmi solo per tranquillizzarmi, quando entrambi sapevamo che non ci fosse nulla da non preoccuparsi. Io ero la sua preoccupazione più grande, sin da quando mi aveva conosciuto, e continuavo ad esserlo con ostentazione, senza neanche desiderarlo.
Avrei voluto essere uno di quei mariti perfetti, che prepara la colazione al mattino, accompagna i figli a scuola, si reca al lavoro e torna a casa con un mazzo di rose, per poi darle la buonanotte con un bacio. Avrei voluto regalarle rose ogni giorno, perché non c’era donna più propensa a meritarle. Ma io non ero quel genere di uomo. Ero qualcuno che al mattino non spiccicava parola con nessuno, ancora intontito dal sonno; qualcuno che, in ritardo per il lavoro ancora una volta, si sporcava la camicia di caffè; qualcuno che beveva il caffè nonostante lo odiasse; qualcuno che si dimenticava di andare a prendere i figli a scuola; qualcuno che non portava rose, si dimenticava di ripetere a sua moglie di amarla ogni sera, perché troppo stanco persino per parlare; qualcuno che odiavo, con tutto me stesso, e che avrei tanto voluto sostituire.
Ma lei mi amava. Mi amava nei miei silenzi, quando mi sporcavo i vestiti e quando tornavo a casa senza i nostri figli, mi amava quando mi lasciavo cadere sul letto con un tonfo e le donavo la buonanotte con un grugnito, mi amava nonostante fossi l’anticoncetto della perfezione. Ma allora perché non mi aveva chiamato?
Perché era stata così dura? Perché non aveva cercato di tranquillizzarmi in nessun modo?
Forse si era stancata. Si era stancata dei miei comportamenti assurdi e aveva finalmente capito di meritare molto più di me, ed io le avevo offerto l’occasione di lasciarmi su un piatto d’argento. Forse neppure le mancavo, forse si era già addormentata col sorriso sulle labbra, forse non mi amava più o non l’aveva mai fatto, fingendo per tutto questo tempo. Ma allora perché illudermi?
Scossi la testa, molto più pesante di prima. Poi puntai lo sguardo verso l’oceano, analizzando le acque profonde e terrificanti, il modo come queste potessero ucciderti senza un minimo sforzo, con estrema tranquillità. Come poteva una cosa tanto bella essere così crudele? Eppure io amavo il mare. I ricordi annessi erano una meravigliosa testimonianza di quell’amore così strano, ma perché ora ne ero così terrorizzato?
 
Mi rigirai sul materasso ancora una volta, nonostante sapessi bene che non sarei mai riuscita a dormire con la testa così pesante e in uno spazio così piccolo. Le tempie mi tormentavano, era come se qualcuno stesse battendo su di esse con un enorme martello, e gli occhi bruciavano ancora un po’. Non avevo chiuso occhio per un istante, troppo ansiosa per permettermi di rilassarmi, ma erano solo le 2.57, ed io avrei dovuto dormire. Dov’è lui?
Mi passai i capelli dietro la schiena con un movimento lento, che causò comunque la reazione di una delle tre persone addormentate nel mio stesso letto. Difatti Nate grugnì infastidito, ma ritornò a sonnecchiare tranquillo nel giro di qualche secondo, dandomi le spalle e allungando un braccio verso il corpo di sua sorella, aggrappata alla maggiore.
Avevano deciso di farmi compagnia e venire a dormire nel mio stesso letto per unanimità, forti del fatto che la loro presenza mi avrebbe aiutata a distrarmi, mi avrebbe strappato qualche sorriso, ed era stato così, finché non si erano addormentati tutti e tre, abbracciati l’uno all’altra. Avevamo giocato insieme su quel letto per un paio d’ore, ridendo e scherzando come se nulla fosse e non vi fosse un vuoto alla mia sinistra, mi avevano promesso di non addormentarsi per nessun motivo al mondo e permettermi così di pensare, ignari che io non avevo abbandonato il pensiero di loro padre neanche per un momento, ma infine erano crollati nel sonno più profondo, spaparanzandosi sul materasso e riducendo in questo modo il mio spazio di riposo. Se Kirsten fosse stata sveglia probabilmente avrebbe sgridato i suoi fratelli, costringendoli ad allinearsi in perfette file pur di non costringermi a restare cosciente, ma alla fine anche lei, che sembrava la più forte, aveva ceduto, e adesso dormiva nella più estrema calma, con un braccio attorno alla figura esile e minuta di Emma.
Mi sollevai su un fianco lasciando che Nate occupasse maggiore spazio, e presi ad osservarli uno ad uno. Il mio sguardo ricadde sui minori, con le guance ancora un po’ arrossate e gli occhi gonfi per il pianto. Un pianto lungo, silenzioso e straziante, che aveva fatto sì che io distogliessi l’attenzione dal mio penoso stato d’animo a pezzi e la concentrassi su quello dei miei figli, ridotti male almeno quanto me. Avevo abbandonato l’idea del mio dolore e mi ero proposta di curare il loro, rendendomi conto di quanto fossi egoista, così avevo finto sorrisi e risate e li avevo coccolati e tenuti stretti a me, ripetendogli promesse e parole di conforto in cui nemmeno io credevo. E loro si erano calmati, come dei normali bambini, chiudendo gli occhi e sprofondando in un sonno che speravo li accogliesse e cullasse come tesori. Perché loro erano i miei tesori più grandi, ed io tendevo a sottovalutare quell’importante aspetto un po’ troppo spesso.
Mi ci era voluto parecchio tempo per consolare Emma. Come ogni normale figlia sia lei che Kirsten erano legate al padre in un modo quasi morboso, tendevano a idolatrarlo per qualsiasi cosa facesse o dicesse e lo consideravano il loro eroe, capace di proteggerle da qualsiasi cosa. Ma mentre Kirsten, all’alba dei suoi 17 anni, era abbastanza grande e matura da comprendere la situazione e far finta che non la toccasse più di tanto, cosa poteva fare Emma, una bambina di soli 11 anni, nel vedere il suo eroe andar via e scomparire, se non piangere e pensare al peggio?  Aveva pianto per un’ora buona, addossandosi tutte le possibili colpe per la fuga di suo padre, arrivando a pensare persino che questa fosse dovuta alla sua smisurata passione per i biscotti, che la portava a rubarne sempre qualcuno dal contenitore durante la giornata. Continuava a ripetere di volere papà al suo fianco, di desiderare un suo abbraccio e piangeva, mentre si accontentava delle mie braccia che la cullavano per rasserenarla, nonostante anch’io volessi le stesse sue cose e in quel momento fossi la persona meno adatta per consolare. A Nate ci aveva pensato Kirsten, anche se il suo sconforto non poteva essere paragonato a quello di Emma: lui non soffriva la mancanza di suo padre semplicemente, ma riusciva a sentire il distacco nella mia voce, a vedere la tristezza nei miei occhi e si impersonava così nel mio dolore facendolo suo, facendomi sentire una pessima madre per l’ennesima volta. Ma riusciva a superare sempre ogni cosa o almeno ad accantonarla, ed era quello che aveva fatto anche questa volta.
Avrei voluto essere più forte, avere una corazza più dura e non lasciare che i miei sentimenti trasparissero attraverso il mio sguardo o i miei gesti o la mia voce, in modo da non ferire nessuno, ma non ne ero più capace. Non possedevo più la corazza di un tempo, quella che avevo costruito con così tanta fatica, e la persona che l’aveva distrutta era la stessa che aveva attraversato la porta d’ingresso tre ore prima, senza comunicare la sua destinazione o l’orario del suo ritorno, se mai ci fosse stato, e non l’aveva ancora sorpassata.
Avrei voluto scoppiare a piangere, ma non potevo farlo davanti ai nostri figli, con il rischio di risvegliare la loro tristezza, non adesso che sembravano essersi finalmente calmati. Così decisi di alzarmi, certa che tanto non avrei chiuso occhio finché lui non sarebbe tornato. Lo feci con qualche difficoltà, attenta a non turbare la stabilità dei miei figli, ma riuscii ad abbandonare il mio stesso letto, armai i piedi di pantofole e mi chiusi la porta della stanza dopo aver lanciato un’ultima occhiata desolata, inoltrandomi nel corridoio buio.
Accesi la luce e percorsi qualche passo, prima che un rumore improvviso mi distraesse. Realizzai provenisse dal salotto, e nella speranza che lui fosse tornato mi precipitai trepidante lungo le scale, con la testa pesante e il pericolo di inciampare. Ero eccitata al solo pensiero che lui fosse di nuovo lì, che non avesse deciso di abbandonarmi, che non potevo fare a meno di sorridere, senza pensare realmente a cosa avrei potuto dirgli una volta che mi sarei confrontata coi suoi occhi verdi.
Sentivo il cuore come bloccato in gola, quella piccola speranza a sgomberare la mente, il battito così assiduo e forte da superare ogni soglia, e quando scesi anche l’ultimo gradino e fermai i miei passi in salotto lui era lì, la sua figura alta e forte che avrei riconosciuto tra mille, i suoi occhi grandi intenti a fissarmi, rendermi immobile. Senza neanche accorgermene mi precipitai tra le sue braccia e ripresi a piangere, commossa nel sentire ancora una volta il suo profumo nelle mie narici. Non mi ha abbandonato, lui è ancora qui, è ancora qui con me e non mi ha abbandonato.
«Shht.» mi sussurrò, pacato, «non piangere. Sono qui, non piangere.»
Ma quel suo incoraggiamento ebbe l’effetto contrario, perché le lacrime scesero più numerose di prima a rigarmi le guance, e la mia stretta attorno al suo busto aumentò. Non avrei potuto dire quanto felice fossi in quel momento, stretta a lui, ma ero più che certa le lacrime ne fossero una dimostrazione abbastanza chiara. E per quanto mi sforzassi non riuscivo a smettere di piangere, spinta dall’amore e dalla felicità nel sentirlo ancora accanto a me.
«Se avessi saputo che avresti pianto così tanto, non sarei tornato.» scherzò.
Per la prima volta alzai lo sguardo su di lui, e mi persi nei suoi occhi. Brillanti, profondi, meravigliosi. Sarei potuta rimanere a fissarlo in eterno, era bellissimo. «Non provare nemmeno a pensarlo» dissi invece, la voce scossa da diversi singhiozzi.
E lui mi sorrise, poi mi posò un bacio tra i capelli. Mi lasciai cullare dalle sue carezze ancora, fin quando non mi fui calmata almeno un po’, quindi lui mi regalò un altro sorriso e intrecciò le sue dita alle mie, mentre mi lasciavo condurre sul divano come una bambina. Si abbassò a sedersi ed io presi posto sulle sue ginocchia, sentendomi davvero infantile. Ma non mi importava, era con lui e niente avrebbe potuto rovinare quel momento.
Stette in silenzio per un po’, donandomi piccoli sorrisi e alcune carezze sul dorso della mia mano stretta ancora alla sua, come sul procinto di voler dire qualcosa.  «Mi dispiace» esordì poi, puntando i suoi occhi nei miei, «scusami, non sarei dovuto andare via così».
«Non devi scusarti» lo rassicurai, mentre i suoi ricci mi solleticavano il collo, «sono io a doverlo fare». Alzò il capo e impuntò lo sguardo nel mio, in attesa, così presi un respiro e cominciai. «Mi dispiace di essere stata così brusca, mi dispiace di averti urlato contro e di aver perso le staffe, mi dispiace di non averti dato la possibilità di ribattere e di essere sempre così logorroica, scusami» recitai quel monologo con gli occhi puntati nei suoi, il labbro tremante, e il suo sorriso fu la cosa più bella che potessi vedere.
Ma scosse la testa, puntando ora lo sguardo verso il basso, «ne avevi le ragioni» mi giustificò. Di nuovo la sensazione che volesse parlare mi assalì, così rimasi in silenzio e mi limitai ad alcune carezze alla mano, per infondergli la forza che gli serviva per parlarmi. Volevo potesse essere libero di dirmi qualunque cosa gli passasse per la testa, perché non l’avrei mai giudicato, non avrei mai potuto e non avevo intenzione di farlo. D’altronde, potevo ancora sentire una terribile sensazione di paura scorrermi ancora nelle vene, nonostante il peggio fosse già passato e superato.
«Sono stato licenziato» se ne uscì di punto in bianco, lo sguardo basso. «Il direttore mi ha esplicitamente detto che non ha bisogno di impiegati pigri, e la mia rendita non è stata delle migliori in questi mesi... non mi vuole più, e fine della storia.»
Riuscivo a cogliere lo sconforto nella sua voce e nei suoi occhi, e mi facevano un male assurdo. Perché conoscevo il suo orgoglio, e potevo perfettamente immaginare quanto quel licenziamento l’avesse demoralizzato, tanto da non volerne neppure parlare. E d’un tratto mi sentii pessima, sbagliata, egoista, nell’essermi arrabbiata con lui per qualcosa che cercava di nascondere per non ferire e appesantire nessuno, soprattutto se stesso, e l’aver pensato che quell’assurdo silenzio fosse una qualche specie di complotto, mentre tutto quello che lui stava facendo era cercare di non arrecarmi preoccupazioni, tenendole strette a sé e lasciando che lo logorassero senza qualcuno con cui condividerne il peso. E l’avergli urlato contro... ero stata soltanto una stupida. Una stupida egoista.
Non aggiunse altro e mi accorsi che era in attesa di una mia reazione quando tornai alla realtà e incrociai il suo sguardo ferito, i suoi occhi infantili. Lo accolsi tra le mie braccia e lo feci accoccolare al mio petto, mentre dava sfogo alle sue lacrime silenziose. Era ferito. E io più di tutti sapevo quanto gli facesse male.
«Perché non me l’hai detto subito?»
Tirò su col naso, poi alzò il capo. «Perché sono stanco, Lily.» soffiò, «sono stanco di doverti dare una delusione dopo l’altra, non faccio altro e non lo sopporto. Mi odio per questo, perché tendo a spostare sempre i miei problemi su di te, e non ce la faccio, è per questo che ho deciso di tenerti all’oscuro... sono un disastro» si criticò, la voce sottile.
Lo guardai asciugare malamente le lacrime con la manica del maglione, e non potei fare a meno di sorridere. Il mio piccolo Harry, pensai, non cambierà mai.
Mi feci più vicina e posai le mani sulle sue guance, mentre i pollici ne asciugavano le lacrime. «Sì, sei un disastro.» lo assecondai, quasi godendo della sua espressione sbigottita, «ho sempre pensato lo fossi.»
Harry mi osservò confuso, sicuramente si aspettava lo contrariassi, quindi gli sorrisi e posai un bacio sulle sue labbra, poi ripresi a parlare.
«L’ho pensato la prima volta che ti ho visto, quando mi hai fatto cadere tutti i libri per terra.» - lo vidi sorridere - «Quando ti sei presentato al mio stesso corso di arte senza saper neppure tenere in mano un pennello, o quando mi hai ingannata per ottenere un mezzo appuntamento. Quando hai cercato di baciarmi e non ti sei fatto sentire per giorni dopo che io ti avevo rifiutato,» - e lì lo vidi storcere il naso in una smorfia come un bambino - «quando ci siamo baciati, e sei arrossito come fossi in fiamme; quando ti sei travestito da Babbo Natale per fare da animatore ai tuoi cugini il giorno di Natale, e quando hai finto di conoscere ogni pittore della mostra d’arte a cui siamo andati solo per farmi un piacere. Quando la mattina dopo la nostra prima notte mi hai svegliata perché eri inciampato in una scarpa, e quando quasi ti sei rotto la caviglia con i pattini.» - accennò ad una risata, mentre io divenni più seria - «Ho pensato che tu fossi un vero disastro, quando ho scoperto della scommessa fatta con Niall per conquistarmi.» - si rabbuiò, e corse a cercare la mia mano, come timoroso che quel ricordo mi facesse ancora male - «Quando il mio orgoglio mi costringeva ad evitarti, e quando hai passato la gita in montagna tra compagnie poco raccomandabili e qualche pugno ricevuto per avermi difesa dalle accuse di un idiota. Quando ho capito che mi mancavi più di qualsiasi altra cosa, e non riuscivo ad accettarlo, e tu eri ancora lì ad aspettarmi, come se nulla fosse successo.» - sorrise - «Quando ti sei presentato alla mia famiglia.» - non riuscii a trattenere un sorriso derisorio, e lui alzò gli occhi al soffitto - «Quando mi hai chiesto di sposarti, dimenticando l’anello di fidanzamento a casa;» - sorrisi ancora, e lui andò a raccogliere la lacrima scesa lunga la mia guancia - «quando piangevi, il giorno del matrimonio; quando lottavi con la zip del mio abito da sposa la nostra notte di nozze.» - rise e assottigliò lo sguardo, forse ricordando il filo da torcere che quella zip gli aveva dato - «Quando alla nascita di Kirsten continuavi a chiedermi se fosse davvero nostra figlia e non una sorta di angelo, perché era bellissima e tu ne eri incantato;» - un piccolo singhiozzo, a seguito della sua lacrima. Presi un lungo respiro e continuai, commossa - «quando hai urlato a squarciagola alla partita di Nate, e tutti si sono voltati verso di te, e quando hai dimenticato di andare a prendere Emma a scuola, lasciando che lei tornasse a casa zuppa dalla pioggia.» - ridemmo, ricordando il visino corrucciato di Emma, la frangetta di capelli rossi attaccata alla fronte. Gli presi il viso tra le mani e lo costrinsi a guardarmi, divenendo più seria che mai - «Sei un disastro quando ancora oggi litighi con Kirsten se vuole frequentare un ragazzo, e tenti di aiutare Nate nei compiti, nonostante tu abbia sempre odiato lo studio, e quando non ti accorgi che Emma ti sta pasticciando la faccia coi miei trucchi mentre dormi, o quando come adesso scappi via da me quando litighiamo.» - il sorriso venne sostituito da uno sguardo basso, colpevole, che mi affrettai a cancellare - «Ma sai cosa?» ripresi, «Ogni mattina quando mi sveglio accanto a te mi ritrovo a pensare di amarti, amarti ogni giorno di più, e di essere fortunata ad averti, che tu sia un disastro oppure no, perché sei la persona più perfetta che conosca.»
Allacciai le braccia al suo collo una volta finito, e lo sentii singhiozzare contro il mio seno. Piangeva ancora, ma adesso era felice, commosso, e lo ero anch’io, perché nulla poteva rendermi più felice che convincerlo di quanto fosse perfetto ai miei occhi, qualsiasi ruolo ricoprisse, se di marito, o di padre, o semplicemente di uomo.
«Ti amo» singhiozzò, per poi abbandonarsi a baciarmi le labbra. Ed io non potevo che sentirmi nuovamente completa, perché l’uomo che amavo era di nuovo al mio fianco, ed ero più che felice di constatare che fosse rimasto ancora lo stesso bambino infantile, capace di mantenere il muso ed emozionarsi per sentirsi amato.
«Sai, sono stato in spiaggia» esordì, dopo un periodo di tempo indefinito, «mi rilassa sempre stare sulla sabbia a guardare il mare, è... magico.»
«Veramente?» lo assecondai, gioendo della vista dei suoi occhi scintillanti.
Annuì. «E’ stupendo, di notte, è come se la calma si impossessasse di te... ho pensato che voglio che anche voi lo vediate. E voglio esserci io, con voi.»
Andò a stringere la mia mano e mi sorrise, ed io lo abbracciai ancora. Avevo bisogno del suo abbraccio più di qualsiasi altra cosa al mondo, e niente più del suo calore avrebbe potuto tranquillizzarmi, e gliel’avrei detto, se solo avessi voluto spegnere quella meravigliosa scintilla infantile nei suoi occhi. Ma non volevo. Volevo che lui continuasse ad emozionarsi per le piccole cose, a cogliere il lato positivo di tutto ciò che sembra un disastro, e volevo mostrasse queste sue piccole conquiste anche a me e ai nostri figli, senza avere il timore di turbarci o annoiarci. Senza avere la sensazione di essere un continuo eccesso di allegria, o di tristezza, o di spossatezza o noia, perché infondo chi non lo è? Ma credo che la vita consisti proprio in questo, condividere quei continui eccessi con le persone che ti stanno accanto, e alleggerirli di volta in volta. Un peso si sostiene meglio in due, e finché lui me lo permetterà, io gli sarò sempre accanto, per far sì che non inciampi mai più.


sciaaaaaaaaaaao <3 sì lo so, rompo le palle. Ma sopportatemi. 
Altra shot :) è ispirata al futuro (?), dunque un Harry marito e padre, alle prese con tutti i problemi che i ruoli comportano. Ma ha Lilith, sua moglie, e i tre figli, e non si può crollare se si ha una famiglia accanto.
"Ma credo che la vita consisti proprio in questo, condividere quei continui eccessi con le persone che ti stanno accanto, e alleggerirli di volta in volta. Un peso si sostiene meglio in due, e finché lui me lo permetterà, io gli sarò sempre accanto, per far sì che non inciampi più."
credo che questa sia la frase in cui sta tutta la storia. Infondo ognuno di noi si considera un eccesso di qualcosa, ma l'importante è avere qualcuno con cui condividerlo. Ed io stessa ce l'ho, e la frase è quello che mi ha fatto capire una persona a me cara, che ringrazio. Quindi è anche un po' dedicata a lei, credo (?) 
Vabé, mi dileguo. 
Recensioni ben accette. 
Adios <3
  
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