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Autore: Yoko Hogawa    16/06/2013    11 recensioni
La creatura dormiva tranquilla nella culla oltre il vetro della nursery, la terza da sinistra della seconda fila. Gambette e dita tozze, qualche ciuffo sparuto di capelli scuri sulla testa per la maggior parte ancora calva e le labbra rosa e perfette.
Non riusciva a staccargli gli occhi di dosso, John, fermo davanti a quel vetro da un tempo che non sapeva nemmeno quantificare.
[Spin-off di Meant to be Alone][Parentlock][Shameless fluff coated with sugar]
Genere: Fluff, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John, Watson, Sherlock, Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Desclaimer:tutti i personaggi utilizzati in questa fic – a parte Hamish – non mi appartengono, ma sono © di sir Doyle e del duo Mofftiss. Non ricavo nessuna utilità dal loro utilizzo se non quello di sfogare la vena  artistica e appestare il fandom.
 
Note:qualcuno me l’ha chiesta, a qualcun altro l’avevo annunciata, e dunque eccola.
Spin-off di Meant to be Alone – ma si legge anche sola, circa... più o meno – con talmente tanto fluff che penso di avere più zucchero nel sangue che... beh, sangue.
In pratica, è un sacco di fluff senza alcun senso. E un po’ di OOCness.
 
Un ringraziamento a Fusterya per le preziose, preziosissime consulenze tecniche e il quantitativo immane di conoscenza che mi ha messo a disposizione. Sei il mio guru di saggezza.
 
[Dedicata a lisettola, il mio Jawn, per il suo compleanno. Love you Darling ♥]
 
Auguro a chi vuole leggere una buona lettura.
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Alone Never More

 
 
 
 
La creatura dormiva tranquilla nella culla oltre il vetro della nursery, la terza da sinistra della seconda fila. Gambette e dita tozze, qualche ciuffo sparuto di capelli scuri sulla testa per la maggior parte ancora calva e le labbra rosa e perfette.
Non riusciva a staccargli gli occhi di dosso, John, fermo davanti a quel vetro da un tempo che non sapeva nemmeno quantificare.
Tre notti prima, di quel bambino aveva conosciuto la madre. Anche se “conosciuto” forse non era il termine più corretto.
Aveva aiutato i paramedici ad estrarla dal rottame accartocciato di una Seat Ibiza grigia, uscita di strada sulla A140 a causa dell’asfalto sdrucciolevole. L’auto aveva terminato la propria corsa contro un palo della luce togliendo la vita all’autista – e padre del neonato – e al primo figlio seduto dietro, un bambino di 8 anni di nome Brian.
John passava di lì per caso, quella sera. Tornava da casa di Harry e aveva perso l’ultimo treno, così aveva optato per l’autobus. Era una notte calma, tutto sommato, e in sere come quella amava salire su di un bus e lasciare che il mezzo lo accompagnasse per le principali strade della città fino a Baker Street.
Se avesse preso un taxi, probabilmente, non avrebbe mai tenuto la mano di Jennifer Malcom nel retro di un’ambulanza a sirene spiegate.
Jennifer era morta in ospedale dopo aver dato alla luce il suo bambino. Ufficialmente per i traumi riportati nell’urto, ufficiosamente per aver rinunciato a medicinali che avrebbero potuto danneggiare o uccidere il bambino che portava in grembo. Nessuno le aveva detto che il marito e il figlio maggiore la stavano già aspettando “dall’altra parte”, che dalle lamiere di quella macchina non ci erano mai usciti, ma lei sembrava saperlo già. Non fece domande, né a John né agli altri medici. Lo aveva capito sin da subito.
L’unica cosa che quella creatura possedeva era il nome. Lo stesso che la madre aveva sussurrato all’infermiera che le teneva sul volto la maschera dell’ossigeno in sala Emergenza 2 e che ora John poteva leggere sulla targhetta azzurra appesa alla culla.
Hamish.
In suo onore, supponeva. Ricordava la madre nel momento in cui l’aveva riconosciuto. “Grazie, dottor Watson” gli aveva detto senza che si fosse nemmeno presentato, stringendogli la mano un po’ più forte.
Si era chiesto per ore se, in quel momento, lei sapesse che sarebbe morta. Se avesse capito – o sperato – che il pargolo che portava in grembo sarebbe sopravvissuto anche se la gravidanza non era a termine. Si era chiesto quanto potesse essere forte ed illimitato l’amore di una madre per credere ciecamente nella sopravvivenza di una piccola vita non ancora venuta alla luce, ma era e sarebbe rimasta una domanda senza risposta. John non poteva saperlo, solo immaginarlo.
Ma ora che osservava quel frugoletto muoversi nel sonno, infastidito da chissà cosa, e arricciare le labbra  in una smorfia a dir poco buffa, non poteva fare a meno di sorridere e pensare, con amarezza, che la donna fantastica, coraggiosa e gentile che lo aveva messo al mondo non avrebbe mai potuto fare lo stesso. Che non lo aveva nemmeno visto, prima di chiudere gli occhi e lasciare questo mondo.
Nessuno dei due genitori aveva parenti ancora in vita, o anche solo alla lontana; dunque il neonato, anche se uscito illeso dall’incidente che aveva ucciso la madre, era solo al mondo. Nella migliore delle ipotesi sarebbe stato dato in affidamento ad una coppia che non poteva concepirne di propri. Nel peggiore, sarebbe stato mandato in uno dei tanti orfanotrofi che punteggiavano la città, come il St. Thomas. John ci aveva lavorato abbastanza per sapere che erano pieni di brave persone, nonostante le dicerie e i fondi sempre insufficienti, ma che neanche lontanamente somigliavano ad una famiglia, o ne davano la medesima sensazione.
Quel piccolino non si meritava di crescere senza dei genitori che lo amassero. L’unica sua sfortuna era di essere nato in circostanze tragiche, e di sicuro quello scherzo del fato non era colpa sua.
Al pensiero di vederlo crescere da solo in una delle tante camerate dell’orfanotrofio gli si chiuse lo stomaco e dovette serrare i denti. Deglutì le lacrime prima che gli inumidissero gli occhi, prendendo un respiro profondo ma tremante.
Quella solitudine non era poi così diversa dal crescere guardato da tutti come un mostro per via di un nome sanguinante sul dito.
Fu distratto dal cellulare, che vibrò nella tasca del giubbotto. Lo afferrò e sbloccò lo schermo, notando con sorpresa che erano ormai le otto di sera.
Sorrise quando lesse il nome del marito nella casella messaggi.
 
Dove sei? – SH
 
Automaticamente, lo sguardo gli cadde sulla fede dorata e lucida che copriva il proprio SIN. Poteva immaginare sotto di essa il nome “Sherlock” scritto in lettere bordeaux, quello che ogni sera rivedeva quando l’altro, prima di dormire, gli sfilava la vera nuziale per baciare la pelle dell’anulare.
Se la stuzzicò con il pollice prima di scrivere la risposta.
 
Un quarto d’ora e sono a casa. J
 
Sherlock sapeva benissimo dov’era. La mattina dopo l’incidente, dopo aver passato quasi 9 ore nella sala d’aspetto del pronto soccorso, lo era venuto a prendere da quello stesso punto mentre, sconvolto dallo stress e dalla veglia, fissava quella stessa culla con occhi rossi e gonfi. “Siamo entrati in Risonanza” gli aveva detto, prendendolo per le spalle: “vieni, John. Hai bisogno di riposo”.
Era andato a casa giurando che non sarebbe più tornato, che quel neonato non era niente per lui, ma si era presentato davanti alla nursery il giorno dopo, e quello dopo, e quello dopo ancora. Non riusciva a staccarsi da quel bambino e non era nemmeno suo.
Sospirò, riponendo di nuovo il telefono in tasca e preparandosi a tornare a casa. « Buona notte, Hamish » sussurrò in direzione della culla, iniziando poi a percorrere il corridoio in direzione dell’uscita.
 
 
 
 
« A cosa stai pensando? ».
John distolse lo sguardo dalla sua vecchia edizione de “Lo Hobbit”, adocchiando Sherlock seduto al suo fianco sul letto con il notebook aperto sulle gambe incrociate e gli occhiali da lettura sul naso. Non lo stava guardando e continuava a digitare sulla tastiera ma, a quanto sembrava, lo aveva osservato abbastanza per fargli quella determinata domanda.
« A niente » rispose, più per abitudine che altro.
Sherlock roteò gli occhi. « Stai leggendo da tre quarti d’ora e non hai mai voltato pagina » spiegò brevemente, come se fosse fin troppo ovvio: « a cosa stai pensando? » chiese di nuovo il detective.
John sospirò, piegando l’angolo della pagina e chiudendo il libro con un tonfo.
« Sai benissimo a cosa sto pensando » disse John.
Sherlock arricciò l’angolo della bocca. « Non è difficile da capire ».
« Allora perché chiedi? ».
« Detesti quando comincio un discorso dandoti la risposta ad una domanda che non mi hai ancora fatto » si giustificò. Ed era vero.
Il medico sospirò di nuovo. « Non riesco a togliermelo dalla testa » disse, gli occhi bassi sulla copertina rigida di tela rossa, le lettere stampate in oro insieme alla caricatura di un drago ad ali spiegate: « non è nemmeno mio figlio. Eppure non posso fare a meno di pensare alla sorte che quel bambino dovrà affrontare e... » non concluse, stringendo le labbra e aggrottando le sopracciglia.
« Lui come altri » gli rispose Sherlock.
« Lui non è “altri” » ribatté il medico.
« Cambia qualcosa? ».
« Beh, certo! » sbottò John: « Lui... lui è... » esitò.
« John » il tono di Sherlock, serio, lo richiamò all’attenti. « Oggettivamente, in una visione d’insieme, cambia qualcosa? » domandò, guardandolo negli occhi.
John prese fiato per parlare ma non disse una parola. Si limitò ad osservarlo, pensieroso. « Cosa stai cercando di dirmi? » disse poi.
Questa volta fu Sherlock a sospirare. Spense il notebook e si tolse gli occhiali, appoggiando tutto sul comodino. La stanza tornò illuminata solo dalla abat-jour dal lato di John, sfumando i contorni più lontani in una luce calda.
« Posso capire che tu abbia sviluppato un attaccamento di tipo emotivo con il neonato. Sarebbe una cosa tipica di te. Ma da un punto di vista puramente tecnico, cosa possiamo fare? » domandò: « a meno che tu non stia pensando, poco saggiamente debbo aggiungere, di adottarlo. O comunque di provare a farlo. O di propormi di prenderlo in considerazione » disse.
Voleva arrivare a quel punto sin dal principio. Aveva già capito tutto, anche le opzioni che stava ancora considerando e su cui non aveva ancora preso una decisione definitiva, e stava solo aspettando che gliele esponesse in una domanda diretta. Certe volte aveva la voglia impellente di prenderlo a pugni.
Ma non si aspettava nulla di diverso da Sherlock Holmes.
« Non stavo pensando all’adozione » disse, ma lo sguardo poco convinto che il marito gli lanciò raccontava una storia diversa.
John ringhiò di frustrazione. « Va bene, va bene! Ci avevo pensato. Ma era solo... un’ipotesi ».
« Non sarebbe saggio. Né possibile » disse Holmes.
« Lo so » rispose Watson, ma Sherlock continuò.
« Il nostro lavoro è troppo pericoloso. Non possiamo risolvere casi se dobbiamo prenderci cura di un bambino. E non ho intenzione di accettare compromessi, come tu che smetti di assistermi sul campo o altre amenità simili. È un lavoro che facciamo insieme, ed è pericoloso. Ci sarà sempre qualche nemico, qualcuno che progetterà una vendetta, una ritorsione, e non voglio avere altri punti deboli oltre te » disse, velocemente, senza nemmeno respirare.
John avrebbe potuto offendersi ma sapeva, in fondo, che Sherlock lo considerava il suo “punto debole” da un punto di vista positivo, non negativo. Lo diceva senza tatto, ecco tutto.
« Lo so » ripeté.
« Inoltre, non sento assolutamente il bisogno di essere padre. Né ho mai avuto il desiderio di diventarlo. Non desidero maledire una creatura indifesa con la possibilità diventare come me. Di diventare un... » si interruppe.
« “freak”? » concluse John per lui.
« Un antisociale » precisò Sherlock, ma annuì.
« Sai che non lo sei. O almeno, non nel senso patologico del termine ».
« Solo dal tuo punto di vista » ribatté il detective.
« Sono tuo marito. Il mio punto di vista basta e avanza » ironizzò Watson.
Sherlock non riuscì ad evitarsi un sorrisetto che però nascose subito con un colpo di tosse. « Smetti di rabbonirmi » lo rimproverò, ma John sapeva benissimo che era solo una finta per evitare di sorridere come un ragazzino a cui hanno fatto un complimento.
L’ego dei geni.
« Spengo la luce » disse poi John, appoggiando il libro sul comodino. Sherlock annuì, scivolando sotto le coperte, e poco dopo il medico fece sprofondare la stanza nel buio.
Sotto le coperte, si girò verso Sherlock e si avvicinò a lui, abbracciandolo. Passò un braccio intorno alla sua vita sottile e fece aderire il proprio petto alla sua schiena, respirando estasiato l’odore dei suoi capelli ricci. Posò un bacio alla base del suo collo a cui Sherlock rispose prendendogli la mano ed intrecciando le dita con le sue.
Sinistra su sinistra, le due fedi d’oro in contatto l’una con l’altra. Una sensazione che John amava.
« Tu lo vuoi. Lo hai sempre voluto » se ne uscì Sherlock all’improvviso, la voce bassa come se il buio fosse sinonimo di sussurro, di segreto, di silenzio.
Non era una domanda. John annuì con il capo prima di rispondere. « Sì ».
Sì. Aveva sempre voluto diventare padre. O almeno, lo aveva voluto per la maggior parte della sua vita adulta.
Lo aveva voluto pur sapendo che poteva esserlo solo ignorando per sempre il nome sul proprio dito, e non solo perché ovviamente maschile, ma anche perché era un legame già spezzato. Lo aveva voluto in quelle notti in Afghanistan in cui c’era troppo silenzio per essere in guerra e non si riusciva a dormire, impauriti da tutto e da nulla. E ci si sentiva soli (ancora di più).
Lo aveva voluto anche dopo che Sherlock aveva fatto il miracolo – uno dei tanti – di far sì che il loro Legame fosse possibile – nessuno sarebbe mai riuscito a convincerlo che non fosse tutto merito suo.
Lo aveva voluto nell’istante esatto in cui aveva visto Hamish.
« Perché? » gli chiese Sherlock.
John non seppe cosa rispondere. Rimase in silenzio lunghi minuti, la mano di Sherlock nella propria, il profumo dei suo capelli a cullarlo verso il sonno. « Non c’è un perché » rispose infine.
Holmes non fece più domande.
Il discorso terminò lì.
 
 
 
 
Hamish aveva gli occhi blu, gli aveva detto l’infermiera, e un grande appetito. Aveva abbastanza capelli in testa per capire che erano di un castano molto scuro e ricci, sembrava, ma per quello ci sarebbe voluto ancora qualche mese.
John non poteva entrare nella nursery perché, anche se medico, non esercitava più la professione e l’infermiera non poteva fargli vedere il bambino perché non era suo e non era nemmeno un parente. La creatura non aveva alcun famigliare, ma erano le regole dell’ospedale e John non aveva intenzione di rischiare.
Si accontentava di osservarlo dal vetro.
Si era ripromesso di non tornare, quella mattina, ma non aveva potuto evitarlo. Era già il quarto giorno ed il neonato era in perfetta forma, dunque non doveva mancare molto perché venisse affidato ad una qualche struttura e portato via, chissà dove, chissà con chi.
Si sentiva inutile. Il piccolo era sveglio e sgambettava, occhi grandi puntati al soffitto, e muoveva le labbra come un pesce, aprendole e chiudendole. Non piangeva, non adesso, come se fosse incuriosito da ciò che stava vedendo.
John non nascose un sorriso.
Non era suo, questo doveva sempre tenerlo a mente. Si era affezionato alla creatura nel modo più irrazionale possibile, per puro istinto, ed ora si sentiva male al solo pensiero di non poter più stare anche solo in piedi davanti a quel vetro e passare le giornate a guardarlo.
Cosa ti succede, John Watson?
Era nel bel mezzo di un sospiro amaro quando una persona famigliare – molto famigliare – lo affiancò in silenzio. John osservò Sherlock con la coda dell’occhio, la sua espressione seria e concentrata, e solo dopo qualche istante il detective girò il capo incontrando il suo sguardo.
L’occhiata che si scambiarono riempì il silenzio con tutto ciò che non serviva essere detto.
« Lo so » cominciò poi John, tornando con gli occhi ad Hamish: « ma non ce la faccio » si giustificò in un mormorio.
Sherlock, a sua volta, guardò il bambino. Non sembrò avere reazioni di sorta se non per un sopracciglio lievemente inarcato, solo per un istante.
« I neonati non vengono affidati subito all’orfanotrofio, se è possibile evitarlo » disse, lo sguardo fisso al di là del vetro: « fino a qualche decina di anni fa erano molte le famiglie disposte ad adottare neonati, elencate in una lista specifica per questa funzione. Per entrare in quella lista bisognava sottoporsi ad interrogatori e visite dei Servizi Sociali, lasciare che interrogassero gli amici e i parenti, gli ex partners, i datori di lavoro; i possibili genitori dovevano – e devono ancora – sottoporsi a verifiche della loro vita famigliare presente e passata, del loro status sociale, monetario, mentale e fisico. Veniva controllata la fedina penale e ogni possibile traccia di maltrattamento contro minori. Il procedimento poteva durare anche due anni » fece una pausa.
John non scostò lo sguardo dal suo volto e rimase in silenzio, attendendo il continuo del discorso, che non tardò ad arrivare.
« Tuttavia, la maggior parte erano coppie che desideravano conoscere i genitori del neonato, prima di adottarlo. Sapere qualcosa di loro, della loro vita e delle loro abitudini, probabilmente per essere sicuri che il bambino rimanesse in buona salute e non ci fossero possibilità di ritrovarsi per casa un Ribbon o un Bondless. Molte persone credono che questa condizione sia passata geneticamente dai genitori ai figli e, come tutti sanno, fino ai 5 anni non si può sapere » spiegò.
John aggrottò le sopracciglia. Era... crudele. Tutti i bambini avrebbero dovuto essere uguali, ricevere ugualmente amore a discapito di un nome sul proprio dito. Ma lui più di tutti, che aveva vissuto quella situazione in prima persona, sapeva che non era sempre così. Che non era così facile.
Si chiese dove volesse arrivare Sherlock, ma decise di aspettare.
Holmes non lo deluse. « Viene da sé che quando il neonato è solo al mondo, figlio di genitori morti o di cui si sono perse le tracce, la maggior parte delle famiglie perdono interesse nell’adozione. Proprio perché non possono avere informazioni sulla discendenza. Nel caso di Hamish... » Sherlock esitò un momento: « ...il fratello maggiore, Brian, era un BCE. Dunque le probabilità che quel bambino venga effettivamente adottato sono minime » disse.
John strinse i denti e aggrottò le sopracciglia. Non voleva saperlo. Per una volta, voleva che Sherlock restasse zitto e gli lasciasse almeno la speranza. Non voleva passare i prossimi mesi sapendo che quel bambino avrebbe passato il resto dei suoi giorni in un orfanotrofio per diventare... cosa? Non lo sapeva nemmeno lui.
Gli sembrava di vedere la sua stessa vita dal punto di vista di suo padre. Era orribile.
« Basta così » mormorò infatti a Sherlock.
Il detective però gli passò un foglio di carta ripiegato in quattro parti. John lo prese e lo aprì, leggendo il contenuto per sommi capi, che rilesse con più attenzione quando si rese meglio conto di cosa fosse.
Arrivò in fondo alla pagina sgranando gli occhi. Era un permesso di affido temporaneo.1
« Sherlock... »
« Non è stato facile » cominciò però il detective: « Mycroft ha dato una mano consistente con alcune sue conoscenze, e gli devo un favore – questa parte la disse a denti stretti – ma alla fine abbiamo ottenuto il permesso di tenere il bambino fino all’anno d’età. Nel frattempo, gli Assistenti Sociali faranno tutti i controlli necessari a capire se siamo o meno in grado di diventare genitori. A mio parere, considerando la possibilità che diventi un BCE e l’implicito volere della madre di dargli un nome in tuo onore, non ci saranno problemi irrisolvibili. Il numero degli orfani è talmente aumentato negli ultimi anni che i Servizi Sociali sembrano più disposti a qualche compromesso » disse.
John continuava a guardarlo con la bocca socchiusa e gli occhi sgranati senza più capire in che direzione stava girando la propria vita.
Era sorpreso, questo era innegabile. Ma allo stesso tempo si sentiva anche felice, impaurito e terribilmente nel panico.
Sherlock aveva detto esattamente quello che gli aveva sentito dire? Aveva davvero pronunciato la parola “genitori”? Aveva davvero dato ad intendere che era d’accordo, che aveva cambiato idea, che era con lui in quell’idea nemmeno del tutto considerata prima di adottare – o provare a farlo – quel fagottino in tutina a pochi metri da loro dietro il vetro della nursery?
Un figlio. Loro figlio.
Un reverenziale terrore gli chiuse la gola.
E se non fossero stati in grado di crescerlo? Se fosse stato davvero troppo pericoloso? Se non fossero stati genitori abbastanza bravi, attenti, adatti? E se i Servizi Sociali avessero deciso che no, loro non erano le persone giuste per fare i genitori? Se gli avessero portato via Hamish dopo qualche mese, dopo essersi affezionati al bambino?
Ma chi voleva prendere in giro, lui era già affezionato al bambino. Con tutto il cuore.
Ed era questa la cosa più spaventosa di tutte.
Insicurezze. Quelle che una coppia normale impiega nove mesi per prepararsi a superare, loro avevano... quanto avevano? Altre quarantotto ore?
« Sherlock... questo.... » balbettò il dottore, prendendo fiato molte volte senza riuscire a dire niente. « Questo... non è come prendere un cane. Non è... Sherlock, ma... come ti è venuto in mente? » domandò, ormai spaventato dalla punta dei piedi a quelle dei capelli.
Non erano pronti. Erano pronti? E lui era pronto?
Sentì la mano di Sherlock chiudersi piano sulla propria e stringerla. Un’ondata di calma non sua lo investì e, pian piano, riportò il suo respiro ad un ritmo costante e normale. Era entrato di nuovo in Risonanza con Sherlock senza rendersene nemmeno conto.
John sospirò profondamente. Strinse a sua volta la mano del detective con la propria.
« Perché, Sherlock? » domandò poi semplicemente, osservando con sguardo gentile il piccolo Hamish  portarsi le mani alla bocca e succhiare le dita.
Sherlock, al suo fianco, piegò la testa di lato in uno sguardo incuriosito puntato sul piccolo. « Non c’è un perché » rispose poi.
John non poté risparmiarsi una risatina.
 
 
 
 

.o0o.

 
 
 
 
Se qualcuno gli avesse detto, tredici anni prima, che Sherlock Holmes un giorno sarebbe diventato padre, probabilmente avrebbe riso talmente tanto e così forte da togliersi il respiro e farsi venire mal di stomaco.
E invece la vita aveva voluto prendere una piega del tutto inaspettata.
Li osservava dal divano del 221B, Lestrade, seduto accanto a Mycroft in quello che era un party solo per pochi intimi organizzato da Molly all’ultimo minuto. John stava seduto in poltrona, il bambino addormentato fra le braccia, mentre Sherlock non si era mai mosso dal bracciolo della stessa poltrona, il braccio attorno alle spalle di John in un gesto che se non era protezione era possessività. E forse era entrambe.
Raggiante. John era raggiante. Stanco, indubbiamente: c’erano lievi segni violacei sotto gli occhi a segnalare che le notti insonni erano già iniziate, ma da quando Greg aveva messo piede in quell’appartamento il medico non aveva mai smesso di sorridere, così come non aveva mai smesso di guardare il frugoletto che aveva in braccio, avvolto in una coperta bianca, come se fosse la cosa più preziosa dell’intero universo.
Ogni tanto sistemava la copertina, piegando e spiegando lo stesso angolo, oppure faceva passare delicatamente il proprio dito indice sotto la manina di Hamish, accarezzandone piano le minuscole dita. Faceva il tutto con la precisione di un chirurgo, con delicatezza così da non svegliarlo, e schiudeva le labbra in dolci sorrisi carichi di tenerezza. Era la visione più... bella, e giusta che Greg avesse mai visto, e John Watson era semplicemente qualcuno che meritava di essere felice.
Sherlock, d’altra parte, non era da meno. Solo che era... beh, Sherlock, dunque per trovare in lui traccia della stessa dolcezza bisognava osservare i dettagli, i piccoli movimenti degli occhi e il linguaggio del corpo, una cosa che risultava stancante per lui e impossibile per molti altri. Probabilmente l’unico che notava totalmente il cambiamento che l’arrivo di Hamish aveva provocato nel consulting detective era Mycroft, che non poteva fare a meno di fissare il fratello con un sopracciglio leggermente inarcato. Il suo compagno era decisamente più facile da leggere, per Greg, ed era osservando lui che si era accorto delle piccole cose che tradivano l’emozione del minore degli Holmes.
Come il braccio intorno alle spalle di John. Ma anche gli sguardi che riservava ad Hamish ogni volta che respirava un po’ più forte o si muoveva nel sonno, ogni volta che John sistemava la coperta o muoveva una mano per fare qualsiasi cosa e, ultimo ma non meno importante, quella luce calda e affettuosa che aveva negli occhi quando vedeva John sorridere a quello che – doveva cominciare a convivere con l’idea – ormai era loro figlio.
« Non l’ho mai visto così » sussurrò Mycroft al suo fianco, accettando con un cenno di ringraziamento la fetta di torta che Molly aveva appena portato dalla cucina. Greg rifiutò la sua con un movimento della mano e poi osservò la donna passarne una anche alla signora Hudson, accomodata sulla poltrona di Sherlock.
« Così come? » chiese Greg, appoggiando una mano sul ginocchio del compagno.
« Così » gli rispose semplicemente Mycroft. « Non c’è una definizione appropriata ».
Greg ridacchiò. « E pensare che fino ad un paio d’anni fa non aveva nemmeno un SIN ».
Anche Mycroft piegò le labbra in un sorrisetto, appoggiandosi alla sua spalla con la propria e staccando l’angolo della fetta di torta con la forchetta.
Suonò il campanello e Molly si offrì di andare ad aprire prima che mrs. Hudson si alzasse. Appoggiò il suo piattino e volò giù per le scale, aprendo il portone ed accogliendo l’ospite ritardatario.
Harriett Watson fece la sua entrata nel salotto del 221B con la sciarpa tirata su fino al naso e tenendo in mano una sportina di carta rigida. Non si tolse nemmeno totalmente il cappotto prima di fare il giro della poltrona dov’era appostata la famiglia Watson-Holmes, guardando il fratello con un sorriso che andava man mano allargandosi.
« Oh mio Dio, Johnny, guardati! » esclamò, moderando il tono i voce per non svegliare il piccolo.
« Elegantemente in ritardo, Harry? » rispose il fratello minore scherzosamente, allargando il sorriso nel vedere la sorella maggiore. Greg sapeva che non andavano d’accordo – il più delle volte a causa dei problemi di alcool di lei -  ma a quanto pare l’arrivo del piccolo di casa aveva appianato molti rancori (almeno per un po’). Oppure, semplicemente, John era troppo felice per farsi demoralizzare dai problemi di sempre.
Lei alzò il mento come per vantarsi e John ridacchiò sommessamente.
« Ciao Sherlock » salutò poi Harry: « l’altro nuovo papà. Emozionato? » domandò quella che era ormai in tutto e per tutto la cognata.
« Harriett » salutò cordialmente il detective, adocchiandola mentre si toglieva cappotto e sciarpa e li passava a Molly con un sorriso: « moderatamente » rispose, un sorrisetto a piegargli le labbra.
« Non esaltarti troppo, mi raccomando » ironizzò lei, facendo sorridere John. Sherlock si limitò a roteare gli occhi alle risatine divertite di tutti gli altri.
« John, ti ho portato una cosa » disse poi la donna, affondando una mano nella sportina di carta rigida e spiegando una copertina gialla che tre api stilizzate e di diverse dimensioni ricamate a mano nell’angolo in basso a destra. Tutto il perimetro era poi ricoperto da un filo di pizzo di circa un centimetro, rammendato in qualche punto, ma tuttavia ancora in buono stato.
« Ta da! » cantilenò Harry.
John allargò gli occhi. « Oh, no » negò il fratello, scuotendo il capo. « Si può sapere da dove l’hai tirata fuori? ».
« Era in uno dei bauli di mamma » rispose Harriet, scuotendo la copertina a destra e a sinistra e facendo ondeggiare il tessuto: « Hamish è un Watson adesso, e deve rispettare le tradizioni dei Watson. Copertina di famiglia compresa » disse, decisa.
« È orribile » obiettò John, ma con tono più scherzoso che altro.
« È tradizione » ribatté Harry: « viene tramandata nella nostra famiglia di generazione in generazione ».
« L’ha ricamata la nonna quando sei nata tu, Harry ».
« E allora? La nostra generazione è quella di partenza » corse subito ai ripari la donna, allungando la coperta a John, che la guardò ridacchiando ma con un sopracciglio pericolosamente inarcato. « Dio, l’ho sempre odiata » commentò poi.
« Poco importa. Hamish adesso è un Watson, è di famiglia, quindi si becca la copertina dei Watson come tutti noi » commentò lei.
« A me non dispiace » intervenne Sherlock nel discorso, prendendo la coperta dalle mani di Harriett e osservando meglio il ricamo. Il sorriso storto che aveva dipinto sulle labbra stava però ad indicare che voleva solo stuzzicare John.
« Sei una carogna... » gli sussurrò piano il marito, appoggiandosi al suo braccio con la testa. Sherlock strinse di più la presa sulle sue spalle.
La conversazione andò avanti per una buona mezz’ora, Harry che aveva preso posto vicino a Lestrade e la signora Hudson che intratteneva tutti con il suo racconto del giorno in cui l’avevano presa in ostaggio al 221B (a quanto pare andava molto fiera di aver nascosto il cellulare di Irene Adler agli americani). Fu verso le dieci di sera che il piccolo Hamish finalmente si svegliò e, guardando John con i suo grandi occhi blu, cominciò a muoversi e ad emettere piccoli lamenti.
Sherlock, dopo aver dato una veloce occhiata al figlio, guardò l’orologio. « Ha fame » disse.
« È probabile » rispose John.
« Faccio io ».
« Mh... » annuì il medico, sorridendo divertito all’espressione sempre più angustiata di Hamish, che preannunciava almeno qualche minuto di pianto.
Sherlock si alzò e si diresse in cucina e così fece anche Greg, che seguì il detective. Notò con piacere che le provette e le strumentazioni chimiche erano calate notevolmente e che venivano riposte in una mensola a parte quando non venivano usate. L’intera stanza era più pulita, più in ordine, e l’Ispettore suppose che fosse merito (o colpa?) del nuovo inquilino del 221B.
Si appoggiò con le natiche al lavello mentre Sherlock tirava fuori dallo scaffale il latte in polvere e si piegava per prendere un biberon vuoto dalla lavastoviglie. Holmes si muoveva perfettamente a suo agio, con estrema tranquillità, come se avesse preparato il latte ai neonati per tutta la vita. O forse, pensò Greg, lui era una di quelle persone a cui basta fare una cosa una volta per imparare a farla ottimamente.
« Allora, come ti è venuto in mente? » domandò a Sherlock, mettendo le mani nelle tasche e guardandolo mentre versava l’acqua nel biberon e la scaldava nel microonde per pochi istanti. « Non intendo dire che sia uno sbaglio, sia chiaro. Amo già mio nipote. Sono solo curioso di sapere cosa ti è passato per la mente » disse.
Sherlock tolse il biberon dal microonde con l’acqua perfettamente tiepida e vi versò dentro un paio di misurini di latte in polvere. « John ci teneva » rispose semplicemente, chiudendo il biberon e agitandolo energicamente.
Dal salotto, il pianto di Hamish finalmente esplose, accompagnato dalle voci delle donne che ridacchiavano o tentavano di calmarlo con la voce.
Sherlock scosse il capo, mettendo di nuovo il biberon nel microonde e aumentando di poco il tempo d’accensione.
« Non prendermi per stupido, Sherlock ».
« Non lo faccio » ribatté il detective, guardandolo negli occhi. « È veramente come ho detto. Quando John guarda quel bambino... non riesco a spiegarlo. La sua espressione cambia. È felice. E io voglio che lo sia » disse.
Lestrade aggrottò le sopracciglia. « E tu? » domandò.
« Io cosa? ».
« Questo è un impegno, Sherlock. Non è come prendere... chessò, un cane. È un bambino. Cambierà tutto il resto della tua vita. Non deve essere un favore che fai a John perché ti ha fatto gli occhi dolci e ti ha chiesto di comprargli le caramelle ».
Sherlock gli scoccò un’occhiataccia. « Non parlare in quel modo di mio marito » minacciò.
Greg chiuse la bocca con uno scatto. « Scusa... » disse, ormai abituato alla possessività di Sherlock nei confronti di John e tutto ciò che lo riguardava. Cercò parole più appropriate, prima di continuare: « voglio solo sapere qual è il tuo punto di vista e cosa ne pensi tu. Tutto qui ».
Sherlock attese che il microonde suonasse prima di rispondere, girandogli le spalle e avvitando la tettarella al biberon. « Per me va bene così. Non credere che non sappia la portata delle mie decisioni. Non mi importa cosa ne pensate tu o mio fratello, io e John siamo consapevoli di quello che stiamo facendo » disse, facendo cadere qualche goccia di latte sul polso per saggiarne la temperatura.
Annuì convinto. Probabilmente aveva imparato a memoria persino i tempi da dare al microonde per scaldare l’acqua alla temperatura ideale. Anzi, non aveva dubbi che fosse così.
Ma Greg aveva un’altra domanda, prima di tornare in salotto. Una domanda che non aveva avuto il coraggio di fare davanti ad un John così raggiante e fuori di sé dalla contentezza.
« Cosa succederà se allo scadere dell’anno decideranno di non affidarvelo? » domandò Lestrade.
Sherlock si bloccò per un istante, lo sguardo fisso su un punto qualsiasi del muro sopra il lavello. « Lo affronteremo quando sarà il momento » rispose, oltrepassandolo e tornando in salotto.
Chissà perché, Greg non ci vedeva nulla di buono.
 
Gli ospiti se ne erano andati da un pezzo. Tutto sommato era stata una serata divertente, Hamish aveva dormito per la maggior parte del tempo e Molly aveva voluto per forza fare delle foto alla nuova famiglia mentre il piccolo prendeva il biberon. Sherlock era persino riuscito a sorridere, in una di esse, e John si era ripromesso di incorniciarla e di metterla sopra la mensola del camino.
« Andiamo a nanna, campione » disse al bambino addormentato sulla sua spalla, portandolo in camera. Lo adagiò delicatamente nella culla e lo coprì con la copertina di famiglia, sorridendo alla vista del piccolo torace che si alzava ed abbassava seguendo il respiro.
Sherlock, appena tornato dalla doccia e già in pigiama, gli arrivò dietro a passi felpati e lo abbracciò. John, allargando il sorriso, si appoggiò con la schiena al suo petto e con la fronte alla spalla.
« Guardalo, Sherlock. Non ti sembra una cosa bellissima? » domandò senza distogliere lo sguardo dal piccolo frugoletto addormentato nella culla.
Anche Holmes lo guardò. « Mi sembra fragile... » mormorò poi: « bisognoso di cure ed attenzioni ».
« Lo è. Lo sarà per un po’. Forse per sempre » gli rispose il medico.
Sherlock aggrottò le sopracciglia in un cipiglio pensieroso. « È strano pensare che siamo stati tutti così piccoli, in passato » disse.
John annuì, in silenzio.
Anche Sherlock si ammutolì.
Fu John ad interrompere quel momento, la voce bassa per non svegliare il piccolo. « Cosa voleva Lestrade? » domandò.
Sherlock sbuffò. « Espormi le sue riserve sulla mia capacità genitoriale. Me lo aspettavo, prima o poi ».
« Secondo me sarai un buon padre. Devi solo... “prenderci la mano” » disse il medico, scherzando appena al termine utilizzato: « non viene automatico a tutti ».
Sherlock lo strinse di più a sé. « Come fai a saperlo? » domandò.
« Mh... lo so e basta » rispose il medico, lasciandogli un bacio dolce nell’angolo delle labbra. « Ora dormiamo, fra un paio d’ore si sveglierà di nuovo » disse, prendendolo per mano e tirandolo verso il letto.
 
 
 
 

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Il taxi si fermò di fronte ad una delle villette bianche di Bloomsbury, vialetto curato e giardinetto verde, al numero civico 47. La strada era stata interrotta da entrambe le direzioni dai cordoni rossi e bianchi della polizia e almeno cinque pattuglie erano parcheggiate in modo che nessuno riuscisse fisicamente a passare se non a piedi.
Sherlock pagò il tassista e scese, camminando velocemente oltre l’agente di guardia. Quello, riconoscendolo, non disse niente e lo lasciò passare. Fortunatamente Donovan sembrava non esserci, quel giorno.
Si avvicinò in poche falcate a Lestrade, fermo davanti al portone aperto.
« Cos’è successo? ».
« Buongiorno anche a te » ironizzò l’Ispettore, facendogli cenno con il capo di seguirlo all’interno della casa. « Famiglia di tre persone: padre, madre, figlia. Si pensa ad un omicidio-suicidio ma voglio sentire il tuo parere prima di chiudere il caso » disse.
Sherlock sogghignò. « Naturale ».
« Non montarti la testa » lo rimbeccò Lestrade, guidando il detective su per le scale: « adesso che sei ufficialmente il consulente di Scotland Yard è normale che tu venga chiamato sulla scena del crimine » disse.
Ma Sherlock non cancellò il suo sorrisetto soddisfatto. « Continua a ripetertelo » gli rispose prima di arrivare alla stanza da letto padronale, dove una parte del crimine si era svolto.
La scena del crimine non era nemmeno lontanamente raccapricciante. Anzi, sembrava persino troppo... pulita.
I corpi dei coniugi erano stesi sul letto, lei sotto le coperte, lui sopra e al suo fianco. Lui aveva ancora in mano la pistola – CZ SP01 “Shadow” 9x21mm – impugnata con la destra. Riverso supino, il foro d’entrata era sulla tempia destra. Lei era stata uccisa da un corpo contundente, forse il calcio della pistola, sulla tempia sinistra (niente sangue). Anche il blood pattern del sangue sul muro combaciava con un suicidio, ma Sherlock non ne era del tutto sicuro. Doveva esserci un errore.
E infatti lo trovò.
« Guarda il grilletto » disse a Lestrade, indicando la mano dell’uomo racchiusa sul calcio della pistola. « Il dito non è sul grilletto. Quale suicida muore sparandosi un colpo alla testa senza avere il dito sul grilletto? Se si fosse ucciso, la falange sarebbe rimasta piegata, invece è completamente stesa all’esterno dell’arma. No, la pistola gli è stata messa in mano dall’assassino dopo aver ucciso la donna » disse, indicando la bionda consorte stesa sul letto come se dormisse, ma priva di vita. « Si è anche preso la briga di rimetterla sul letto e coprirla. La donna non è morta qui. Ci sono tracce di trascinamento sulla moquette ai piedi della sua parte del letto e ha una fibra rossa abbastanza grossa incastrata sotto l’unghia rotta dell’indice sinistro. Probabilmente era mancina, per quello ha fatto più forza con la mano sinistra, fino a spezzare l’unghia su quello che, a giudicare dalla fibra, sembrerebbe un tappeto. L’uomo è stato legato con qualcosa di morbido – suppongo calze di nylon – dato che i seghi rossi sui polsi sono solo vagamente visibili. La bambina? » domandò poi, interrompendosi a metà della spiegazione.
Lestrade indicò la porta della camera con un cenno del capo e lo accompagnò all’ultima camera in fondo al corridoio.
La bambina era stesa supina sul tappeto rosso in mezzo alla cameretta dalle pareti dipinte di rosa. Aveva le mani incrociate sul petto, i piedi inutili ed era coperta dal tulle bianco strappato dal baldacchino del piccolo letto sulla sinistra – c’erano residui della stessa stoffa rimasti impigliati nei bordi in alto – dalla testa ai piedi; il tulle stesso sembrava essere stato ben steso ai lati del piccolo corpicino, la camicia da notte sistemata con cura.
Sherlock si avvicinò e si chinò ad osservarla. Il corpo non aveva tracce di sangue, ma la piccola aveva un ematoma profondo nascosto dai capelli fra la tempia sinistra e l’orecchio. Come la madre, era stata uccisa dal calcio della pistola.
Tutto combaciava.
« Lo conoscevano » disse poi, la voce ferma ma il volto teso in un senso di insicurezza che non riusciva bene ad identificare: « non hanno reagito, o almeno non subito. I segni di trascinamento del corpo della madre partono da questa camera, senza contare che il delitto è avvenuto questa mattina presto al massimo, dunque nessun ladro o malintenzionato » disse.
« Infatti non è stato rubato niente » asserì Lestrade.
Sherlock annuì. « È un uomo, e oserei dire anche in forma. Non ci vuole troppa forza per sfondare al primo colpo il cranio di un bambino, ma per la madre è diverso, senza contare che ha sopraffatto e legato il padre. Ha perso tempo a sistemare la bambina sotto il tulle e la madre a letto sotto le coperte, tutte cose non strettamente necessarie al delitto... questo triplice omicidio ha un movente profondo. L’assalitore provava dei sentimenti per la madre e per la bambina, un qualche tipo di rispetto, mentre non ne aveva nessuno per l’uomo, a cui ha cercato di far attribuire l’omicidio. Non era paura, no... non avrebbe perso tempo a fare tutto questo » indicò il corpo della piccola con un cenno della mano: « al contrario, se ne sarebbe andato subito. Dobbiamo indagare sui conoscenti della famiglia, soprattutto della moglie » disse, guardando Lestrade, che annuì comprensivo.
« Va bene. Seguirai le tue piste come al solito? » domandò poi l’Ispettore.
« Naturalmente » rispose Sherlock, alzandosi dalla sua posizione china e incamminandosi per uscire dalla casa.
Fu passando davanti alla camera adiacente al bagno, quella esattamente di fronte alla stanza matrimoniale dei coniugi, che si fermò. Uno spiraglio di luce entrava dalla porta socchiusa ed illuminava il piede di quello che sembrava un mobile dipinto di bianco.
Con i guanti ancora indosso, spinse l’anta della porta fino ad aprirla e, facendo scivolare le dita a lato dello stipite, trovò l’interruttore della luce.
Era una nursery. Il piede bianco che aveva visto era quello di un lettino di legno con le sponde, accantonato nell’angolo della stanza e pieno di cuscini e peluches. Al centro, invece, una culla coperta con lo stesso tipo di tulle della camera della bambina spiccava su pareti dipinte di un giallo tenue, con un enorme fiocco azzurro appeso di fianco a due cornici ancora vuote.
La pessima sensazione che aveva avuto in camera della piccola vittima aumentò, chiudendogli lo stomaco in una morsa dolorosa. Deglutì a fatica, aggrottando le sopracciglia di fronte a quel fastidio e alla nursery che doveva ancora essere completata (la parte alta della finestra non era completamente dipinta, così come il soffitto, da cui la lampadina pendeva nuda da un filo, mancando di un lampadario).
« Lei era incinta » disse solamente all’Ispettore prima di spegnere di nuovo la luce: « è da tenere in considerazione come dato importante » aggiunse, probabilmente annotandolo solo a se stesso, scendendo le scale velocemente e senza salutare nessuno.
Arrivato in strada, camminò fino oltre il blocco della polizia e fermò un taxi. Quando fu dentro, e dopo aver dato l’indirizzo del Barts al tassista, Sherlock tirò fuori il cellulare e seguì per la prima volta il suo istinto.
Ne aveva bisogno. Aveva bisogno di sapere.
 
Tu ed Hamish state bene? – SH
 
La risposta di John non tardò ad arrivare.
 
Sì, certo. Perché? È successo qualcosa? J
 
Sherlock deglutì, chiudendo gli occhi e prendendo un profondo respiro. Non sapeva spiegarsi perché aveva il bisogno di sapere se stavano bene, ma era necessario al suo cervello per concentrarsi meglio sul caso.
 
Caso. È coinvolto un minore e un bambino che non nascerà più. – SH
 
Questa volta, la risposta di John tardò un po’. Il taxi era quasi sulla strada dell’ospedale quando il cellulare vibrò.
Non era un SMS, ma un MMS.
Sherlock aprì l’immagine... e sorrise.
John aveva in braccio un Hamish profondamente addormentato e si vedeva che era un auto-scatto, fatto allungando il braccio sopra di sé per prendere entrambi.
Accarezzò lo schermo con il pollice, passandolo sulle parole che accompagnavano la foto.
 
Ti vogliamo bene. J
 
 
 
 

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Hamish dormiva quando Sherlock tornò a casa, quella sera. Poteva capirlo dal silenzio che regnava nell’appartamento.
John non accendeva quasi mai la televisione quando il bambino stava dormendo, temendo – inutilmente – di svegliarlo.
Probabilmente, una volta saliti tutti i gradini e toltosi il cappotto per scrollarlo dalla neve, avrebbe trovato John sul divano o sulla poltrona a leggere, oppure in cucina a sorseggiare un tè. Era diventato un po’ più sedentario da quando non lo seguiva più in tutti i casi – faceva parte degli accordi presi per Hamish, almeno finché non sarebbe stato un po’ più grande – ma a Sherlock non dispiaceva. Tornava a casa ogni sera e John lo aspettava con un sorriso e, anche se non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce, questa consapevolezza lo faceva rientrare al 221B più volentieri. Era raro che Sherlock passasse fuori la notte a risolvere casi, ora.
Tuttavia, quando aprì la porta dell’appartamento e si diresse in salotto, l’espressione con cui John lo accolse era tesa e cupa.
Sherlock aggrottò subito le sopracciglia, osservandolo con attenzione per cercare di dedurre cosa fosse successo. Non sembrava diverso dal solito e non doveva essere accaduto niente di grave a lui o al bambino, perché Sherlock non aveva avuto alcuna reazione di Risonanza. Ormai non era più solo un fatto di essere fisicamente feriti o in pericolo, il loro Legame era talmente forte che bastavano gravi preoccupazioni o livelli alti di stress a far scattare la Risonanza.
C’era solo una cosa che avrebbe potuto preoccupare John. Una cosa che lui avrebbe affrontato personalmente il giorno dopo, su preciso appuntamento della signorina Mills.
I Servizi Sociali. John aveva il primo colloquio con loro, quel pomeriggio. Sherlock aveva lavorato al caso ancora aperto della famiglia di Bloomsbury e se ne era completamente dimenticato.
Si avvicinò al divano a passo veloce, togliendosi cappotto e sciarpa e buttandoli distrattamente sulla propria poltrona. Si sedette accanto a John che, non appena lo ebbe vicino, si voltò verso di lui e parve perdere un po’ della sua falsa tranquillità.
« Cos’hanno detto? » disse Sherlock, il tono piatto ma l’interesse alto.
John strinse i denti e i muscoli della mascella si tesero. « Non lo so... hanno insistito molto sul mio passato nell’esercito, sul congedo e sulle accuse mosse contro di me all’epoca della Caduta e dopo il caso Moran. Io... ho fatto del mio meglio Sherlock, ma... » balbettò, deglutendo rumorosamente.
Si stava agitando. Non lo sentiva ma lo vedeva. John non era il tipo di persona da perdere facilmente il controllo di sé, aveva dalla sua parte il ferreo autocontrollo del soldato che aveva dovuto imparare nel corso degli anni nell’esercito, ma a volte non poteva fare a meno di dipingersi nella mente lo scenario peggiore (e questo, sapeva con amarezza Sherlock, era un’eredità dei tre anni in cui aveva finto di essere morto).
Sherlock sospirò profondamente. « John, dammi la mano » disse semplicemente.
Watson, riagganciando lo sguardo al suo, annuì e gli porse la mano sinistra.
Sherlock la prese fra le sue come se stesse trattando un composto chimico particolarmente instabile e, con dita lunghe, gli sfilò la fede dall’anulare.
Accarezzò il proprio nome con il pollice prima di sollevare la mano e portarselo alle labbra, baciandolo piano. Le dimostrazioni d’affetto non erano solite per lui nemmeno fra le mura di casa, ma riusciva a capire quando a John serviva essere rassicurato, e quello era l’unico modo che conosceva. Non era bravo con le parole, non in quel campo, e di solito era sempre John quello a fare magie con la voce. A lui rimanevano i gesti.
Ma funzionavano ugualmente.
John sospirò, socchiudendo gli occhi. « Va bene, ho capito. Non c’è niente per cui agitarsi » disse.
Sherlock arricciò l’angolo delle labbra. « Sei un ottimo padre, e il bambino sta crescendo più che bene. Non avrebbero motivo per portartelo via » disse.
« Portarcelo, Sherlock. Non è solo mio. È nostro » lo redarguì.
Non c’era ancora abituato, Sherlock. Per quanto la presenza del piccolo Hamish gli facesse piacere, e per quanto ci tenesse, ancora non si sentiva padre, e non riteneva di essere tale. Non sapeva cos’era in realtà, una sensazione alla bocca dello stomaco più indefinibile di un miraggio, ma sapeva che gli impediva di considerare quel bambino come suo. E non sapeva perché.
Ma voleva bene a John, amava John, dunque annuì. « Portarcelo » si corresse a voce bassa.
John sorrise.
 
 
 
 

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Hamish aveva riso.
Erano tutti in cucina, il bambino seduto sul seggiolone e Sherlock al tavolo che mordicchiava una fetta di pane tostato mentre leggeva il giornale, e Hamish aveva riso.
E ripeté la risata.
Il medico si girò di scatto da davanti al fornello, l’acqua per il tè e per il biberon del piccolo che si stava pian piano riscaldando. Fissò sbalordito prima il bambino poi Sherlock, che a sua volta aveva alzato lo sguardo dal giornale e lo fissava sconcertato da dietro le lenti degli occhiali da lettura.
Entrambi poi, senza una parola, si voltarono a guardare Hamish.
Il bambino sorrideva e fissava Sherlock, quasi come stesse aspettando che facesse qualcosa. Rispose allo sguardo del detective muovendo le gambe e le braccia, agitandosi sul seggiolone ed emettendo piccoli versetti a labbra socchiuse. Lo guardava fisso, senza distogliere gli occhi, leggermente piegato in avanti.
Il silenzio regnò in cucina per alcuni istanti. Poi John prese parola.
« Hai fatto qualcosa che gli è piaciuto? » domandò a Holmes, che non smise di guardare Hamish nel rispondergli.
« Stavo leggendo il giornale. Cosa vuoi che abbia fatto a parte leggere il giornale? » chiese retorico.
« Non lo so » rispose il medico: « magari hai fatto qualcosa soprapensiero e ad Hamish è piaciuto. Prova a pensarci. È la prima volta che ride così forte » disse.
Sherlock gli lanciò un’occhiata da sopra la montatura degli occhiali. « Stai cercando di farlo ridere di nuovo? » domandò.
Ma John gli rispose con uno dei suoi sorrisi, e Sherlock non ebbe bisogno di sentire la risposta.
« Beh, mi dispiace ma non ho la più pallida idea di cosa possa aver fatto per farlo ridere » disse, tornando al quotidiano e spingendosi meglio gli occhiali sul naso con l’aiuto del dito medio della mano destra.
Hamish rise di gusto.
« Ah! » John esclamò: « fallo ancora! ».
Sherlock ripeté il gesto, anche se ormai gli occhiali erano completamente inforcati, e il piccolo si dimenò sul seggiolone in una risata sentita.
Anche John rise mentre il sopracciglio di Sherlock si sollevava di sua spontanea volontà.
« Sul serio...? » mormorò sbigottito il detective, spostando distrattamente il quotidiano quando John appoggiò sul tavolo le tazze e la teiera. Andò poi da Hamish, sempre ridacchiando, e guardò con allegria il bambino accettare il biberon, che ormai riusciva persino ad afferrare con le mani (ma non tenerlo, era ancora troppo piccolo per rinunciare all’aiuto di John), e cominciare a bere il latte.
« Diventerà intelligente come suo padre » disse Watson, e Sherlock non ebbe cuore di dirgli che la creatura non portava nessuno dei loro codici genetici, non essendo biologicamente figlio loro.
Quando John aveva quell’espressione felice, per Sherlock era difficile negargli qualsiasi cosa.
 
 
 
 
Il trillo acuto del pianto di Hamish spezzò la notte del 221B come se il cielo stesso si fosse appena crepato.
Riuniti in salotto, in pigiama e vestaglia, i due genitori e la padrona di casa fissarono tristi e un po’ esasperati il bambino piangere inconsolabile fra le braccia di John, agitandosi e muovendo le gambe, con un paio di grosse lacrime che gli rotolavano giù dalle guance paffute. La pelle del volto era arrossata e ormai la sua voce era arrochita dall’intera notte di pianto cominciata alle sei del pomeriggio e continuata initerrottamente, con poche pause di qualche decina di minuti.
« Non possiamo dargli qualcosa? » chiese per l’ennesima volta Sherlock, che camminava su e giù per la stanza senza trovare pace.
« No, Sherlock, per l’ennesima volta: no » rispose John, al limite della sua sovrumana pazienza, in piedi accanto alla porta della camera da letto con Hamish in braccio: « ha poco più di cinque mesi e la febbre non è abbastanza alta. Deve calare da sola. Non voglio dargli dei farmaci quand’è così piccolo » disse: « probabilmente è solo un po’ di raffreddore. Ha fatto freddo questa settimana » disse.
« Povero piccolo... » intervenne mrs. Hudson: « forse ha mal di pancia... » ipotizzò, seduta sulla poltrona di John a guardare il medico mentre cercava di consolare Hamish, sperando che dormisse un po’.
« Non credo, signora Hudson. È solo la febbre » le rispose John, accarezzando piano la schiena del bambino.
John aveva due occhiaie pronunciate sotto gli occhi, segni evidenti della sua spossatezza. Dopotutto era lui a tenere sempre il piccolo mentre Sherlock usciva per seguire i suoi casi, e nonostante fosse stato proprio lui ad offrirsi, Holmes poteva solo immaginare quanto fosse impegnativo. In percentuale, era minore il tempo che lui passava con Hamish, rispetto a quanto facesse John.
Con un lungo sospiro si fermò davanti alla finestra del salotto, prendendo fra le mani la custodia del violino. « John, siediti » disse poi, indicando distrattamente la propria poltrona.
John lo guardò accigliato. « Cosa vuoi fare? ».
« Ho letto che a quest’età i bambini sono molto attratti dai suoni » disse: « potrebbe funzionare ». Tirò fuori il violino dalla custodia con cura, recuperando anche l’archetto, e se lo appoggiò sotto al mento pizzicando piano le corde.
John annuì, anche se poco convinto, sedendosi dove Sherlock gli aveva indicato. Si sistemò meglio Hamish fra le braccia, cullandolo, asciugandogli con il pollice le lacrime che bagnavano il suo piccolo volto accaldato dalla febbre.
Poi, Sherlock cominciò a suonare.
Non fu difficile riconoscere la Ninna Nanna di Brahms, un testo ben conosciuto anche da chi non si intendeva di musica classica, in quanto comunemente riconosciuta come la ninna nanna standard dei bambini. Tutte le madri avevano canticchiato a labbra strette quel pezzo ai loro pargoli, negli ultimi cento anni, e addirittura creato sopra quelle note ritornelli di parole in rima da raccontare ai piccoli prima di dormire. John non l’aveva mai sentita suonata dal vivo, ma il violino di Sherlock era un buon modo per ascoltarla.
Quasi non si accorse che Hamish aveva smesso di piangere. Ora il piccolo lo guardava con occhi grandi e blu, le ciglia ancora coperte di lacrime, ma sembrava essere calmo anche se sveglio.
John gli sorrise. Prese a cullarlo piano, seguendo il ritmo del suono del violino e, lentamente, gli occhietti gonfi del bambino si chiusero e cadde in un sonno lieve ma sempre benvenuto.
John voltò il capo verso Sherlock, che lo guardava con la coda dell’occhio da sopra lo strumento. Il detective piegò le labbra nel suo solito sorrisetto da “te lo avevo detto” e John annuì piano, ammettendo la sconfitta.
Non si mosse dalla poltrona per non rischiare di svegliare Hamish. Sherlock continuò a suonare.
 
 
 
 

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John sentì vagamente il cigolio del settimo gradino, poi la porta dell’appartamento aprirsi.
Nel dormiveglia, sorrise. Sherlock aveva detto che sarebbe stato fuori tutta la notte per aiutare Lestrade a prendere il colpevole di quella strage famigliare di pochi mesi prima – un caso che lo stesso Holmes si era legato al dito – ma non credeva che potesse tornare a casa prima delle dieci del mattino.
Socchiuse un occhio, assonnato e vigile solo per metà. A giudicare dalla luce azzurrognola che illuminava la camera era a malapena l’alba. La sveglia sul comodino, infatti, non lo contraddisse: segnava pochi minuti oltre le 5 del mattino.
Rilassato, richiuse gli occhi e si sistemò meglio sotto le lenzuola, pronto a tornare nel suo bozzolo di sonno e calore. Era decisamente presto, Hamish non si sarebbe svegliato prima delle otto, dunque poteva godersi ancora un paio d’ore di riposo e relax.
Sentì i passi in salotto, poi la porta della camera aprirsi. Ancora passi sulla moquette della stanza e quando il materasso si abbassò sotto il peso di qualcuno che vi si era seduto sopra, John sorrise appena.
Qualcosa gli diceva che non avrebbe dormito. Di solito, quando tornava a casa dopo aver passato la notte in bianco, per non disturbare loro due Sherlock si metteva sul divano. A meno che non avesse in mente... altro.
Il sorriso si allargò istintivamente. « Hai risolto il caso? » sussurrò con voce mezza assonnata, senza nemmeno aprire gli occhi.
« Spero di no ».
Quella non era la voce di Sherlock Holmes.
Watson spalancò gli occhi di scatto, il cuore subito in tachicardia, ma non fece nemmeno in tempo a girarsi che l’intruso, un uomo sulla quarantina con i capelli scuri e le pupille dilatate da qualcosa che sembrava un misto di adrenalina e droga, si mise a cavalcioni su di lui e lo bloccò sfruttando le coperte tese del letto. John non poteva minimamente muoversi nonostante stesse facendo di tutto per alzarsi e sbalzarlo a lato, ma quello lo aveva bloccato fin troppo bene e faceva ciondolare davanti al suo volto un coltello dalla lama seghettata che era orrendamente uguale a quello che avevano in cucina e che usavano per tagliare il pane.
John fece per urlare ma l’intruso gli ficcò una mano sulla bocca, chiudendogli le labbra con forza. Tentò di sollevare le braccia per liberarsi ma la coperta bloccava anche quelle, rendendogli completamente inutile tutto l’addestramento di combattimento corpo-a-corpo ricevuto durante gli anni di leva.
Respirando forte dal naso, in preda sia alla rabbia che al panico dato dal brusco risveglio, il soldato puntò gli occhi su quelli dell’assalitore e smise di dimenarsi.
Pensa, si disse. Devi pensare. Pensa, John, pensa!
« Bravo soldatino » ironizzò quello, divertendosi ancora a far ciondolare il coltello davanti al suo volto. John non riusciva a riconoscere completamente i tratti dell’uomo a causa della poca luce della camera, ma non gli sembrava di riconoscere il timbro della voce dunque non doveva essere nessuno di sua conoscenza. O almeno credeva. Era troppo agitato e in preda al panico per fare ragionamenti coerenti.
« John Watson. L’Anima Gemella di Sherlock Holmes » disse quello con una risatina a denti stretti: « siete diventati famosi, per il vostro Legame. Ho letto parecchie cose su di voi da quando mi sono interessato a tuo marito. È vero che all’inizio eravate un Bondless e un Ribbon? Sembra strano persino a pensarlo » disse.
Aveva lo stesso tono che in passato aveva usato Moriarty per minacciarlo. La voce canzonatoria di una follia scoppiata tutta in una volta. Gli parlava come un pazzo e John cominciava davvero a temere per la propria vita e per quella di Hamish.
Hamish.
Il pensiero del bambino, tranquillamente addormentato nel suo lettino dal lato opposto della stanza, gli attraversò il cervello come una scossa elettrica. Era quasi sicuro che l’uomo non l’avesse toccato, che non se ne fosse nemmeno accorto, forse troppo concentrato su di lui per notare il lettino accanto al comò.
Fece forza su se stesso per non scostare lo sguardo da quello dell’aggressore, servendogli così Hamish su di un piatto d’argento. Avrebbe combattuto con le unghie e con i denti, se fosse stato necessario ad impedirgli di sfiorarlo anche solo con un dito.
Avrebbe voluto chiedergli cosa voleva da loro ma la mano dell’uomo premeva con troppa forza sulla sua bocca, impedendogli di muovere le labbra e la mascella e tenendogli forzatamente il volto piegato verso il basso. Cercò di mugugnare qualcosa in modo che lo lasciasse almeno palare ma quello non allentò la presa, limitandosi a fissarlo con un sorrisetto strafottente e allucinato.
« Vorresti chiedermi cosa voglio? » disse quello, impugnando ora bene il coltello: « Semplice. Holmes ha capito che ho ucciso un paio di persone e mi ha condannato ad una vita d’esilio, in questi ultimi mesi. Sai cosa vuol dire vivere nello scantinato di una casa sfitta? No, non credo... » disse, leccandosi le labbra. Mantenne quel sorriso folle solo per qualche istante, prima che la sua espressione divenisse seria e i suoi occhi assumessero un aspetto più normale, ma freddo ed irremovibile, delirante.
« Io non le ho uccise perché le odiavo » disse poi, come a giustificarsi: « lei era mia figlia. E anche il bambino che portava in grembo. Quell’uomo non aveva niente, niente di lei, il suo cuore lo avevo io, ero io la sua Anima Gemella. Lei ha sposato quell’altro solo per i soldi, ma i bambini, oh... i bambini erano i miei. Non volevo far loro troppo male, così sono stato delicato, delicato... » delirò.
John riuscì a collegare i pezzi. Quello doveva essere il responsabile dell’omicidio di quella famiglia di Bloomsbury a cui aveva lavorato Sherlock mesi prima e il cui caso non era mai stato risolto perché l’omicida, ovvero l’amante della moglie, era sparito. Era il caso che quella notte Sherlock stava tentando di risolvere dopo una segnalazione arrivata a Scotland Yard da un anonimo.
Era lui l’anonimo?
John tentò di divincolarsi ancora ma la presa dell’uomo era salda e le coperte non cedettero minimamente. L’aggressore scosse piano il capo, sfottendolo.
« No, no, no » disse: « ti prometto che sarò delicato anche con te. Il caro detective privato capirà cosa vuol dire perdere la propria Anima Gemella... » disse e, dopo quelle parole, alzò in alto la lama con tutta l’intenzione di affondarla nel suo petto.
John chiuse gli occhi pronto a ricevere il colpo. Ma un piccolo vagito riempì il silenzio proprio in quel momento, seguito da alcuni vocalizzi di sillabe sconnesse.
Hamish si stava svegliando. L’assalitore si voltò verso il lettino.
John ebbe una scarica di puro terrore.
Da qualche parte nella sua coscienza seppe di essere entrato in Risonanza con Sherlock. Poteva sentire una sorpresa e una preoccupazione crescente non sue. Lui era semplicemente inchiodato dalla paura mentre muoveva gli occhi alternativamente dal lettino all’uomo sopra di sé, l’espressione del pazzo che cambiava nel scoprire il lettino e nell’ascoltare i suoni provenienti da esso. Si voltò verso di lui con un sorriso maniaco e pregno di una gioia malata.
« Non mi dire... » mormorò piano: « ...che i signori Watson-Holmes sono diventati anche genitori! ».
John si dimenò di nuovo, questa volta con la forza della disperazione. Quello, forse divertito, gli liberò le labbra per sentire cosa aveva da dire. « Non toccarlo. Non pensarci nemmeno » ringhiò.
« Altrimenti? » chiese quello, canzonatorio.
« Altrimenti tenterò di sfondare il muro con la tua scatola cranica per vedere quale dei due cede prima » sputò con astio Watson.
Quello rise di gusto. « Mi piaci, dottore. Ma non ci sarà nessuno ad impedirmi di prendere la vita di quel bambino quando tu sarai morto » disse, alzando nuovamente il coltello: « ti prometto che morirà in fretta ».
John non la vide nemmeno, la lama calare. La disperazione lo aveva aiutato molte volte in Afghanistan: lo aveva fatto camminare per miglia nel deserto in una ritirata che sembrava più un suicidio, lo aveva fatto correre in mezzo agli spari con le pallottole che gli passavano fischiando vicino alle orecchie, lo aveva fatto resistere quando sembrava che la sua spalla si stesse staccando dal resto del corpo e il mondo si stesse spaccando in due dal dolore.
In quell’occasione, gli fece puntare i piedi sul materasso finché non riuscì a sbilanciare l’assalitore, che cadde a terra lasciandolo libero.
Come un fulmine, John scivolò dalla parte opposta del letto e si mise in piedi fra Hamish e lo squilibrato. Non era armato e non c’era niente, nelle vicinanze, che potesse anche solo somigliare ad un’arma impropria, ma non si sarebbe mosso di lì nemmeno sotto tortura. Se doveva essere lui l’unica barriera fra Hamish e il folle, sarebbe morto il piedi pur di non farlo avvicinare.
L’uomo attaccò brandendo il coltello davanti a sé, luccicante in modo tetro nelle prime luci del mattino. Watson evitò il primo affondo, poi il secondo, facendo un passo indietro per ognuno fino ad urtare il lettino di Hamish con il piede. Il piccolo cominciò a piangere, prima piano poi sempre più forte, ma John doveva evitare il terzo attacco e non aveva più spazio per muoversi.
Decise di tentare.
Quando vide l’uomo affondare la lama si spostò di lato e gli intrappolò il polso con la mano sinistra. Voleva torcergli il braccio per spazzarlo, o lussargli almeno la spalla, o disarmarlo, ma non aveva calcolato la propria spalla, ferita ed invalidante, che si lamentò con il dolore del movimento inconsueto a cui non era più avvezzo e che non gli era più possibile fare da quando il proiettile gli aveva lesionato i muscoli. Gemette di dolore e dovette lasciarlo andare.
L’assalitore ne approfittò. Fece lo sgambetto a Watson, che cadde in terra sbattendo la schiena e la nuca sulla moquette, e per la seconda volta si ritrovò l’uomo addosso; questa volta però John fu più veloce e gli bloccò il polso della mano armata con il braccio buono, mentre l’altro glielo puntellò sulla spalla opposta per impedirgli di avvicinarsi troppo. Ormai era una gara di forza e John non sapeva quanto ancora avrebbe potuto resistere...
Non fu necessario.
Sentì la porta d’ingresso sbattere pochi secondi prima che una serie di passi frettolosi entrassero correndo in camera e, così come se lo era trovato addosso, l’uomo fu strattonato via da lui e sbattuto di poca grazia contro l’armadio. John si alzò in fretta, parandosi istintivamente di nuovo fra il lettino e le altre due figure, e guardò con occhi spalancati e con il fiato grosso Sherlock che sbatteva poco sensibilmente il folle contro l’armadio e lo inchiodava al legno con una mano stretta attorno al collo. Quello lasciò cadere il coltello, probabilmente colto alla sprovvista, e portò entrambe le mani sul braccio teso di Sherlock, boccheggiando per un po’ d’aria.
John lo osservò attentamente. Le dita affusolate di Holmes stringevano la carne della gola dell’altro come se dovessero penetrarla e strappare via le corde vocali; nella luce più intensa di un’alba sempre più prossima poteva vedere le sue iridi azzurre quasi completamente inglobate dalla pupilla, nera e dilatata nell’odio e nell’adrenalina. Quando parlò, lo fece ringhiando.
« Come ti sei permesso di toccare mio marito e mio figlio, feccia? » domandò, ma non era una vera domanda. Piuttosto una minaccia.
Aveva sentito la Risonanza, capì John con il primo briciolo di ragione che riuscì a recuperare. Aveva sentito l’eco della sua paura quando si era reso conto che Hamish era in pericolo ed era corso a casa senza esitare.
Da qualche parte una voce gli diceva di fermarlo, di non lasciare che lo uccidesse, ma non poteva. L’agitazione gli bloccava ancora la voce e l’istinto lo inchiodava a protezione di Hamish, che piangeva disperatamente disturbato dalla confusione. Tentò di pronunciare il nome di Sherlock ma fu inutile, la voce non uscì.
Fortunatamente, quando l’assalitore aveva ormai assunto un colorito verdastro e le sue labbra cominciavano a tendere al blu, Lestrade si fece strada nell’appartamento insieme ad altri due agenti ed impedì a Sherlock di soffocare l’uomo a mani nude. Dovettero però strapparlo via da lui perché Holmes, accecato dalla rabbia, continuava a lanciarglisi contro con veemenza. Greg riuscì a calmarlo solo frapponendosi fisicamente fra lui e il ricercato, bloccando ogni tentativo di Sherlock di superarlo.
John non riusciva nemmeno a sentire cosa Greg stesse dicendo al detective. Sapeva che muoveva le labbra e sentiva la sua voce, ma il suo cervello sembrava non memorizzare le parole. Gli interessava solamente che Sherlock fosse lì ed Hamish fosse salvo. Scostò lo sguardo sull’uomo che lo aveva aggredito mentre veniva ammanettato e trascinato via dalla camera da letto, semi-svenuto e quasi inerte.
Ritornò in sé solamente quando si sentì stringere nell’abbraccio di Sherlock.
« Vi ha fatto del male? » stava dicendo il detective sulla sua spalla: « siete feriti? Se ha torto un solo capello ad Hamish io...! ».
« No... » riuscì finalmente a pronunciare il medico, abbracciando il marito e aggrappandosi con le mani al suo cappotto: « no, no, stiamo bene. Va tutto bene ».
« Mi dispiace... » sussurrò Sherlock, il volto nascosto e le labbra vicine al suo orecchio.
« Non è colpa tua » lo rassicurò John: « prendi Hamish. Io... devo sedermi » disse poi.
Sherlock annuì contro la sua spalla e quando lo lasciò andare, John non poté esimersi dal scivolare piano e sedersi sul pavimento con la schiena appoggiata contro il lettino. Non era più abituato a sbalzi di adrenalina così forti, ma soprattutto non aveva mai provato una paura così in vita sua. Paura di non essere in grado di proteggere il bambino e che sarebbe morto accanto a lui.
Se solo l’aggressore avesse visto prima il lettino... Se solo se ne fosse accorto prima... avrebbe potuto soffocare Hamish nel sonno e lui non se ne sarebbe nemmeno reso conto!
Prese un paio di profondi respiri per evitarsi l’imminente attacco di panico. Si riteneva un uomo in grado di affrontare qualsiasi cosa, dopo l’Afghanistan, ma aveva sopravvalutato la resistenza dei suoi nervi.
Sherlock, una volta preso in braccio Hamish, si sedette al suo fianco. Tenne in braccio il bambino cullandolo piano, cercando di consolarlo, e quello strinse i piccoli pugni sul bordo del cappotto del detective, smettendo pian piano di piangere.
John, riuscendo finalmente a tenere sotto controllo l’ansia, si chinò su Hamish e gli posò un bacio sulla testolina scura piena di capelli fini. Baciò poi anche il collo di Sherlock, poi le sue labbra, più e più volte. « Grazie... » disse fra un bacio e l’altro: « grazie per essere venuto ».
« Sempre, John » gli rispose Sherlock, passandogli il braccio libero intorno alle spalle e stringendolo goffamente a sé. « Sarei perso senza di te ».
 
 
 
 

.o0o.

 
 
 
 
Hamish compì otto mesi senza altre particolari minacce. Anche le visite dei Servizi Sociali, che si concentrarono sulle capacità genitoriali di Sherlock e John e su come stava crescendo il bambino, si conclusero senza problemi o lamentele da parte degli agenti; il che contribuì a far rilassare John, che dopo l’effrazione al 221B aveva temuto di perdere Hamish per direttissima.
Il bambino cresceva bene e sano e il suo sviluppo intellettivo seguiva le normali fasi della crescita. Aveva imparato a gattonare, il che aveva aperto nuovi orizzonti di mobilità e spazi all’interno dell’appartamento, portando i due genitori a togliere dal raggio del piccolo tutti quegli oggetti che potevano essere pericolosi per la sua salute o con cui poteva farsi male. Il che convinse Sherlock a spostare il suo laboratorio chimico al 221C – mrs. Hudson diceva sempre che tanto non l’avrebbe mai affittato, essendo un seminterrato.
Hamish era anche un chiacchierone. Non aveva ancora pronunciato una parola di senso compiuto, nemmeno i basilari “mamma” o “papà” (anche se Sherlock si aspettava solo “papà”, essendo la loro una famiglia omosessuale), ma si divertiva molto a vocalizzare usando sillabe semplici, come “la” e “na”. Sembrava fare interi discorsi a se stesso e la cosa faceva sempre ridere John, soprattutto se si trovava in un’altra stanza e lo sentiva attraverso le camere.
Il rapporto di Sherlock con il piccolo, d’altro canto, aveva avuto un progresso repentino ed improvviso. Sembrava che lì’idea di essere padre si fosse finalmente sedimentata nella mente del Detective, o che finalmente avesse preso il ritmo dell’abitudine di avere un bambino a casa che potesse chiamare “mio figlio”, e durante le pause fra i casi passava molto tempo con Hamish, cercando di insegnargli a parlare o a riconoscere le figure degli animali. John lo aveva avvertito che forse era ancora troppo piccolo, ma il detective non aveva voluto sentire ragioni. Aveva la convinzione che Hamish fosse più intelligente della media e anche se John non riusciva a capire da dove questo pensiero fosse scaturito, non lo contraddisse.
 
 
Erano seduti a tavola una domenica di luglio, John intento ad apparecchiare la tavola mentre Sherlock dava da mangiare ad Hamish piccole cucchiaiate di mela grattugiata. Il bambino sembrava apprezzare e rideva guardando Holmes, che a sua volta non riusciva a trattenere piccoli sorrisetti soddisfatti.
Sherlock non era tipo da trenino, né da aeroplanino, ma al piccolo di casa sembrava non interessare minimamente. Aveva sviluppato una vera e propria passione per Sherlock nell’ultimo periodo e voleva che fosse lui a dargli da mangiare, così come preferiva che fosse John a metterlo a letto. Erano alcune fra le preferenze che Hamish aveva riguardo tutto, dal cibo ai libri ai cuscini del divano, e John le aveva scoperte pian piano, lottando contro pianti e musi lunghi quando grattugiava carote o pere, che ad Hamish non piacevano.
Alzò un istante gli occhi mentre appoggiava sul tavolo le posate per loro e mrs. Hudson, ormai ospite fisso la domenica a pranzo, e sorrise nel vedere Sherlock muovere le labbra mimando quelle di Hamish mentre mangiava l’ennesima cucchiaiata di frutta.
Ridacchiò piano. « Stai facendo le boccacce » disse al marito.
Sherlock fece per ribattere ma non lo fece quando di accorse che non aveva tutti i torti. Chiuse la bocca come se fosse rientrato in possesso di tutto il suo autocontrollo, cambiando argomento mentre porgeva ad Hamish l’ennesima cucchiaiata di mela. « Questo bambino è un pozzo senza fondo. Mi ricorda Mycroft quand’era più piccolo » disse.
John, che nel frattempo stava tirando già i bicchieri da vino dalla credenza, sbuffò. « Non mangia tanto, è che ha appetito. Non certo come suo padre » disse, sottolineando il concetto con la voce.
Sherlock roteò gli occhi. « La digestione mi– ».
« rallenta, lo so » completò John: « ma cerca di dare il buon esempio a nostro figlio, tesoro » disse poi, chinandosi sul tavolo per posargli un bacio sulla guancia.
« Sì, amore » lo sfotté il detective, guadagnandosi in cambio un’occhiataccia.
« A proposito di Mycroft » cominciò poi John guardando attentamente l’etichetta della bottiglia di vino che Angelo aveva mandato loro con le sue congratulazioni quando erano diventati genitori: « quando hanno intenzione di sposarsi qui due? Ormai sono fidanzati da quasi cinque anni... credevo che avrebbero fatto il grande passo addirittura prima di noi ».
« Credo che Mycroft stia aspettando che glielo chieda Lestrade » disse Sherlock, raccogliendo un altro po’ di mela con il cucchiaino di plastica.
Il sopracciglio di John si alzò. « Greg sta aspettando che glielo chieda Mycroft » disse.
I due si guardarono in un lungo istante di silenzio.
« Ma che... ? » lasciò cadere John, incredulo.
« Non mi sorprende che ci abbiano messo nove anni per Legarsi » ribatté Sherlock.
« Pa... pà ».
« Va bene, ma... non ha senso. Voglio dire, sembrano adolescenti alla prima cotta! » continuò John.
« Per quanto riguarda Mycroft non sei tanto lontano dalla verità » precisò Sherlock.
« Mycroft ha quarantadue anni, non è esattamente un adolescente ».
 « Papà! ».
« Arrivo Hamish, un attimo, sto parlando con tuo padre » disse Sherlock soprapensiero, prima rendersi conto di cosa fosse davvero successo e bloccarsi. John sgranò gli occhi, la bocca spalancata nella sorpresa.
Si voltarono entrambi verso Hamish.
Il bambino, seduto sul seggiolone, stava allungando le mani verso il cucchiaio che Sherlock aveva lasciato a mezz’aria, tentando con tutto se stesso di afferrarlo per portaselo alla bocca. Ma, dato che non riusciva a raggiungerlo, aveva, giustamente, chiamato suo padre.
Per la prima volta.
« Papà! » ripeté il bambino: « me... la. Mela! » esclamò, aprendo e chiudendo le manine.
Lo shock ci mise qualche istante ad abbandonarli, tempo che Sherlock utilizzò per avvicinare il cucchiaio ad Hamish in modo che potesse mangiare la sua mela.
« Ha... ha parlato » balbettò poi John.
« Sì » ammise Sherlock.
« Per la prima volta. »
« Così sembrerebbe. »
« Ha detto la sua prima parola! »
« Ne ha dette due. »
« È vero, ha detto anche “mela”! » esultò John.
« È precoce » aggiunse poi Sherlock, esprimendosi in un sorrisetto soddisfatto. « È intelligente, John. Sopra la media. Te lo avevo detto » aggiunse, girandosi verso il marito che, preso dalla felicità, stava già urlando il nome di mrs. Hudson per le scale.
Sherlock non poté esimersi dallo scuotere il capo sorridendo, tornando a guardare il piccolo Hamish nella sua opera di leccarsi le dita per recuperare i pezzi di mela che vi erano rimasti attaccati.
« Più ci penso, e più mi sembra impossibile che tu e John abbiate cambiato così tanto la mia vita » disse, pulendo le labbra ad Hamish con il bavaglino. « Ma non dire a tuo padre che te l’ho detto ».
 
 
 
 

.o0o.

 
 
 
 
Era arrivato il giorno della verità.
Hamish avrebbe compiuto un anno la settimana successiva ma loro non avevano ancora potuto organizzare niente. I Servizi Sociali si erano messi in contatto con loro per informarli che le loro valutazioni erano concluse e avevano fissato un appuntamento per discutere dei risultati del Form-F. 2
In poche parole, gli avrebbero detto se fossero o meno in grado di diventare genitori.
John non aveva dormito, la notte precedente. Non aveva fatto altro che girarsi e rigirarsi nel letto, decidendo che non era giusto precludere a Sherlock delle preziose ore di sonno perché lui era agitato. Si era alzato alle due di notte e si era messo sul divano, leggendo e rileggendo sempre la stessa pagina di un libro qualsiasi senza mai capirla davvero.
Finché anche Sherlock non si era unito a lui.
Non si erano detti nulla. Davvero, non ne avevano mai il bisogno, in momenti simili. Gli aveva tolto il libro dalle mani e si era seduto a cavalcioni su di lui, lasciando con piacere che John infilasse le mani sotto la sua maglietta e saggiasse i muscoli sodi della sua schiena snella.
Avevano fatto l’amore in silenzio, senza fretta, spingendosi lentamente uno dentro l’altro a turno, unendo le loro anime e le loro sensazioni, e passando il resto del tempo a baciarsi e guardarsi, John che accarezzava le labbra di Sherlock con le dita e Sherlock che gli parlava con gli occhi dicendogli che sarebbe andato tutto bene. L’alba era arrivata quasi come se fosse inattesa.
 
L’ufficio della signorina Mills era pulito ed in ordine, le matite sulla scrivania in scala d’altezza e nemmeno un foglio fuori posizione. Aveva due portadocumenti per la posta in entrata e in uscita ben separati, una piantina con un fiore rosso che John non riconobbe e lo schermo del computer era lindo e senza un filo di polvere.
John deglutì, nervoso. Afferrò la mano di Sherlock e la strinse. Lui rispose stringendola a sua volta.
Finalmente la signorina Mill entrò e si sedette di fronte a loro. I capelli rossi erano raccolti in uno chignon ordinato ed indossava un tailleur blu scuro a minigonna. Tutto in quella donna diceva “ordine e precisione” e John cominciò davvero a temere di perdere Hamish e, di conseguenza, ad agitarsi.
Lei appoggiò sulla scrivania una cartella di cartoncino beije, mise sul naso un paio d’occhiali sottili e cominciò a leggerne il contenuto.
« I coniugi Holmes-Watson, presumo » disse.
« Watson-Holmes » corresse però Sherlock, guadagnandosi un’occhiata da parte della donna.
John pregò silenziosamente che smettesse di fare il prezioso sull’ordine dei cognomi, o almeno che non lo facesse in quel momento.
« Watson-Holmes » si corresse però lei, tranquillamente: « ho letto il vostro fascicolo giusto ieri e devo dirvi la verità, all’inizio ne sono rimasta... scioccata » disse.
Il cuore di John perse un battito.
« Conducete una vita decisamente pericolosa e movimentata. Le vostre imprese sono famose in tutto il web e non solo e, da quello che ho letto su di voi, persino la vostra fedina penale non è intonsa. Certo, niente di grave e nessuna sentenza ufficiale, sono tutte accuse ritirate, ma che lasciano una discreta traccia e, di certo, raccontano una storia ».
Fece una pausa. John non sapeva se avrebbe retto dell’altro tergiversare.
« Se voi foste una coppia normale, non vi riterrei idonei all’adozione » disse poi.
Il mondo di John crollò tutto in una volta. « Signorina Mills, noi... » cominciò a dire, ma una mano della donna si alzò per fermarlo sul nascere.
« Ho detto “se”. Nel vostro caso ci sono delle attenuanti di cui ho voluto tener conto. Prima di tutto il vostro Legame. Ha fatto molto scalpore negli ambienti scientifici l’anno scorso, dunque posso solo immaginare cos’avete dovuto passare. Insomma, come voi è famosa anche la vostra storia » disse, sistemandosi meglio gli occhiali sul naso. Hamish avrebbe riso vedendola, pensò John.
« In secondo luogo, non posso non tenere in considerazione che il bambino non avrebbe nessun altro. Considerata la sua famiglia di provenienza è difficile che venga adottato, dato che il rischio che sia un BCE come lo era il fratello maggiore è molto alto. Inoltre, in questo anno sembra essere cresciuto bene e, soprattutto, felicemente. È molto affezionato a voi, segno che non è incorso in particolari traumi, e i colleghi che hanno stilato il rapporto sulle vostre capacità genitoriali non hanno trovato niente di strano o di anormale. A mio avviso vi siete dimostrati degli ottimi genitori e per questo vorrei che continuaste ad esserlo » disse.
John ci mise un attimo per capire davvero ciò che stava dicendo, ma quando la paura scivolò via dalla sua mente cominciò a stirare le labbra in un sorriso. Stava stringendo la mano di Sherlock con tutta la sua forza senza nemmeno accorgersene, ma il marito non disse niente e lo lasciò fare.
« Questo vuol dire che... »
« Esatto, signor Watson » rispose la Milss: « vi dichiaro idonei all’adozione ufficiale di Hamish » disse.
 
 
 
 
 
 
 

Epilogo
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4 anni dopo

 
 
 
 
Londra scorreva calma oltre il finestrino del taxi da cui Hamish Watson-Holmes, cinque anni compiuti il mese prima, sta a guardando. Erano solo i primi di dicembre ma la città cominciava già a riempirsi di luci e suoni del Natale alle porte, con vetrine colorate e riproduzioni di Babbo Natale su ogni balcone.
Si spostò dagli occhi un ricciolo castano scuro che gli impediva di vedere bene la vetrina del negozio di giocattoli, la sua preferita, con quell’enorme navicella spaziale della NASA che pendeva dal soffitto. La osservò con un sorriso ammirato sfilare fuori dal finestrino, appannando il vetro con il fiato. Ne approfittò per disegnarci con il dito una stella cadente.
« Hamish, mettiti seduto composto » lo riprese suo padre John e, ubbidiente, il bambino tornò a sedersi di fianco al genitore, sistemandosi meglio la cintura di sicurezza.
« Papà? » domandò poi, attirando l’attenzione di John. « Farà male? » domandò.
Il dottor Watson sorrise dolcemente. « No. Il dottore ti guarderà solo il dito e ti farà una piccola radiografia alla mano, niente di più. Non sentirai niente » gli disse.
Ma questo non bastò a placare le preoccupazioni del bambino, che infatti aggrottò la fronte e strinse le labbra.
« Cosa c’è? » domandò allora Watson, accarezzandogli i capelli sempre più ribelli.
« E se non salta fuori nessun nome? » domandò Hamish, gli occhi blu lucidi: « a scuola le maestre hanno detto che può succedere e i miei amici hanno detto che i loro genitori avevano detto che è una brutta cosa » disse, cercando di esprimere il concetto al meglio che poteva.
John fece per rispondere ma Sherlock, seduto sul sedile di fronte, lo anticipò.
« Affatto » disse: « quando ero piccolo anche io non avevo nessun nome, così come tuo padre era un BCE » disse.
Hamish spalancò gli occhi, sorpreso. « Davvero? » domandò.
« Papà ha ragione » intervenne John: « il mio nome gli è uscito fuori che era già grande, e ci conoscevamo già ».
« Quindi... » cominciò il bambino, guardando in alternanza entrambi i padri: « ...non è una bruta cosa se non c’è niente? Non sono diverso dagli altri? » chiese.
« Oh, sì che lo sei » gli rispose Sherlock, sogghignando: « ma chi ha detto che diverso è sbagliato? Tu sei più intelligente degli altri bambini, questo ti rende diverso ma è una cosa buona, no? » domandò retorico. Hamish rise.
« E poi non è mai detto, Hamish » aggiunse John: « io e papà ci siamo Legati quando entrambi pensavamo che non fosse più possibile » disse.
Hamish guardò l’anello d’oro al dito di suo padre. Sapeva che sotto i guanti di pelle anche suo padre Sherlock ne portava uno uguale e, anche se non lo aveva mai detto, gli erano sempre piaciuti. I suoi due papà erano bravi e buoni, due persone davvero stupende, e si volevano bene più di chiunque altro. Lo sapeva. Lo vedeva tutti i giorni.
« Spero che la mia Anima Gemella sia bella come i miei papà » disse allora, tornando a guardare fuori dal finestrino.
John e Sherlock si scambiarono un’occhiata e un sorrisetto divertito.
« Non lo so » disse poi Sherlock: « ma potresti avere già il suo nome » disse.
« Andiamo a scoprirlo? » domandò John.
Hamish annuì. « Sì ».
 
 
 
 
 
 

Fine.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

_________________________________________________________________________________________
 
1) Non credo che funzioni esattamente così, ma usiamo l’immaginazione e diciamo di sì.
 
2) il Form-F è il nome che gli inglesi danno al “Prospective Adopters Report”, un vero e proprio rapporto che i Servizi Sociali compilano nel giro di numerose visite alla famiglia che intende adottare un bambino.
   
 
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