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Autore: Aine Walsh    15/06/2013    8 recensioni
Forse avrei dovuto dar retta alla televisione, credere all’allerta meteo e starmene a casa invece di venire qui a sorseggiare del the. Perché sono il classico inglese che, quando può, non rinuncia alla famosa tazza di the delle cinque del pomeriggio. Anche se oggi pomeriggio avrei potuto benissimo inaugurare il bollitore che mi ha regalato mia sorella qualche settimana fa, giusto per non rischiare troppo.
[...]
«Non sono un tipo che pensa queste cose la prima volta che incontra una persona».
«Potrei farle cambiare idea se volessi, signor Hiddleston».
Ho sentito bene?
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Di pioggia, Genesis e van Gogh
 


 

Fuori piove a dirotto e il cielo è così scuro da sembrare notte inoltrata, nonostante siano appena scoccate le cinque del pomeriggio. In strada non si vede nessuno e la cosa non mi meraviglia affatto; anzi, mi stupirebbe il contrario. Gli alberi sbattono violentemente tra loro e le gocce d’acqua s’infrangono con forza contro il vetro del finestrone, mentre tutta la via è un turbinio di foglie e carta straccia e il vento soffia e fischia tra i palazzi.
Sì, è decisamente arrivata la primavera.
Forse avrei dovuto dar retta alla televisione, credere all’allerta meteo e starmene a casa invece di venire qui a sorseggiare del the. Perché sono il classico inglese che, quando può, non rinuncia alla famosa tazza di the delle cinque del pomeriggio. Anche se oggi pomeriggio avrei potuto benissimo inaugurare il bollitore che mi ha regalato mia sorella qualche settimana fa, giusto per non rischiare troppo.
Sorseggio ancora un po’ e mi scotto la lingua, così riappoggio la tazza al tavolo e la stringo forte tra le mani per riscaldarmi. Di solito non vengo mai da questa parte della città solo perché è lontana da casa, ma si è dato il caso che passassi di qui quando il temporale ha iniziato a farsi sentire, così sono entrato senza nemmeno rifletterci un secondo in più. E devo ammettere che è un localino abbastanza carino e che la donna seduta dietro al bancone (unica presenza, se escludiamo la mia) ha preparato davvero un ottimo the.
Fuori di qui il mondo sembra sul lastrico e l’unico rumore che sento è quello dello scrosciare dell’acqua, talmente forte da coprire qualsiasi altro suono. È come se tutto stesse per finire proprio adesso, in questo preciso momento, mentre io sono troppo impegnato a bere e sgranocchiare biscottini. Sospiro appena e mi volto nella direzione opposta a quella della vetrata, lanciando qualche occhiata alla proprietaria per stabilire se è il caso di cercare di attaccare bottone o no. E dopo pochi secondi capisco che non mi sembra proprio il momento adatto. La donna ha la fronte corrugata e il viso roseo e non più tanto giovane è contratto in una strana smorfia ansiosa mentre continua a spostare lo sguardo dalla finestra, all’orologio e al telefono accanto alla cassa. Sono quasi tentato ad andare via per permetterle di chiudere o fare quello che deve fare, ma subito dopo ritratto: il nubifragio non accenna nemmeno a voler smettere, non ho un ombrello, sono venuto a piedi e non c’è nessuno in giro, figurarsi se passa un taxi. Ho la sgradevole sensazione di sentirmi un peso e la cosa mi dispiace un po’.
Abbasso lo sguardo e inizio a tracciare delle figure immaginarie sulla superficie liscia del tavolo, preso da tutta una serie di pensieri più o meno filosofici, fino a quando un rumore diverso e inaspettato non mi costringe di nuovo a guardare in strada dove una figura, irriconoscibile per via del trench grigio e china su quella che ha tutta l’aria di essere una vecchia bici, sta raccogliendo qualcosa caduto a terra, tra le pozzanghere. Un attimo dopo i campanelli appesi sopra la porta d’ingresso tintinnano e la figura resta ferma, immobile e infreddolita, sfilandosi il soprabito zuppo per consegnarlo alla trafelata proprietaria del cafè.
«Ho fatto più in fretta che ho potuto, ma con questo tempo e…».
«Non saresti dovuta venire! – replica immediatamente l’altra, col cuore in gola – Con la bicicletta poi! Tu sei matta, ti avevo detto di restare a casa!».
«A che pro? Per lambiccarmi il cervello e morire d’angoscia? Tanto vale venire qui e rendermi utile mentre tu vai a cercarlo».
La più grande le rivolge un’occhiata preoccupata ma carica di gratitudine prima di correre nel retro e fare capolino pochi secondi dopo con indosso un pesante giubbotto nero. «Sarò di ritorno presto, te lo prometto».
«Non c’è problema, posso sempre lasciarti le chiavi quando tornerò a casa. Chiamami quando lo trovi, piuttosto».
Mi sembra molto poco educato origliare una conversazione, ma dal momento che siamo in tre e che non c’è niente che può indurmi ad agire in modo diverso, penso che sia, in un certo senso, inevitabile. Avvicino l’iPhone nel tentativo di apparire distratto e distaccato, osservando con la coda dell’occhio la donna uscire e perdersi tra la pioggia fitta e la nebbiolina.
La nuova arrivata sospira pesantemente, premendosi sugli occhi i palmi delle mani che lascia poi scivolare lungo il viso.  «Ci scusi per l’intoppo» dice infine.
«Non ce n’è bisogno, spero solo non sia niente di grave». Va bene, forse non dovrei intromettermi, ma è parecchio inverosimile lasciarle credere che io non abbia sentito nulla di quel breve scambio di battute con la sua amica.
«Già, lo spero anch’io» sussurra, più a se stessa che a me.
Ha una voce gentile, esattamente come il suo viso incorniciato dai capelli castano chiaro lunghi fino alle spalle. Le sue guance sono arrossate (probabilmente per la corsa) e gli occhi nocciola saettano lungo il perimetro del locale, come indecisi sul da farsi.
«Lei è a posto così, giusto? Voglio dire, non le serve altro?».
«Va benissimo, grazie» sorrido.
La ragazza sorride di rimando e afferra una grossa tracolla che lascia ricadere con un tonfo sul tavolo vicino al mio. Si siede di fronte a me e la apre, tirando fuori qualcosa che però non riesco a vedere bene. «Non esiti a chiedere, in caso».
Annuisco ma lei non sembra neanche notarlo, concentrata com’è su quello che sta per fare. Incomincio un po’ ad annoiarmi a stare qui ma, dato che non ho altra scelta, prendo a fare delle congetture; mi domando come si chiama, quanti anni ha, se quelli che ho intravisto sono davvero colori e album da disegno e arrivo pure a domandarmi egoisticamente se mi abbia riconosciuto e se sappia almeno chi sono. Alla fine, ovviamente, giungo pure a darmi delle risposte e ritengo che possa chiamarsi Erin, Jeanie o Constance, che possa avere ventidue o ventitre anni al massimo, che quelli sono effettivamente colori e album da disegno e che ci sia un buon margine di probabilità che non mi conosca.
Il the nella tazza è ormai del tutto freddo, ma continuo a sorseggiarlo con calma e lentezza giusto per essere sicuro di avere qualcosa da fare nei prossimi minuti. Anche se poi arrivo all’ultima goccia e torno a guardare fuori, in silenzio, con il mento appoggiato al pugno chiuso. Nessuno fiata e non riesco a capire se la cosa mi imbarazzi più di quanto mi sollevi.
«Stando alle previsioni meteo pare che non smetterà prima di sera». Forse era più l’imbarazzo, ma sicuramente non era il caso di venirsene fuori con qualcosa di così apocalittico.
«Sì, la tv conforta parecchio» risponde a occhi bassi.
Bel colpo Tom, ti meriti un applauso.
Ma non faccio in tempo a rimproverarmi troppo che lei alza il capo e incontra per un velocissimo istante il mio sguardo. Poi si alza e va dietro il bancone, trafficando con un cassetto nascosto.
«Desidera altro per ingannare l’attesa?».
Sì, un po’ di compagnia. E la sua mi sembra che vada molto più che bene. «No, grazie».
«Non insisto, non vorrei pensasse sia una logorroica spaccacervelli o simile».
«Non sono un tipo che pensa queste cose la prima volta che incontra una persona».
«Potrei farle cambiare idea se volessi, signor Hiddleston».
Ho sentito bene?
«Ehm…». Sì, ha di nuovo il viso arrossato e sono portato a pensare che stavolta il freddo non c’entri nulla. «Mi scusi, finga di non aver sentito e cancelli l’ultima parte» farfuglia confusa e chiaramente in preda al panico.
«Dovrei scusarla per avermi chiamato con il mio cognome?». Nonostante il mio tentativo di sembrare calmo e gentile, la ragazza non si tranquillizza affatto.
Restiamo in silenzio per un po’ e la guardo mentre sistema una bustina di the in un’altra tazza, con il capo chino e le mani leggermente tremanti. Torna a sedersi al suo tavolo, inspira ed espira profondamente per tre volte e poi: «Oggi non me ne va buona una, ma diamine! – sbotta – Non vorrei passare per una squilibrata, e la prego di perdonarmi, ma lei capisce che non capita tutti i giorni di trovarsi nello stesso posto con… insomma con…».
Faccio una cosa strana, agisco d’impulso: mi alzo e mi metto al suo fianco, così vicino da sentire l’aroma di vaniglia del suo the, e le tendo la mano. «Tom. Solo Tom, Thomas al massimo».
Un attimo dopo mi pento del gesto. Forse avrei dovuto evitare questo slancio per non violentare ulteriormente la sua già agitata mente, quando sento le sue dita intorno alle mie e le vedo un sorriso timido sul volto. «Nicole, e le basti sapere questo. Non importa, lasci perdere» aggiunge poco dopo, vedendomi alzare un sopracciglio.
«Credevo ci fossimo appena presentati».
Ritrae la mano e mi fissa intontita per qualche attimo, poi si riprende. «Sì, hai ragione. Scusa». Fa per avvicinare la tazza alle labbra sottili, ma la riposa. «Sono così…».
«Confusa?».
«Nervosa».
«Ti innervosisco?» domando trattenendo una risata.
«Nel senso buono del termine».
«Da quando esiste un senso buono per “essere nervosi”?».
«Da quando lo si prova».
Arguta la ragazza, proprio un bel tipetto. E non mi riferisco solo al suo aspetto fisico, sembra avere una bella personalità.
«Cercherò di non dare in escandescenze, te lo prometto, anche perché ho la sensazione di aver già superato il peggio» afferma e riprende la tazza in mano.
«Non immagini quanto mi sollevi sentirtelo dire» rido. Fa spallucce e alza gli occhi al cielo, senza smettere di bere. Do un’occhiata a tutto il materiale che ha sistemato sul tavolo: ci sono colori, matite di varie dimensioni, un raccoglitore e tanti, tantissimi fogli.
«Sei un’artista?».
«Mmm, è una parola grossa. Per adesso sono solo una tirocinante che corre da una parte all’altra per aggraziarsi il corpo docenti. Senza successo, ovviamente».
«Perché dovresti avere bisogno dell’appoggio degli insegnanti?».
«Beh, perché non si può mai sapere, ma non è brutto avere dalla tua qualcuno già affermato nel campo, qualcuno che può darti consigli decenti».
«Io sono un ottimo dispensatore di consigli» sorrido.
Nicole ricambia timidamente, spostando lo sguardo da me ai fogli vuoti. «Non lo metto in dubbio».
Resto ad osservarla per qualche secondo mentre, a capo chino, sfiora con delicatezza le matite gettate alla rinfusa sul ripiano. Una ciocca le ricade ribelle davanti al viso e provo l’istinto di spostarlo e sistemarlo dietro il suo orecchio; per fortuna riesco a bloccare la mano prima che se ne accorga.
«Sei specializzata in qualcosa in particolare o…?».
«No, nessuna specializzazione ufficiale al momento».
«Ufficiale?».
«Ufficiosamente mi occupo di ritrattistica».
Non posso fare a meno di lasciarmi sfuggire un Oh di sorpresa e lei afferma con una punta d’orgoglio di essere la ritrattista del suo gruppo di colleghi. «Se tutto va bene, stiamo provando a organizzare una piccola mostra giusto per portarci avanti e cercare di farci conoscere» aggiunge.
«Mi piacerebbe venire». Alza un sopracciglio e mi guarda dubbiosa, posando la tazza ormai del tutto vuota. «Perché quella faccia?».
«Perché hai tutta l’aria di uno che sembra dirlo per buona educazione, se mi permetti».
«Sono una persona educata, ma non parlo per accondiscendere la gente. A meno che non siano giornalisti, allora lì bisognerebbe vedere… ma di solito non lo faccio neanche con loro. Voglio dire, se non mi va di fare una cosa non dico in giro al primo che passa che mi andrebbe di farla, tu che ne pensi?».
«Penso che parli come un avvocato e che ho fame. Biscotti?».
Annuisco, divertito dal suo modo di fare semplice e confidenziale.
«Et voilà, offre la casa» esclama porgendomi un vassoio.
«Cosa? No! Insisto!».
«Suvvia, non penserai mica che io accetti soldi da te».
«Certo che lo farai. Non fare uscire il Loki che è in me» la avverto, arrivando perfino ad agitarle l’indice davanti al viso.
«Questa è casa mia, comando io».
«E dovrei crederti? Da quel che ho capito tu non sei la proprietaria, quindi non puoi prendere decisioni in materia».
Nicole apre la bocca pronta a ribattere, ma un fortissimo fragore tale da far tremare i vetri la zittisce. «Era un tuono?» domanda poi.
«Temo di sì».
«Oh sì, smetterà proprio prima di sera. – commenta sedendosi – Comunque, dicevo…».
«Non potremmo mangiare e pensarci dopo? O non pensarci e basta?».
Sospira e scrolla le spalle. «Ti accontento solo perché non ho la forza necessaria per ribattere ancora e ho bisogno di zuccheri. Non pensare di riuscire a vincere sempre così facilmente».
«Cercherò di rimuoverlo» sorrido addentando un biscotto. Lo mastico. Lo assaporo.
«Mmm, ho preso quelli al limone».
Mando giù e la fisso. «Li hai fatti tu?».
«Prima dimmi se ti piacciono».
«Come potrebbero non piacermi, sono squisiti!».
«Non so, avevi una strana espressione…».
Scuoto la testa e sono quasi convinto di quello che sto per dirle. «Quindi li hai cucinati tu».
«Sono un’artista, non una cuoca» replica prontamente.
«E gli artisti non possono essere anche cuochi? O viceversa?».
Non risponde subito, sembra valutare la risposta. «Molto probabile, ma non nel mio caso. Io i biscotti preferisco comprarli, che prepararli».
«C’è forse un pizzico di pigrizia dietro questa affermazione?» ridacchio.
«Non so, potrebbe anche darsi che io sia troppo impegnata per avere il tempo di mettermi dietro ai fornelli».
«Touchè», alzo le mani in segno di resa.
Esita un po’. «E tu invece?».
«Eh, non sono un grande chef, ma so darmi da fare».
«Scusa, non volevo dire questo. – sorride imbarazzata – Mi chiedevo se anche tu avessi una vita molto impegnata… ma è una domanda sciocca, è ovvio che sia così».
«Non è una domanda sciocca, ne ho sentite di peggio».
Sorride e non aggiunge altro, contrariamente a quanto avevo pensato. Restiamo in silenzio per un po’, accompagnati dall’incessante scrosciare della pioggia a cui abbiamo ormai fatto l’abitudine. Ci sono davvero tante cose che vorrei chiederle, ma non credo affatto di avere il diritto di poter sapere più di quanto non voglia dirmi e preferisco aspettare che sia lei a fare la prossima mossa.
La guardo mentre giocherella con le poche briciole che ha lasciato sul ripiano, sembra pensierosa e il suo volto ha assunto una sfumatura grave evidenziata dal cipiglio corrucciato. Mi domando cosa le passi per la testa.
E poi la mossa arriva.
«Posso farti un ritratto?».
Devo dirlo, la proposta mi spiazza. E non poco, perché mi sarei aspettato di tutto meno che questo. Non che ci sia qualcosa di male nel farsi ritrarre (ho visto più volte artisti di strada intenti nel mettere bianco su nero i volti dei vari passanti), però… non so. Sono sorpreso.
«Non pensare male, eh. Non c’è nessun secondo fine dietro, voglio dire io non sono Jack e tu non hai affatto l’aria di essere Rose… Era solo un’idea così, detta a voce alta… e poi puoi sempre dirmi di no, non ti mangio».
«Ah, no?», fingo di esserne immensamente sollevato.
«No, non oggi. Stando alla dieta che seguo, il venerdì mi è vietato mangiare carne umana; è il tuo giorno fortunato, ma sappi che se ti rifiuti non ti permetterò di pagare le consumazioni».
«Questo è un ricatto».
«Punti di vista».
Do uno sguardo a quell’ammasso di fogli e colori che occupa la maggior parte del tavolo. Ma sì, non c’è niente di male e potrebbe anche essere divertente.
«Allora, come vuoi che mi metta?».
Non sorride, non direttamente almeno, ma per un attimo, un velocissimo attimo, mi guarda con gli occhi che scintillano colmi di gratitudine e questo basta. È anche molto più di quanto mi aspettassi e non so nemmeno spiegare a me stesso il perché di quella strana forma di disagio che sento crescermi dentro. Ho persino timore a dover ammettere che si tratti di imbarazzo vero e proprio.
«Nessuna costrizione, ti obbligo solo a cercare di essere il più naturale possibile» risponde frettolosamente mentre tira qualcos’altro fuori da un consunto portacolori scolorito.
«Mmm, facile».
«Aspetta un po’ prima di tirare le somme».
Quando i suoi occhi tornano a fissare i miei posso ben confermare una cosa: sono imbarazzato, sì. Esattamente tanto quanto lei, anche se cerca di dissimulare assumendo un’aria professionale e formale.
«Quanto sei seria» dico, provando a ricreare il clima scherzoso di qualche minuto fa.
«Mi tocca esserlo, non vorrei che il disegno venisse male e passare, come logica conseguenza, per un’artista da quattro soldi». Estrae una piccola matita troppe volte temperata e la scruta con fare interrogatorio.
«Qualcuno qui si sopravvaluta o sbaglio?».
«Odio farlo, ma odio anche fingere di essere troppo umile. Sicuramente m’illudo, ma credo di avere un minimo di talento e non mi va di sottovalutarmi più del dovuto. Sei pronto?».
«Sì».
Mi guarda, ma sembra più fissare la parete alle mie spalle che me. «Io invece no» afferma. Si alza, portando via tazze e vassoio, e non ho nemmeno il tempo di formulare una domanda che la vedo sparire nel retro. Mi sporgo un po’ in avanti per osservare meglio e non passa molto prima che la veda ritornare, tenendo fra le mani un grosso scatolone. Faccio per alzarmi, ma me lo impedisce: «Non c’è problema, ho quasi fatto. Ah! – sospira poggiando a terra il peso che solleva un gran polverone – Scusa, è in condizioni pessime e spero che funzioni ancora. Era ovvio che l’avesse lei, era inutile negare». L’ultima parte, naturalmente, non è rivolta a me. «Avanti, scegli» mi esorta tirando fuori una scatola più piccola che sistema proprio sotto i miei occhi.
Cd, sono tanti, tantissimi cd ordinati perfettamente pila su pila. «Sono tutti tuoi?» domando colpito.
«Frutto di anni di scambi e raccolte che vanno avanti da generazioni, sì» spiega brevemente mentre si dà da fare con un vecchio lettore cd portatile.
Lascio scorrere il dito sopra ogni album, leggendone i nomi degli artisti e i vari titoli e sorprendendomi ancora di più quando noto che l’ordine seguito non è solo quello alfabetico, ma anche quello cronologico. «Un po’ maniacale» commento.
«Giusto un po’».
«Non sei troppo giovane per ascoltare i Genesis?».
«Ti ricordo che non sai nemmeno quanti anni ho».
«Se ti aggiri sulla cinquantina, complimenti, sembri una ragazzina» sorrido furbamente. Mi mostra la lingua in risposta; chissà perché lo immaginavo. «From Genesis to Revelation?» propongo, già pronto ad uscire il disco dalla custodia.
«Ottima scelta!».
«Come fai ad avere il cd? Pensavo fosse introvabile».
«Guarda che non scherzavo quando dicevo che questa storia va avanti da generazioni. – mi ammonisce  facendo partire la prima traccia, Where the Sour Turns to Sweet – Mio papà era solo un ragazzino quando nonno gli regalò questo Lp e… va beh, non sto qui a raccontarti quello che è successo. Qualche anno fa il caro Mike ha deciso di prendere alcuni dei suoi album preferiti e di farli convertire in compact disk, tutto qua».
«Saggia scelta».
«Ho un padre in gamba. Adesso ti spiace restare fermo mentre disegno?».
«Ho il diritto alla parola o no?».
«Sarebbe meglio di no, ma trovo che sei un buon conversatore e quindi fa’ quello che ti pare».
Annuisco e solo dal suo rapido sguardo assassino capisco di aver sbagliato; mi è difficile trattenere una risata, ma riesco più o meno a tenerla sotto controllo.
La matita si muove con sicurezza e velocità, scivolando abile nel foglio bianco e permettendomi, pochi minuti dopo, di veder già prendere forma i lineamenti del mio viso. Sono così attratto da questo movimento che la voce di Nicole mi fa quasi sobbalzare.
«Che fai sbirci?».
«Eh… io…», colto con le mani nel sacco tento di farfugliare una scusa, ma il sorriso dolce tra le sue labbra mi fa capire che non importa.
«È già tanto che ti abbia concesso di parlare, non farmi arrabbiare».
«Sei tremenda» commento allegramente.
«Uh, me lo diceva spesso anche il mio ex fidanzato… sai che offesa».
Sì, questa ragazza è proprio un tipo. Non so niente di lei eppure mi sembra di conoscerla da anni, ridiamo, scherziamo e sto bene, mi sento a mio agio e so, da qualche parte, di essere contento di trovarmi qui chiuso insieme a lei.
La lascio lavorare per un po’ e rimango ad ascoltare la musica in sottofondo, lasciandomi cullare dalle note.
 

 

Don't get me wrong
 I think I'm in love
 But the feeling in the word is more
 That your crystal eyes will ever see in me
 Don't get me wrong
 Open your eyes
 Although I cannot show my heart
 I'll watch and hope
 While you are near to me

 

 
 Una volta finita la canzone (la sua preferita, ha mormorato) sento crescere una improvvisa quanto forte voglia di saperne di più sul suo conto. C’è come qualcosa in lei che mi spinge incessantemente a parlare e chiedere, sapendo di avere sempre una risposta indietro.
Sospiro piano e mi butto.
«Quindi, ricapitolando… ti chiami Nicole, hai un padre di nome Mike che è fan dei Genesis e sei brava a disegnare; cos’altro manca?».
Abbozza un sorriso mentre mi fissa i capelli, studiandoli per riprodurli al meglio. «Dipende da ciò che ti interessa sapere».
Tante cose, ma partiamo dalle basi: «Sei figlia unica?».
«Ho una sorella maggiore e due fratelli minori, gemelli».
«Londinese, suppongo».
«Sì e no. A dir la verità, sono nata in Italia».
Questa è bella. «In Italia? Sul serio, e dove?».
«A Firenze; i miei erano lì in vacanza e puff!, eccomi arrivata».
Rimango zitto e la guardo dare gli ultimi tocchi alle labbra. «Forse ora capisco come mai sei tanto brava. A proposito… artista preferito?».
Fa una piccola pausa per temperare il mozzicone di matita. «So che ti sembrerà strano perché sono una ritrattista, ma il mio preferito in assoluto è van Gogh. Potrei parlarti di lui e delle sue opere per ore, alla fine usciresti di qui con una specializzazione in merito. Sono anche andata ad una mostra, una volta, e sono rimasta incantata davanti a…».
«Notte stellata?».
«Non proprio. Notte stellata sul Rodano».
«Ancora meglio».
Alzando il capo e i suoi occhi incontrano i miei, spingendosi a sostenere il mio sguardo per qualche secondo in più rispetto alle altre brevi volte. Eccolo di nuovo, il fremito alla mano che aspira a stringere la sua. Pur di evitare quel contatto impegno le dita in qualcos’altro, lasciandomele scivolare sul viso e maledicendomi, subito dopo, per aver interrotto e rovinato l’altro rapporto che si era venuto a creare, quello visivo.
«Ho quasi finito, tra poco sarai libero. Scusami se ti ho stancato».
«Non sono affatto stanco e non ho nient’altro da fare, puoi prenderti tutto il tempo che vuoi. Anche l’eternità, se ti fa comodo».
«Mi dispiace ricordarti che non siamo tutti come te, Adam».
Questa risposta mi stupisce e rallegra allo stesso tempo, facendomi sentire quasi come un bambino che riceve un regalo inaspettato. «Andrai al cinema a vederlo?».
«Sarò in prima fila, non dubitarne. O… magari proprio in prima fila no, lì i posti sono scomodi» aggiunge, facendo oscillare la matita tra le dita. Mi guarda, poi torna al foglio e ripete l’azione una o due volte ancora. «Fatto, dovremmo esserci» annuncia mentre spazza via con la mano i residui di cancellatura della gomma. Osserva con soddisfazione il suo lavoro portato a termine e fa per passarmelo, quando il telefono accanto alla cassa suona e mi fa cenno di prenderlo intanto che lei va a rispondere.
Trattengo il fiato: è come se mi vedessi riflesso allo specchio, solo in bianco e nero. Mi sento incredibilmente affascinato da questo pezzo di carta, non avrei mai creduto che un semplice disegno potesse essere tanto somigliante. C’è tutto, c’è perfettamente, magnificamente, incredibilmente tutto. Ci sono io, con il pugno chiuso sotto il mento e gli occhi rapiti dalla ragazza che ho di fronte.
«Ah ah… ah ah… e poi? …ma razza di brutto ficcanaso, dove va a cacciarsi?! …eh, che ti ha risposto? …no no no! …senti, lascia che gli parli io. Più tardi lo convinco a fare quattro chiacchiere e mi faccio raccontare tutto, d’accordo? …sì, ma tu non picchiarlo nel frattempo…».
La ascolto parlare mentre studio il cielo fuori dalla finestra. Ha smesso di piovere e i nuvoloni sembrano dissolversi per lasciare posto a delle macchiette bluastre sparse qua e là.
«Era Mary, – mi informa subito dopo aver riattaccato – la mia vicina di casa nonché proprietaria di questa baracca. Dice che ha ritrovato suo figlio e sta bene. O stava, visto che non oso immaginare cosa stia passando quel ragazzino adesso… ma se lo merita, se lo merita tutto».
«Si era perso?».
«Era scappato. Pare che il signorino si sia preso una bella sbandata per un’amichetta… tanto da farlo uscire di nascosto con questo tempaccio. Qualunque cosa gli stia facendo o dicendo Mary, è sempre fortunato ad avere una madre del genere: fosse stato figlio mio…».
Ridacchio. «Suvvia, non dirmi che non ti sei presa mai nessuna cotta e che non hai mai fatto delle sciocchezze!». Sto ancora contemplando quell’opera d’arte che tengo tra le mani, ma il non sentire risposta mi fa voltare nella sua direzione. Ha le guance in fiamme e da un lato mi dispiace, dall’altro però non posso fare a meno di essere divertito e terribilmente incuriosito.
«Non alzare il sopracciglio e non rivolgerti a me con quel modo da ultimo inquisitore spagnolo, sai? Sono cose private, cose private che sono successe anni e anni fa».
«Allora ammetti di aver combinato qualche marachella, eh?».
Alza gli occhi al cielo e sbuffa, ancora a disagio. «Stai facendo di tutto per farti odiare. Peccato, mi stavi così simpatico prima».
Mi sposto sulla panca e le faccio spazio accanto a me in segno di armistizio. Si siede.
«Comunque sia, Mary sostiene che non entrerà nessun altro cliente per oggi e ho avuto il permesso di poter chiudere prima, quindi possiamo andare via quando vuoi… anche se forse è meglio approfittarne adesso che non piove più».
«E non vuoi sapere cosa ne penso?» chiedo, alludendo al ritratto.
«Solo se si tratta di giudizi positivi o critiche costruttive» asserisce. Si avvicina e si piega appena in avanti per osservare meglio. Riesco a sentire il suo profumo, lo respiro e mi è difficile restare concentrato.
«Tu che ne pensi?».
«È bello. Sei bello» risponde con solennità dopo qualche attimo.
Sbuffo. «Io non sono bello, sei brava tu».
«Forse potrei cavarmela, ma il soggetto aiuta».
«Secondo me dipende solo dalla mano dell’artista. Mi hai abbellito, ammettilo».
«Non ti ho abbellito, smettila. Accetta un complimento ogni tanto, non puoi essere sempre e solo l’unico a farne. Potrei capire se non li meritassi, ma le lodi ti calzano proprio a pennello!».
Apro la bocca per dire qualcosa ma non ne esce alcun suono e la richiudo, intontito.
«Non ci posso credere, ti ho davvero zittito?!» esclama stupita battendo le mani.
Sì, mi ha davvero zittito.
«No, è solo che non vorrei offenderti con la risposta. Non pensare di vincere sempre così facilmente, signorina» replico, citando più o meno le sue parole.
«D’accordo… – ride sotto i baffi mentre inizia a raccattare le sue cose – Comunque non mi hai ancora detto che te ne pare del disegno».
«Non l’ho fatto?».
«No».
«Ma tu lo sai già, non è vero?».
«Sì, però sono convinta che sarebbe meglio sentirtelo dire». Le passo il pesante raccoglitore e la osservo chiudere tracolla. «Sto ancora aspettando» mi comunica, con le braccia al petto.
«Forse adesso capisco le pene che ha dovuto patire il tuo ex ragazzo».
«Molto spiritoso e signorile da parte tua. Ed io che ti facevo il classico gentleman».
«Io sono il classico gentleman. – ribatto, portando superbamente il petto in avanti – Anzi, io sono anche un re. Un re con la R maiuscola, non dimenticarlo».
«Hai una bella faccia da schiaffi, sai? Se al posto tuo ci fosse stato qualcun altro, magari si ritroverebbe con una bella cinquina stampata sulla guancia».
«È un modo implicito per dire che sono affascinante e che non ti va di deturpare il mio meraviglioso viso?» le domando, sbattendo ripetutamente le palpebre.
Va bene, sto esagerando e dovrei darci un taglio. La sua risata, così cristallina e sincera, mi sprona invece a continuare, a lasciarmi andare, in un certo senso. Anche se una parte di me comincia a pensare che il tempo a nostra disposizione si sia quasi esaurito.
Le do una mano a mettere tutto a posto e quando terminiamo insisto perché mi lasci portare la borsa, cosa che ovviamente non mi permette di fare, quindi mi limito solo ad aiutarla a chiudere ben bene il locale.
Adesso siamo fuori, in piedi tra le pozzanghere, con l’aria fredda che ci sferza il viso. Una domanda prende a ronzarmi fastidiosamente per la testa e mi sforzo per ignorarla. Nicole alza il capo su, a indagare il cielo, e la imito senza dire parola; chi l’avrebbe detto, le prime stelle della sera si sono decise ad uscire allo scoperto. Molto probabilmente sarà una bella notte stellata.
«Fu così che la furia degli elementi si placò».
«Già» confermo, alzando la cerniera del giubbotto. Con la coda dell’occhio la vedo dondolare sui piedi, quasi aspettasse di fare qualcosa. O quasi aspettasse che sia io a fare qualcosa. Ed effettivamente faccio qualcosa, anche se sbagliato e fuori luogo perché preso alla sprovvista. «Non ti ancora pagato i biscotti e il the».
«Dio Santo, ci pensi ancora? Non riesci nemmeno a farmi fare la parte della dura, mi disarmi completamente».
«Questo vuol dire che accetterai i miei soldi?».
«No, questo vuol dire che tu terrai quel ritratto come ricordo e non mi pagherai neanche un misero penny. Intesi?».
«Forse non ho sentito bene: avevi per caso detto di non essere in grado di recitare la parte della dura?» ridacchio.
Non risponde, sembra pensare ad altro e dubito che abbia anche sentito l’ultima cosa che le ho detto. «Winter» bisbiglia d’un tratto.
«Come, scusami?».
Fa un cenno col capo. «Il foglio, guardalo: la mia firma è WNP. Nicole è il mio secondo nome, in verità mi chiamo Winter. Winter Nicole Peterson».
Obbedisco e mi stupisce notare solo adesso quelle tre lettere unite e in bella grafia, sebbene abbia scrutato il disegno già più volte e nei minimi particolari.
«Che nome…».
«Insolito?».
«Particolare. Nell’accezione positiva, quindi non essere scettica. A cosa è dovuta la scelta?».
«Mia sorella; ai tempi aveva quattro anni e i miei genitori ebbero la felice idea di far scegliere a lei il nome della futura sorellina».
«Sarebbe potuta andare molto peggio, ne sei consapevole?».
«Non sai quanto. Per fortuna la sua mania per Tolkien è arrivata dopo, altrimenti sarei stata registrata all’anagrafe col nome di Galadriel… – si interrompe per ridersela un po’ su prima di riprendere – Basta, non ho fatto altro che riempirti il cervello di chiacchiere riguardanti cose che non ti importano per tutto il tempo…». Abbozza un altro sorriso, come se avesse qualcosa da farsi perdonare.
«Beh, magari la prossima volta potremmo parlare di me» penso. A voce alta, però. Quindi alla fine la frase suona come una proposta, un invito.
Abbassa gli occhi, passandosi una mano tra i capelli. Ecco, l’ho messa in imbarazzo. «Mi fa piacere che tu sia in qualche in modo interessato a rivedermi, ma non so se il mio ragazzo approverebbe».
«Non mi avevi detto di avere un ragazzo. – certo, perché avrebbe dovuto farlo? – Voglio dire, avevi accennato ad un “ex” non ad un… “compagno attuale”».
«Il fatto che abbia avuto un ex non vuol dire che adesso sia single, non ti sembra?».
Non occorre nemmeno rifletterci sopra per capire che abbia ragione. «Ho detto un’idiozia, vero?».
«Non ti preoccupare; ogni tanto hanno il sopravvento ed escono senza darci il tempo di fermarle. Se proprio vorrai fare un saluto a questa bohemien sciagurata… mmm, magari potresti invitarla ad una premiere a tua scelta».
«Consideralo già fatto» annuisco, stringendole la mano che mi tende e azzardando una strizzatina d’occhio.
«È stato un vero piacere passare del tempo con lei, signor Hiddleston».
«Posso ben affermare la medesima cosa, signorina Peterson». Indugio ancora un secondo o due sui suoi occhi prima di lasciarla, quando capisco di essere sul punto di metterla davvero a disagio. Arretra di qualche passo e poi si volta, avviandosi verso la sua bicicletta. Faccio altrettanto, ma un pensiero veloce mi trapassa la testa.
«Ah… Nicole?».
«Comandi».
«Il ritratto. È meraviglioso e…»
Mi fa cenno di zittirmi portandosi un dito davanti alle labbra e la sua voce tradisce una nota d’emozione. «Va bene così, ne sono contenta».
Infilo le mani in tasca, rivolgendole un ultimo sorriso. «Allora a presto?».
«A presto» risponde un attimo prima di montare sulla bici e sparire poi dalla mia vista. Giro i tacchi e mi incammino per la mia strada, verso casa mia.
Non so se la rivedrò effettivamente ancora, ma sono portato a credere di no. È un peccato, ma comunque sia mi rimarrà il ricordo di un bel pomeriggio.
Un
pomeriggio di pioggia, Genesis e van Gogh.

I've been up in the air...

Che poi veramente no, sono stata sui libri a studiare per gli esami ç_ç
E quindi vi chiederete: "Quand'è che ha scritto questo scempio?".
AHAHAHAHAHA la notte, la notte! AHAHAHAHA. *Necessita caffeina, urgentemente*

No va bene, mi spaccio per una persona normale.
Alors, la storia non è una granchè e lo so. Ieri notte mi sembrava più carina, ma poco fa, rileggendola, mi sono accorta che è una grandissima cavolata.
E perchè lo sto pubblicando pur sapendo di star facendo un danno incredibile a chissà quante povere anime innocenti?
Per togliermi un peso e potermi finalmente concentrare a dovere sulla classificazione delle rocce <3 ...e anche perchè avevo bisogno di staccare un po' dopo una settimana di studio no-stop. Vabbeh, ma... sostanzialmente, che ve frega?
Quindi dicevo, la storia c'è e chi vuole, la legge. Chi vuole, la apprezza. Chi vuole *rispettate la fila, calmi!*, mi lancia i pomodori. Chi vuole, mi lascia una recensione *palla di fieno*.
Io, dal canto mio, spero solo di non aver "alterato" in alcun modo l'immagine o il carattere di Tom, dal momento che non è da molto che mi sono affacciata a questo nuovo, incredibile mondo (?) e non sono ancora un'esperta del settore (?).
Ultima cosa prima di andare (perchè le NdA stanno superando in lunghezza la stessa storia): la canzone riportata è One Day dei Genesis (mavvà!). Ascoltatela, è meravigliosa.
E cercate di godervi il sabato sera senza pensare a me...
Andate in pace.

A.



 
 
 
 
 
 
  
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