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Autore: Yuki Kushinada    16/06/2013    3 recensioni
Non è diverso dall’anno passato, tanto meno lo è dal giorno prima. Non è una persona migliore, non è cambiato affatto e non ha nulla di nuovo.
Quindi, la presenza del suo presunto Boss alle quattro di mattina è piuttosto inutile. Ma di nuovo, è di Tsunayoshi Sawada che si sta parlando, il capo della più grande
famiglia di lagne e piagnistei e chiacchiere inutili con cui la mafia abbia mai avuto a che fare.
“Come l’hai scoperto?” chiede con un mezzo sorriso dei suoi. Un sorriso cattivo.
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Mukuro Rokudo, Tsunayoshi Sawada
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note dell'Autrice: Salve a tutti. E' un po' che non mi faccio viva, ma spero di fare cosa gradita. Scritta in occasione del compleanno di Mukuro, che se non vado errato qui ci si è scordati di festeggiare. Non l'ho messa su il 9 perché... Bah, tra quando la scrivo, quando la correggo e quando mi decido a pubblicarla, il passaggio non è mai immediato.
Anzi, per una qual forma di decenza (tipo non aspettare giugno 2014) ho fatto piuttosto in fretta l'ultima fase, quindi spero non mi siano avanzati errori, almeno non troppi.
Avvertimenti: Mhhh, linguaggio un po' scurrile, ma non troppo. Si concentra molto sul senso della metempsicosi. Il genere è molto "Famiglia" anche se non sapevo con che sostituirlo. E' ambientato 7 anni dopo la fine della saga.
Buona lettura.








 

 

 

 

 

 

 

Tempo.

 

 

 

 

 

 

 

 

Tic. Tac. Tic. Tac.

La vita è una corsa contro il tempo, disse qualcuno, perché i secondi scorrono come un rivolo d’acido che corrode tutto quello che tocca: la pelle, la carne, l’anima.

Guardi un orologio e guardi il boia che lucida meticolosamente la lama, ne cura il filo con la delicatezza che non avrebbe avuto per la pelle di un’amante. Stai fermo, immobile, aspetti e inconsciamente sai che prima o poi è il tuo turno. Le lancette camminano e la lama squarcia i tessuti, le arterie, il sangue scorre e resta solo il buio della morte.

Allora corri, corri perché devi riuscire a fare tutto prima che il tempo si esaurisca, corri perché non è mai abbastanza. Se vivi, non c’è niente di peggio che morire.

Tic. Tac. Tic.

L’unica vera consolazione della morte è che quando muori, beh… muori. Finisce la corsa, ogni pensiero, dolore, preoccupazione e rabbia si dissolvono. Il boato di un palloncino che esplode, un bimbo che piange e il silenzio. Non il rumore roco dei tuoi affanni, ma il silenzio. Una benedizione. Il tempo è finito, è vero, ma almeno hai la pace.

Tic. Tac. Tic. Tac.

Poi ci sono i casi particolari, i casi come il suo, quando ascolti il tonfo sordo di un pendolo che si muove nella notte e ti chiedi se lo scorrere dei secondi non sia che un rubinetto che perde, le gocce scendono una dopo l’altra sul marmo lucido del lavandino, e alla fine non sarà servito a niente se non a pagare di più la bolletta dell’acqua.

Che lui non paga, tanto per dirne una.

Quando il tuo problema è che non riesci a morire, allora non sai neanche cosa sia il tempo.

Se c’è qualcosa che ha imparato quando è precipitato tra le fiamme ardenti dell’inferno, è a tornare indietro dalla morte. Capacità terribilmente utile quando il tuo scopo è uno sterminio di massa, ma se non muori non avrai pace, mai.

Il tempo non esiste, non c’è un istante che determina un inizio e uno che determina una fine, è un ciclo continuo che si ferma solo se riesci a spezzarlo, se sei abbastanza forte.

Forse è in quel laboratorio, che ha perso il concetto del tempo. Quanti anni aveva, quattro? Cinque?

Non c’erano orologi in quella stanza che puzzava di muffa e sudore stantio, solo una finestra. Il tempo era l’alternarsi di albe e tramonti. Almeno per un po’. Poi divenne l’alternarsi dei periodi che passava sdraiato sul tavolo del laboratorio e quello che passava in camera con gli altri bambini.

Quando hanno iniziato a riempirlo di droghe, è sfumato pure quello, così come il concetto di giusto e sbagliato, di vita e di morte. Era lucido ad intervalli, una lampadina che non fa contatto in una cantina deserta. Sprazzi di coscienza che lo tormentavano di tanto in tanto, e non era in grado di dire cosa gli fosse accaduto nel frattempo, chi stesse diventando.

Non esiste il tempo quando stai annegando, quando non hai consapevolezza delle tue azioni, quando sei legato e ti iniettano in corpo qualunque cosa pur di strapparti via l’anima e buttarla nell’inferno, tra le bestie, tra i demoni, le piante e gli dei. E poi farla tornare indietro, di nuovo tra gli umani, con un occhio corrotto come allegro souvenir.

Quanto cazzo ha vissuto nei sei reami? Secoli o Un istante? Non riesce a fidarsi della propria memoria, allora era così imbottito di farmaci che le sue percezioni facevano schifo.

Gli hanno distrutto il tempo, gli hanno distrutto il dolore. La morfina fa miracoli, specie se te la sparano in vena continuamente, l’unico dolore che gli era rimasto era l’astinenza. Quella sì che faceva male, male da vomitare, tremare e non reggersi in piedi.

Male al punto da sottoporsi quasi di propria volontà alle torture di quei bastardi, purché il suo corpo la smettesse di sudare, di fremere e i crampi non gli levassero più il fiato dalla disperazione.

Si è venduto come una puttana per una dose. Non si è ribellato quando poteva, sperando per dieci fottuti secondi di stare meglio, solo per ritrovarsi peggio di prima. Ma il tempo non esiste e quei secondi per lui erano un’eternità, un’eternità in cui sentiva di morire, ma non moriva mai davvero.

Lo scorrere del tempo, allora, era contare i segni che riportava addosso. Le nuove ferite, le nuovi cicatrici, la vista che peggiorava, il suo nuovo occhio.

Anche dopo che ha ammazzato tutti quei bastardi, gli è rimasto solo questo. Guardarsi allo specchio cercare di capire quanto sia cambiato dall’ultima volta che l’ha fatto, pensare a quanto c’abbia messo per ridursi in quel modo. Quanto ci vorrà per ridursi ancora peggio. E fino a che giorno non impazzirà del tutto.

Mukuro sa di non poter morire, non come gli altri almeno. Dopo quello che ha visto e vissuto, crede davvero che lo aspetterà un nuovo ciclo, e poi un altro ancora, finché non arriverà a perdere quella lamina sottile di lucidità che gli resta.

Lo incuriosisce sapere cosa gli rimarrà quando il filo si spezza. Se gli rimarrà qualcosa.

Di certo non il silenzio. Non quello che è una benedizione.

Deve dire grazie ai Vindice per questo. Loro più di chiunque altro sono stati vicini ad ucciderlo. Perché con un colpo di grazia rischiava di rinascere, magari nel corpo di una delle tante vittime possedute, il proiettile degli Estraneo serviva proprio a questo, in fondo.

Rinchiuso in una cella, senza acqua, né aria, né cibo, né luce, era quanto più inerme potesse essere. Non ha idea di quanto ci sia rimasto dentro, non ha mai voluto veramente parlarne. In fondo, la sua concezione di tempo e quella degli altri è completamente diversa, per quanto ne sa lui è rimasto lì dentro per sempre, in metà dei suoi incubi lo è ancora.

Non c’era nulla contro cui correre nella prigione Vendicare, non c’erano affanni e sospiri, ma il silenzio assordante di una solitudine forzata, in compagnia solo dei propri pensieri, della propria mente corrotta.

Se sei morto, il silenzio è una benedizione. Quando non riesci a morire, il silenzio è un urlo che ti squarcia i timpani, strappa le orecchie, stordisce il tuo senso dell’equilibrio e ti picchia violentemente in testa fino a farti raggiungere la follia, fino a farti cercare disperatamente un contatto di qualunque tipo, purché tu non debba ascoltare l’eco della tua disperazione che ti uccide lentamente da dentro. Così lentamente che alla fine non morirai e la sentirai per sempre.

Sarebbe impazzito davvero se Nagi non fosse stato capace di sentirlo, se non fosse stata capace di rispondergli. Se la sua piccola Chrome avesse scelto la morte alla sua compagnia, non gli sarebbe rimasto altro.

Si è aggrappato a lei in modo maniacale, ne ha corrotto la purezza dell’anima e del corpo e lei ha scelto di rimanere al suo fianco, anche quando l’ha lasciata libera. La ama per questo. Perché continua a lottare contro i suoi demoni, benché è chiaro che ne moriranno entrambi.

Ormai sono anni che è libero e sì, magari la sua vita non fa più schifo come prima, ma la verità è che si può guarire da tutto, ma non da se stessi. I segni che riporta non sono quelli del corpo, ma dell’anima.

Non riesce più a dormire di notte: il buio lo rende fottutamente violento, stava per aggredire Chrome l’ultima volta che si sono addormentati insieme nella sera. Ha bisogno di contatto fisico costante, perché dimentica troppo spesso cosa sia reale e cosa no. Ascolta continuamente musica a volume assordante, e a volte è persino disposto a dar retta a quegli idioti che vivono nella villa pur di avere una conversazione decente. E ancora non sa cosa sia il tempo.

Non è diverso dall’anno passato, tanto meno lo è dal giorno prima. Non è una persona migliore, non è cambiato affatto e non ha nulla di nuovo.

Quindi, la presenza del suo presunto Boss alle quattro di mattina è piuttosto inutile. Ma di nuovo, è di Tsunayoshi Sawada che si sta parlando, il capo della più grande famiglia di lagne e piagnistei e chiacchiere inutili con cui la mafia abbia mai avuto a che fare.

“Come l’hai scoperto?” chiede con un mezzo sorriso dei suoi. Un sorriso cattivo.

“Ho letto il tuo dossier ufficiale” risponde il ragazzino – benché abbia vent’anni ormai – in un’alzata di spalle.

“Vuoi farmi credere che hai imparato a leggere? L’Arcobaleno ne sarà così soddisfatto” lo prende in giro.

Tsuna lo ignora, lo conosce da troppo tempo per non aspettarsi una reazione del genere. Mukuro è uno di quelli che mettono in atto l’attacco come miglior difesa.

“Ho un regalo per te.”

“Mi lascerai possedere il tuo corpo senza fare storie?”

“No.”

“Allora non è un regalo gradito.”

“E’ il tuo compleanno, Mukuro.”

“Hai intenzione di dirmi qualcosa che non sappia già, o stai ciondolando qui solo perché non riesci a prender sonno?”

Tsuna non dice niente, lo guarda soltanto per tempo indeterminato, poi si siede al suo fianco nel divano del soggiorno buio.

La vicinanza con il suo Boss lo disturba alquanto e sarebbe anche abbastanza cinico da buttarlo allegramente giù dal divano, se non temesse che il fracasso possa svegliare tutti gli altri. Dio non voglia che debba sopportare anche i cani da guardia del moccioso.

Tsunayoshi, se ti aiuta a levarti dai piedi, sappi che è un giorno come un altro” gli dice sperando di liberarsene.

“Non lo è.”

“Se mi dai il regalo, poi te ne vai al diavolo?”

“Forse.”

“Dammelo.”

Quando Mukuro scarta la confezione indaco – tanto per essere originali – che gli ha porto Tsunayoshi, deve trattenere l’impulso di picchiare la testa contro il tavolino da caffè che ha di fronte.

“Un orologio” constata, quasi incredulo.

“Già.”

Mukuro tace per qualche secondo, poi non riesce proprio a trattenersi “Ora capisco perché Daemon Spade ha tradito Giotto.”

“Ho preso da lui l’idea.”

“Da Daemon Spade? Lo sapevo che non eri una volpe, ma questo è troppo stupido anche per te.”

“No da Giotto. Tu sei un mio Guardiano.”

“E quindi mi regali un orologio, mi sembra logico.”

“E quindi non puoi non reputare importante ogni momento che trascorriamo insieme” lo corregge, scuotendo la testa. “Lo sai, non ho idea di che hai passato prima che uscissi di prigione, ma qualunque cosa sia stato non è un buon motivo per non riuscire ad apprezzare quello che hai oggi.”

“Non hai idea. Appunto” ribatte Mukuro asciutto.

“Mi spiace.”                               

“Non vedo come possa spiacerti, visto che tu non c’eri.”

“Mi spiace perché ci tengo a te.”

“Oh Dio, risparmiami. Cos’è di tanto importante che dovrei apprezzare? E, bada Tsunayoshi, se ti sento dire la parola famiglia ti butto giù dal divano, ti picchio a sangue e me ne frego se i tuoi segugi si svegliano.”

“Non me lo sentirai dire” ribatté il giovane Don alzandosi dal divano e dirigendosi verso l’uscita “anche perché c’è scritto sul retro del quadrante.”

“Tu sai che non lo indosserò mai, vero, Tsunayoshi?”

“Sei libero di non farlo.”

“E che lo distruggerò quanto prima.”

“Sei libero di fare anche questo, è tuo ormai. Io dovevo solo dartelo.”

Tsunayoshi” lo ferma prima che possa andarsene di nuovo a letto.

“Dimmi.”

“La prossima volta che ti vengono di queste idee, prova con una torta al cioccolato. Costa di meno e non devo far finta di apprezzare una vaccata.”

“Come se avessi fatto il minimo sforzo!” mormora tra i denti il suo Boss. Sospira, tanto ormai con quei Guardiani non c’era speranza. “Avrai la tua torta al cioccolato.”

“E i bignè?”

“Anche i bignè.”

“E i profitterol?” insiste con un ghigno. Se Tsunayoshi è in vena di ingozzarlo di dolci, lungi da lui fermarlo solo perché la motivazione gli sembra stupida.

“Avrai un intero buffet di dolci e né tu e né Chrome avrete delle missioni oggi. Posso anche chiudere un occhio su i danni che combinerete tu e Hibari quando ti darà gli auguri, a patto che non mi distruggiate completamente la villa. E terrò gli ananas che ti ha mandato Fran lontani dalla magione.”

“Mi ha mandato ananas?” chiede con stizza.

Tsuna non può fare a meno di ridacchiare. “Credo siano illusioni, ma è da una settimana che arrivano casse intere.”

“Appena lo prendo…

“Io torno a dormire, Mukuro. E dovresti andarci anche tu. Buon compleanno.”

Mukuro non risponde, aspetta che il ragazzo esca dal soggiorno e si ributta con un sospiro sul divano. E’ ancora buio e col buio non riesce a prendere sonno. Ha dormito troppo tempo tra le tenebre che lo avvolgevano.

Un’eternità quasi. E di nuovo, si trova a chiedersi che significato abbia lo scorrere delle lancette dell’orologio che ha tra le mani. Tic. Tac. Tic. Tac.

Apprezzare i momenti importanti, come se quell’orologio servisse a farlo. Doveva quasi essergli grato di non avergli regalato un portafoto allora, quello sì che glielo avrebbe lanciato direttamente in fronte. L’orologio, almeno, poteva rivenderlo a buon prezzo.

Tsunayoshi Sawada è un povero illuso, di questo Mukuro ne è certo. Non è il suo primo compleanno, compiere gli anni non lo ha mai salvato da quel laboratorio, né ha convinto i Vindice a rilasciarlo. Non lo ha mai salvato dalla mafia.

Ma d’altronde, Tsunayoshi non ne sa nulla di mafia, per poter capire.

Allaccia l’orologio al polso, solo perché altrimenti lo abbandonerebbe sul tavolino e si dimenticherebbe di doverlo rivendere. Poi si alza e ritorna in camera sua. Appena si sdraia tra le lenzuola, Chrome si gira ad abbracciarlo.

Tic. Tac. Tic.

Lo sente ancora nelle orecchie il rintocco del grande pendolo che era appartenuto al Primo dei Vongola Fessi. Il tempo scorre, la vita scorre e lui è bloccato in un limbo personale senza pace, senza tregua, senza un domani, ma un presente infinito che è una specie di gabbia.

Eppure, col calore di un altro corpo stretto al proprio, un orologio di cui sbarazzarsi al più presto e un buffet di dolci in arrivo, l’idea che il tempo si fermi davvero non gli spiace così tanto.











Note post-lettura: Ok, più che sul compleanno di Mukuro, lo scopo è mostrare quanto è figo Tsuna in versione Boss, ma vabbé. <3

  
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