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Autore: Legolas_    14/06/2013    3 recensioni
Sette ragazzi che anche se non si conoscono, hanno una cosa in comune: frequentano tutti e sette il Mercy Hospital, un centro psichiatrico. Ognuno dei ragazzi ha un problema che li identifica, ma anche che li fortifica, li rende forti e indistruttibili, il contrario di quello che la società e le loro famiglie vogliono.
Tutti e sette si ritroveranno ad affrontare loro stessi assieme, in un posto che farà loro sparire le loro paure.
Genere: Azione, Comico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shoujo-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mi alzo di buon'ora stamattina. Anche se so che tutto diventerà noioso e brutto e strano come i giorni precedenti. Tutto avviene meccanicamente: mi alzo, rifaccio il letto - mamma non vuole che rimanga disfatto -, mi vesto, scendo giù in cucina e apro il frigo. Trovo due uova belle fresche e le cucino assieme al bacon.
Dopo pochi minuti metto tutto nel piatto bianco e di porcellana che si trova nella credenza sopra il lavello e mangio. Le uova sono molto buone. Ovvio, penso. Le ho prese ieri io al capanno, dove ci stanno le galline.
Abito in una fattoria nei pressi del Tennessee, assieme a mio padre, mia madre, i cavalli, le galline e maiali. Purtroppo sono figlio unico. Tutti i miei compagni di classe hanno dei fratelli e delle sorelle. Io son l'unico cretino che non ha nemmeno un cane.
Mamma dice sempre che io mi devo accontentare per quello che ho. Ma io la penso diversamente. Perché non fare una sorellina e un fratellino? Così io posso stare con qualcuno.
Ma poi ci ripenso e mi do dello scemo. Ma chi lo vuole un bambino che piange, piscia, fa la cacca e non smette di mangiare tutto il giorno?
Sinceramente io no. 
Così finisco di mangiare, metto tutto nel lavello e vado in bagno a lavarmi i denti. Ma è occupato. Non ho bisogno di capire chi c'è dentro: dall'odore del dopo barba capisco che è papà. A volte lui ci sta un'ora dentro per prepararsi. E poi da la colpa a mamma. Pff, penso io grattandomi la chioma castana.
<< Papà! Dai sbrigati.. sono già le otto! >>, lo chiamo da fuori la porta, in mezzo al corridoio come uno scemo.
Sento dei rumori. Lui chiude l'acqua, appoggia il bratattolo del dopo barba e prende l'asciugamano.
<< Si Peter.. un'attimo.. >>, mi risponde lui.
Sbuffo. "Un'attimo" per lui equivale a venti minuti. E siccome lui ci mette troppo tempo, scommetto la vita del gatto del vicino che arriveremo in ritardo.
Do un paio di colpi alla porta per far capire a quel cretino di mio padre di sbrigarsi, ma lui dice sempre << Un attimo. >>.
<< Fanculo. >>, rispondo io secco e con la voce profonda come se venisse dall'oltretomba.
Lascio stare mio padre e mi siedo nel divano rosso del soggiorno e aspetto. Aspetto che qualcuno mi dica di andare via da questa casa che mi tiene prigioniero. Che mi fa sentire ancora più solo, indistinto, un pallino bianco in uno sfondo nero.
Fisso la libreria che è a cinque metri da me e rimango almeno venticinque minuti e trentasei secondi a fissarla, finchè arriva mia madre con la sua gonna nera e camicia rossa che è identica al suo colore del rossetto e mi dice di alzarmi.
Si mette gli orecchini color oro che penzolano vicino alle sue orecchie perfette e rosee come il suo colorito del viso. I suoi occhi color nocciola mi squadrano dalla testa fino ai piedi. 
   Mi sento osservato.
Lei prende la borsa nera e sento sempre un tan tan tan con i suoi tacchi alti e neri che almeno la fanno sembrare più alta.
<< Peter.. ma che ti sei messo addosso?! >>, esclama lei dopo minuti di silenzio. Abbasso la testa e incontro la mia maglietta grigia a maniche corte, le scarpe da ginnastica grigie, nere e bianche e i pantaloni della tuta che di solito uso per la scuola.
<< Mamma.. non devo andare di certo alla premiazione degli Oscar.. >>, le rispondo io, sempre con la stessa voca bassa, secca e piatta.
Mia madre si volta con tutta la sua bellezza e mi risponde convinta: << Ma cosa centrano adesso gli Oscar?! Tesoro.. tu devi sempre vestirti bene! Sennò pensano che.. >>, ma si blocca.
La guardo e lei guarda me. Io sto zitto, ma so per certo il motivo per cui si è fermata. Non voleva terminare la frase con: << .. ho un figlio con dei problemi mentali.. >>.
A rompere il nostro silenzio che intanto si era diffuso anche tra le mattonelle del pavimento, ecco che entra in scena mio padre, con la sua divisa da uomo d'affari. Giacca, pantaloni color petrolio, camicia bianca, cravatta nera, capelli neri impregnati con il gel, l'anello color argento al dito medio e i mocassini neri e lucenti.
   Non sembro neanche loro figlio.
Loro sì che stanno andando alla premiazione degli Oscar, non di certo ad un centro psichiatrico.
Si sistema la giacca con entrambe le mani e poi mi guarda assente, come se io non fossi il suo unico figlio.
Il figlio che lui non avrebbe voluto avere.
Mi dicono di andare in macchina e io obbedisco come sempre. Mi siedo nei sedili posteriori neri e morbidi e aspetto che mi padre ingrani la marcia. Lo fa e iniziamo a dirigerci verso il Mercy Hospital.
L'incubo della mia corta e noiosa e insignificante vita.
Io sto al quarto piano, dove visitano i malati di mente con lievi problemi psicologici. Nel mio caso, la depressione. Man mano che si sale di piano, il tuo problema si aggrava. Ci stanno dodici piani. Io conosco solo il mio. Non è concesso ai pazienti di visitare gli altri piani, se non il proprio.
Si. Sono depresso.
Lo sono da un paio di anni. Da quando mia nonna è morta. Lei mi voleva un sacco di bene. Era l'unica che mi capiva, che mi voleva davvero bene. Solo lei avrebbe potuto capirmi adesso.
Lei e il mio migliore amico Gregor. Anche lui sta al Mercy Hospital. Ma lui non sta al mio piano purtroppo. Se ci fosse stato lui, almeno tutte quelle visite e riunioni non sarebbero state così noiose.
   Arriviamo al Mercy Hospital in tredici minuti e quarantesei secondi. Conto il tempo, quando mi annoio.
Saliamo le gradinate dell'ingresso e vengo a contatto con l'aria gelida dei condizionatori e dell'odore di pulito.
Troppo pulito direi.
Giriamo a destra e andiamo al casello per registrarci e per vedere a che ora entare a fare le visite. I miei genitori iniziano  a parlare con la vecchia del casello che a quanto pare, non ci capisce un cavolo. Così mi siedo nelle sedie blu di plastica, scomode e traballanti dell'ospedale.
Passano pochi secondi, e sento delle urla. Urla non troppo gravi e potenti, ma deboli, come se uno si stesse trattenendo solo perché è in un posto pubblico. Mi volto verso le urla, e cioè alla mia destra.
Una donna ha appena dato uno schiaffo ad una ragazza. Riesco anche a vedere la guancia rossa. La donna prende la sua borsa e poi esce dal corridoio per andare chissà dove. La ragazza rimane in piedi con ancora il viso rosso e i capelli neri scompigliati. Poi, come se avesse combattuto una battaglia, si lascia cadere nella sedia lontana da me.
Prende le mani e se le porta al viso, sconvolta.
   La sento piangere e mi si spezza un po' il cuore. La ragazza continua a singhiozzare e io continuo a guardarla senza neanche accorgermi di non respirare.
Poi lei alza il viso e con i dorsi delle mani si asciuga le lacrime, ma rimangono ancora i segni neri della matita che hanno rovinato il suo viso bianco come il latte.
Poi si volta verso di me e mi guarda come se fossi un miraggio. Io resto zitto, ma abbasso la testa perché comunque non riesco a tenerle testa.
Sento un ridolino.
<< La vita fa schifo.. non è vero? >>, la voce della ragazza trema come una lingua di fuoco ad un falò, ma è sonstanzialmente bella.
Mi volto verso di lei. Sta sorridendo un poco. Forse, penso, sta cercando di sdrammatizzare la situazione.
Annuisco senza parlare. Sento dei passi e poi vedo delle All Star blu avvicinarsi da me e delle calze nere che coprono delle gambe lunge e magre. La ragazza si siede affianco a me e appoggia la testa al muro.
I miei genitori stanno ancora parlando e non si sono accorti che la mano della ragazza ormai è stretta alla mia.
E poi appoggia la testa sulla mia spalla e sento il profumo di rose che mi invade il viso e i polmoni.
<< Loro non ci capiscono.. non sanno cosa significhi essere esclusi, eliminati da questa orrenda società.>>, dice dopo un po' lei.
<< Sono troppo occupati a prendersi cura di loro stessi e non di noi. >>, le rispondo io fissando tutto davanti a me.
Solo il muro giallo ocra.
La sento muoversi e quando mi volto vedo un bel paio di occhi color smeraldo e la loro forma a occhi di gatto che mi fissano. Li ha un po' rossi a causa del pianto.
<< Chi sei tu? >>, mi chiede fissandomi.
La guardo e rispondo subito con voce ferma: << Peter Jones. >>. 
<< Perché sei qua, Peter? >>, domanda ancora la ragazza-occhi-di-gatto.
<< Per il tuo stesso motivo.. >>, le rispondo invece.
Lei abbozza un sorrisino e poi dice scuotendo la testa con i capelli neri: << Mmh.. non penso.. >>.
<< Allora perché nessuno si occupa di me.. come ha fatto quella donna con te.. >>, e lei abbassa la testa.
C'è un momento di silenzio che ci incatena, ma poi lei risponde: << Mia madre.. quella stronza.. >>.
Alzo le sopracciglia sorpreso: << Oh.. le vuoi proprio bene, eh? >>, e cerco di sdramatizzare.
La sento ridere e vedo le fossette che marcano i lati della sua bocca piena e rosea.
<< Da morire. >>, risponde lei amara.
Ma ecco che sento i soliti tan tan tan dei tacchi di mia madre e così sono costretto a girarmi verso la ragazza dagli occhi di gatto.
<< E' stato un piacere parlarti.. ora devo andare.. >>, le dico alzandomi e sistemandomi la maglia grigia.
La vedo sorridere e poi mi guarda come se fossi la cosa più bella del mondo.
<< Anche per me.. Peter Jones.. >>, risponde lei sorridendomi. Mi accorgo solo ora che ha le lentiggini scure nel viso.
<< Tu sei.. ? >>, domando prima di andare via.
C'è un piccolo secondo di pausa da parte della ragazza, ma ecco che poi sorride e risponde.
<< Eva, mi chiamo Eva Jonhson. >>, dice lei.
  
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