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Autore: cranberry sauce    15/06/2013    4 recensioni
"Ma cos'è questo posto?"
John, seduto sul divano, lo guardò divertito. "Sarà la millesima volta che me lo chiedi, e la risposta è sempre la stessa: non ne ho la più pallida idea".
Genere: Sovrannaturale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: George Harrison, John Lennon
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Huis clos

Nota: ho scritto questa cosa ieri notte (o questa notte, o stamattina molto presto), probabilmente sotto l'influsso della paranoia da "non ho la minima idea di cosa ci sia da studiare di francese" pre-maturità. Huis clos è il titolo di un'opera teatrale di Jean-Paul Sartre (no pun intended :P), della quale cito uno frase in questa one-shot, che con il teatro dell'assurdo francofono qualcosa c'entra. Niente, spero di essere riuscita a farvi vedere quello che vedo io. E spero, ovviamente, vi piaccia c:
Disclaimer: tutti appartengono a loro stessi eccetera eccetera




"Ma cos'è questo posto?"
John, seduto sul divano, lo guardò divertito. "Sarà la millesima volta che me lo chiedi, e la risposta è sempre la stessa: non ne ho la più pallida idea".
George corrugò la fronte, contrariato, e prese posto su una sedia in un angolo della stanza. In questo modo poteva vedere tutto, dalla timida piantina che spuntava dal vaso bianco accanto a lui, alla libreria bianca ricolma di libri, alle bianche tendine in lino della finestra, fino al divano bianco su cui John Lennon, il suo vecchio amico John, compagno di bevute eccetera eccetera, sedeva a gambe incrociate in posizione ascetica, ed erano forse proprio i suoi vestiti
bianchi, neanche a dirlo, ad addolcire un poco l'espressione canzonatoria che aveva stampata in volto.
"È il paradiso?", chiese piano.
"Non lo so"
"Succede mai niente?"
"Niente di importante, no"
"Da quanto tempo sei qui?"
"Da stamattina, da una vita"
"Da quanto tempo sono qui?"
"Da meno tempo di me"
George sospirò. Non ci stava capendo niente, e John non sembrava molto d'aiuto.
"Dici che è la sala d'aspetto per reincarnarsi?"
John scoppiò a ridere. "Ah, figliolo, mi sei mancato! Mi sei proprio mancato. Era da tanto che non ne sentivo una così", e anche George si mise a ridere, senza sapere nemmeno il perchè, e più pensava all'assurdità della situazione più i suoi occhi si riempivano di lacrime, tant'è che rinunciò persino ad asciugarsele per portare le mani alla pancia, ormai dolorante. Quando l'accesso di risa scemò, sprofondò nuovamente nei suoi pensieri, interrotti ancora da qualche risatina impertinente di John.
Si alzò dalla sedia e si diresse verso la finestra; scostò circospetto le tendine e sbirciò fuori. Il sole brillava e spandeva la sua luce sui dolci pendii verdi vestiti di
candidi fiori , ma non lo si poteva scorgere direttamente nel cielo. Un gruppetto sparuto di alberi si specchiava in un laghetto increspato da un vento invisibile alle loro fronde, che rimanevano innaturalmente immobili, e, ai limiti del suo campo visivo, a George sembrava di poter vedere una casupola di legno, come quelle che si trovano in montagna, ma senza finestre e senza porte.
Richiuse di scatto le tendine.
"Questa cosa non mi piace. Hai visto la casa?"
"Oh no, ci risiamo"
"Sì ma l'hai vista?"
"Certo che l'ho vista"
"Con gli occhiali?"
"No, col culo - Cristo George, ovvio che l'ho vista con gli occhiali!"
"Non ha porte nè finestre"
"Già, altrimenti sarebbe uguale a una di quelle casette di montagna"
"Ma non ti sembra strano?"
"Sì, ma che importa?"
George tacque. "Deve pure importarmi qualcosa in un posto in cui sembra che niente importi a nessuno. O no?"
John non rispose. Si alzò dal divano per avvicinarsi alla finestra. Diede una rapida occhiata fuori, ritrovando il paesaggio che aveva già avuto modo di osservare infinite volte, e poi si portò l'indice alla bocca, mordicchiando l'unghia, pensieroso. "Lo sai qual è una cosa ancora più strana?", domandò ad un tratto.
George esitò un momento; non era sicuro di volerlo davvero sapere. "No, cosa?"
"Il fatto che sia sempre così"
"In che senso?"
"È sempre lo stesso paesaggio. Sempre! Non è mai notte, niente si muove - a parte l'acqua nel laghetto, ovviamente..."
"Non passa mai nessuno?"
"Nessuno"
"E sei stato qui da solo tutto il tempo?", chiese George in un sussurro.
John abbassò gli occhi e riprese il suo posto sul divano. "Sì", mormorò. "Ma ogni tanto... Ogni tanto vi sentivo"
"Chi sentivi?"
"Tu, Yoko, Paul, Ritchie... Tutti"
"Cosa vuol dire che ci sentivi?"
"Era come... Non so, era come se foste tutti dall'altra parte del muro, dietro questa parete", disse John battendovi una mano sopra. "E questa cosa mi faceva impazzire perchè sapevo che non potevate essere lì. Sapevo che voi non potevate sentirmi, per quanto casino potessi fare"
"Dev'essere stato orribile"
John scrollò le spalle. "Era confortante, a volte, niente di più"
George sospirò, appoggiando la mano al tavolo. Gli girava la testa e si sentiva come se il suo cervello non fosse più capace di articolare un pensiero coerente, poiché tutto sembrava sfuggirgli e non poteva dirsi sicuro nemmeno di essere morto. Ma no, ma no, doveva essere morto per forza. Forse. "John?"
"Mh?"
"E se fossimo finiti all'inferno?"
Il suo amico riacquistò immediatamente il solito sorriso da gatto del Cheshire. "L'inferno sono gli altri"
"Molto gentile da parte tua"
"Ma no, è una pièce di Sartre"
"E da quando vai a teatro?"
"L'ho letta. C'è un sacco di roba bella in quella libreria"
"Sì?"
John annuì.
Il silenzio calò nella stanza, ma George non seppe dire quanti minuti passarono prima che si decidesse a riprendere la parola perchè, con suo sommo dispiacere, non c'era alcun orologio.
"Posso farti una domanda? Personale, dico"
"Spara"
"Sai cosa dicono di te e Paul, vero?"
"Può darsi. Cosa dicono?", rispose John, gli occhi brillanti  come quelli di un bambino che sta per scartare i regali di Natale.
George aprì e richiuse la bocca. Non gli andava di dirlo. Era stupido, è vero, ma non se la sentiva. Certo, non ci sarebbe stato niente di male, e alla fine erano solo pettegolezzi infondati, per cui John non se la sarebbe presa.
"Avanti, ragazzo, dimmi", continuò con voce melliflua.
"Dicono che non siete... Cioè, che non eravate proprio amici"
"Ah no?"
"No"
"E cosa siamo allora? Colleghi? Conoscenti?"
"No... Oh, lo sai benissimo, vuoi solo che io lo dica, vero?"
John si limitò a guardarlo insistentemente.
"Non lo farò. Anche perchè non ci credo"
"Non ci credi?"
"No. Mi sembra assurdo. L'avrei saputo, l'avrei scoperto in qualche modo"
"Dici?"
"Dico"
"Se sei sicuro, allora va bene così"
George dovette impedirsi di saltare in piedi e strozzarlo; non era il tipo da avere problemi di gestione della rabbia, ma John a volte sapeva essere impossibile. Mai una risposta chiara, mai una reazione coerente. E sempre più dubbi, sempre più dubbi, in un posto dove le incertezze erano già fin troppe.
John continuava ad osservarlo dal divano, sorridente, imperturbabile.
"Insomma", riprese George, incapace di sostenere ulteriormente la situazione. "Non può essere e basta! Me l'avresti detto, o me l'avrebbe detto lui. O l'avreste detto a qualcun'altro, se non a me. Oh, no. Non avresti potuto nasconderlo a Yoko. Mentire, a lei? Non ci credo. Non posso crederci. Non è così, fine della storia"
"George, in tutta serietà: lo sai benissimo, e tu meglio di chiunque altro, che ci sono cose che solo io e Paul sappiamo. Io, Paul e nessun'altro. E non ho intenzione di divulgarle perchè...", John si fermò un momento, lo sguardo perso a rincorrere i ricordi che ostinatamente si aggrappavano a ogni piccolo, minuscolo neurone del suo cervello, impedendogli di dimenticare anche i più insignificanti particolari di quello che era stato. "Perchè gliel'ho promesso. George, capisci? Gliel'ho promesso. Non posso... Non voglio parlarne, capisci?"
"È... È un sì? Cioè, stai dicendo che è vero?"
"No, non mi stai ascoltando. Ho promesso a Paul che niente, nessuno avrebbe mai saputo delle sue cose e delle mie cose. Anche le più stupide, sai. Ma non posso dirlo."
"Oh, John, ma se sono stronzate cosa cazzo te ne frega?", ribattè con veemenza.
"Le promesse non sono stronzate"
"Questo tipo di promessa evidentemente lo è"
"Non sai niente della nostra promessa", sibilò John a denti stretti.
George, nella sua ricerca della verità, era stato troppo cieco e non aveva notato l'impercettibile incrinatura nel tono di voce dell'altro, o la rigidità della sua postura, o il modo in cui ora lo squadrava, sprezzante, autoritario, leggermente crudele.
Gli sembrò improvvisamente di essere tornato quindicenne, quando tentava invano di tenere il passo dietro Paul, completamente sordo a qualsiasi parola che non provenisse dalla bocca di John, il quale, dal canto suo, gli parlava fitto fitto vicino all'orecchio per non farsi sentire, e lo conduceva tenendolo per il gomito con una mano, indicando con l'altra le ragazze sul marciapiede opposto, lasciandolo solamente una volta raggiunta la porta di casa dove, con un cenno del capo ed un ultimo sorriso, spariva di nuovo per un breve, glorioso istante, dalla vita di George, che poteva così tornare a monopolizzare l'attenzione del suo migliore amico. Ed era sempre stato così, anche negli anni migliori, anche quando aveva smesso di guardare storto John. Anche quando sembrava l'unico che lo capisse ancora. E nella sua mente rivedeva ancora le mille e più volte in cui John si era voltato con uno sguardo molto simile a quello di ora e gli aveva detto "Sono cose mie e di Paul, non puoi capire".
Indugiò molto in questi pensieri, assaporando la rabbia, quella vera, montare dentro di lui a poco a poco, in attesa del momento propizio per esplodere e riversarsi e fare giustizia. Poi, però, sentì qualcuno parlare.
Aprì la bocca, ma John alzò un dito per segnargli di fare silenzio. Si sedette sul divano e premette l'orecchio contro la parete.
"Li senti?", chiese John, euforico.
"Sì"
"Visto? Cosa ti avevo detto?!"
George decise di non fargli notare che non l'aveva mai contraddetto su quel punto, e continuò invece ad ascoltare il miscuglio di voci soffocate che sembrava provenire da una stanza accanto a quella dove si trovavano. Riconobbe Olivia, Dhani, Richard. E poi gli parve di udire Cynthia e Julian, una risata sconosciuta, qualche colpo di tosse, Paul. Poi solo silenzio.
Si staccò dalla parete, un po' turbato, e si lasciò sprofondare nel divano.
"Forse li sentiremo ancora", disse John, allegro.
"Ed è questo che fai tutto il tempo? Aspetti?"
John si grattò il naso. "Sì, e poi parlo con te"
George lo guardò stupito. "E cosa facciamo adesso?"
"Rimembriamo gli anni d'oro. Aspettiamo. Aspettando Godot."
"Godot?"
"Sì. È di Beckett"
"Hai intenzione di andare ancora avanti per molto con queste citazioni letterario-teatrali?"
"Fino alla nausea"
"Fantastico"
"No, sempre Sartre"
George roteò gli occhi. Si alzò e prese a misurare a passi lenti la stanza, girando intorno al tavolo bianco posto al suo centro, analizzando nuovamente ogni dettaglio, tutto stranamente famigliare ed estraneo allo stesso tempo. Provò a guardare di nuovo fuori dalla finestra, ma anche il paesaggio non era mutato.
Si voltò verso John, che ancora teneva una mano appoggiata alla la parete e tendeva l'orecchio.
Scosse la testa e domandò un'altra volta, un'altra volta invano:
"Ma cos'è questo posto?"
   
 
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