DON’T LET
ME GO
- A Louis Tomlinson story
-
Mi ha lasciata.
Lui, colui che mi aveva
promesso che sarebbe stato diverso da tutti gli altri, che non mi
avrebbe
trattata come una stupida, mi ha abbandonata, lasciata sola al mio
destino
senza nemmeno farsi sentire o darmi spiegazioni. Con fatica avevamo
costruito
una storia lunga due anni il prossimo mese,
avevamo combattuto contro qualsiasi cosa per noi due, ci
eravamo giurati
amore eterno, e io, stupida, ci avevo creduto. Io, stupida, mi ero
fidata di
quegli occhi azzurri, di quel sorriso così tenero e sincero.
Stupida io.
Stupida Beth e le mie fantasie da fiaba.
D’altronde, come ho
potuto
anche solo pensare che lui, Louis, potesse sognare una vita intera
accanto a
me, una ragazza che in fatto di amore sapeva ben poco, e ancora meno
sapeva in
fatto di relazioni serie?
A vent’anni suonati,
Louis
era stato il primo ad avermi fatto battere davvero il cuore, quel
giorno
d’autunno in quella piccola libreria universitaria. Non avevo
quella che si
dice una buona reputazione. No, non sono mai stata la tipica ragazza
che ha
tutto e tutti come nei film. Semplicemente preferivo non impegnarmi
mai, forse per
paura di rimanere ferita. E allora guardavo da lontano, guardavo senza
toccare,
poi, quando il desiderio si faceva più insistente, giocavo
d’astuzia, appagavo
il mio desiderio e poi abbandonavo quella mia preda in corsa, ancora
prima che
potessi realizzare di aver sviluppato alcun tipo di sentimenti, ancor
prima che
loro potessero realizzare come veramente ero. Probabilmente ero io
preda e loro
i cacciatori, perché poi si passavano parola, capitavano uno
dietro l’altro,
facevano finta di non avermi mai notata e alla fin fine ricevevano
quello che
volevano tanto quanto me.
Ma quel giorno
d’autunno,
seduta al tavolo di quella piccola biblioteca universitaria, rimasi
colpita da
qualcosa di più di un semplice colpo di fulmine: alzai gli
occhi dal mio tema
solo per ringhiare dietro a chiunque stesse cercando di prendere il
libro che
stavo consultando appena venti secondi prima; alzai gli occhi e
incontrai i
suoi, perdendomi senza speranza. Incontrai il suo mezzo sorriso
spocchioso,
mentre con le mani ancora avvicinava il libro a sé, prima di
fermarsi, fissarmi
a sua volta e semplicemente sussurrarmi:
“La mia media
scolastica
ti ringrazierà a vita, occhioni”
Rimasi interdetta, come se
le sue parole mi avessero appena sfiorato ma non fossero davvero
entrate nella
mia mente, poi gli presi il braccio, strattonandolo di nuovo verso di
me.
“Il massimo che
posso
offrirti è un pezzo di tavolo e la condivisione. Oppure
oltre alla tua media
scolastica, dovrà ringraziarmi anche il tuo dentista,
sorriso d’angelo”
Gli intimai, tanto vicina
al suo viso da poter sentire il suo respiro sulle mie labbra. Ridendo,
prese
una sedia dal tavolo vicino e mi affiancò, sistemandosi gli
occhiali.
“Mi avevano detto
che ti
saresti semplicemente ammutolita, occhioni. Invece guarda che razza di
leonessa
che mi ritrovo davanti.”
Arrossendo fino alla punta
delle orecchie riportai l’attenzione al mio tema, una mano
sul libro che mi
voleva fregare.
“Senti, devo
continuare a
chiamarti occhioni o mi dici come ti chiami? No, mi rifiuto di credere
che il
tuo nome sia Bella Pazza.”
Da me ricevette solo
silenzio, ero intenzionata a riprendere il mio solito comportamento, ma
lui
insisteva.
“Beh, non ho
problemi a
continuare a chiamarti occhioni, io sono Louis, tanto piacere”
Continuò,
dondolandosi
sulla sedia e lanciando un sorrisetto anche alla bibliotecaria, che
cercò di
zittirlo. Io alzai appena lo sguardo, poi tornai a scrivere un paio di
note sul
tema.
“Elizabeth
è proprio un
gran bel nome sai? Ma credo di preferire… Beth. Beth
è più breve e meno
impegnativo da ricordare”
Riprese dopo aver guardato
l’intestazione del tema, mettendo una mano sul libro che
avevamo conteso, e
casualmente sfiorando la mia. Rabbrividii al contatto, ma non spostai
la mano.
“Condivisione.
Con-divisione. Con. Tu più qualcun altro”
Mi spiegò, come
fossi una
stupida. Chiusi gli occhi e inspirai, abbassando la guardia un secondo
e
rialzando lo sguardo su di lui. Mi sorrise sincero e io fui sicura di
aver
completamente perso ogni facoltà intellettiva e fisica. Mi
sorrise e la mia
mente si ritrovò nella valle degli unicorni, con
l’arcobaleno in cielo e fiori
ovunque. Mi sorrise e avrebbe potuto farmi qualsiasi cosa, anche
pugnalarmi
venti volte consecutive, che io l’avrei ancora adorato. Ma
non fece niente, se
non alzare un sopracciglio e scuotere la testa.
“Mi chiamo
Elizabeth, ma
in casa mi chiamano tutti Eli.”
Dissi tutto d’un fiato, ancora mantenendo la mano sul libro.
“Nessuno mi ha mai
chiamata Beth, ma penso che sia okay, se ti piace così
tanto.”
Continuai quando vidi che
Louis non smetteva di sorridere.
“E so cosa significa
la
condivisione, solo condividerò con te quando avrò
finito”
“Non sei simpatica.
Hai
due begli occhioni da cerbiatto, ma non sei simpatica. Penso che non
dovrei
stare qui a parlarti”
“E cosa ti
trattiene?”
“Non lo so, ma ho
come la
vaga sensazione di dover rimanere qui”
Alzai gli occhi al cielo,
quanto stupido e sfrontato era. Ma la sua stupidità e la sua
sfrontatezza
cominciarono a fare il loro compito, e lentamente sulle mie labbra si
aprì un
timido sorriso.
“Sei più
carina quando
sorridi, te l’hanno mai detto? Gli occhi risaltano ancora di
più”
“Grazie…
Ma non avrai il
libro in ogni caso”
Sbuffò e
alzò gli occhi al
cielo, poi sistemò sul tavolo il quaderno e
l’astuccio, prendendo a
scarabocchiare il primo foglio che trovò.
“Faccio parte della
squadra di calcio dell’università, sai? Tu fai
qualche sport? Ti vedo bene come
pallavolista.”
“Nuoto”
“In effetti non
sembri il
tipo da sport di squadra”
“Già”
“E che stili
fai?”
“Un po’
tutti, il mio
preferito è rana”
Lì per
lì –
fortunatamente, pensai io – sembrò aver terminato
le domande, ma dopo appena
una manciata di secondi la mia illusione finì.
“Potresti venire a
qualche
partita, magari. E io potrei venire a una tua gara. Sarebbe un bel modo
di
fraternizzare”
“Magari
sì”
Risposi giusto per non
essere troppo scortese, poi tornai sul mio tema. Lui sbuffò
e sfilò il libro da
sotto la mia mano, probabilmente giudicandolo l’unico modo
per avere la mia
attenzione. Di nuovo lo fulminai con lo sguardo. Di nuovo mi persi in
quegli
occhi così belli e sentii il mio volto ammorbidirsi, fino a
cancellare ogni
segno di rabbia rimasto. Decisi che forse la conversazione non avrebbe
dovuto
essere a senso unico, decisi che forse non dovevo rispondere solo a
monosillabi, decisi che forse quella comunicazione che lui cercava di
creare
tra noi doveva essere fatta in due.
“In che ruolo
giochi?”
“Attaccante. Sono in
lista
per il titolo di miglior marcatore, teniamo le dita
incrociate.”
“Sì, ora
che ci penso, credo
di aver visto il tuo nome ogni tanto sul giornale della
scuola… Sei quello che
si è trasferito quest’anno, giusto?”
“In persona, non
credevo
di essere così famoso” mi sorrise “I
miei hanno divorziato, mia madre non
sarebbe riuscita a mantenere me nella mia università
precedente e le mie
sorelle nella loro scuola privata quindi… Ho deciso di
sacrificarmi, anche se
devo dire che questo posto non è per niente male.
Soprattutto i suoi ospiti di
martedì sera in biblioteca. Anche se non mi lasciano i
libri”
“Beh, chi prima
arriva
meglio alloggia, si dice, no? Dovrai aspettare il tuo turno”
“Ahah spiritosa. E
tu?
Come mai hai scelto questa università?”
Ci pensai su un secondo.
La mia scusa normalmente era che quella fosse
l’università più economica e non
volevo pesare sulle tasche di mia madre. La verità invece
era ben altra. Buttai
lì una mezza verità, incapace di mentirgli, forse
per la troppa paura che mi
leggesse dentro e capisse la mia menzogna.
“Mio padre ha
studiato qui
da giovane”
“E quindi ti ha
costretta
a venire a studiare qui per continuità? È uno di
quei genitori assillanti che
vogliono i propri figli a propria immagine e somiglianza?”
Tornai a fissarlo,
abbandonando completamente il tema che stavo facendo.
“Non lo so, non
gliel’ho
mai chiesto, non avendolo mai conosciuto. Ma non ho il coraggio di
allontanarmi, non riesco a non pensare che forse potrebbe
tornare…”
Confessai di getto, senza
nascondere le speranze di cui tanto mi vergognavo. Louis
spostò la mano dal
libro e la portò attorno al mio polso, per poi avvicinarmi e
stringermi in un
abbraccio, come fosse la cosa più naturale di questo mondo,
come fosse nato per
confortarmi e togliere i pesi che la vita mi aveva consegnato.
Inutile a dirsi, quella
conversazione si trasformò in amicizia, di quelle amicizie
in cui tutto quello
che le persone al di fuori vedono è semplicemente pura
attrazione non
confessata. Di quelle amicizie che tutti chiedono se siano qualcosa di
più. Ed
effettivamente da quell’amicizia durata poco più
di qualche mese nacque quella
che fino a poco tempo fa credevo la relazione della mia vita, quella
relazione
perfetta in cui nulla sembra essere un ostacolo abbastanza potente da
scalfirla. E invece un paio di mattine fa sul cuscino al mio fianco non
ho
trovato il suo volto angelico e quasi infantile a darmi il buongiorno.
Non ho
trovato il suo braccio a proteggere il mio corpo. Non ho trovato le sue
gambe
intrecciate alle mie. Ho trovato solo il vuoto, un vuoto che dal lato
destro
del letto si è trasferito nella mia mente, nel mio corpo.
Nessun messaggio,
nessun biglietto, il cellulare spento, i suoi migliori amici che alzano
le
spalle senza sapermi dire nulla, i suoi genitori, le sue sorelle
minori, tutti
mi guardano con quasi compassione quando vado anche da loro a chiedere
informazioni.
È sparito. Mi ha
lasciata
senza dire una parola. Mi ha abbandonata proprio come aveva detto che
non
avrebbe mai fatto; mi ha abbandonata proprio come ha fatto il padre che
non ho
mai conosciuto, senza lasciare nulla per me. Consegnandomi di nuovo il
peso che
tanto aveva combattuto per togliermi, con gli interessi di una
relazione a cui
avevo dato anima e corpo. È sparito e con lui sono sparita
anche io.
Ma ora ho preso una
decisione. Non rimarrò così per sempre. Devo
riprendermi, arrangiarmi come ho
sempre fatto prima di lui. Non ha senso rimanere su questo dondolo, non
ha
senso guardare il cancello di casa aspettando che lui torni. Devo
arrendermi
all’evidenza, non lo farà. Mi alzo, un bacio
volante a mia madre e mi incammino
verso l’università per salutarla
un’ultima volta. Un’ultima visita
all’edificio
in cui ci siamo incontrati, al piccolo dormitorio che ha testimoniato
la nostra
prima volta, al parco in cui ci siamo scambiati il nostro primo bacio.
E come in un film, come se
la mia mente avesse reso realtà quello che il mio cuore
segretamente chiedeva,
vedo una sagoma che riconoscerei tra mille. Dal modo in cui si muove,
dal modo
in cui palleggia nervoso con una pigna come fosse un pallone da calcio,
dal
modo in cui si volta, spostando i capelli dalla fronte, un sorriso che
arriva
agli occhi prima ancora di raggiungere le labbra. Cammina veloce verso
di me,
prende a correre come se non avesse la forza di aspettare ancora. Ha
due rose,
una rossa e una gialla, e un bocciolo di rosa bianca in mano. Apre le
braccia
come per darmi il bentornato a casa, ma io non mi muovo, combatto con
le
lacrime che minacciano di rigarmi le guance, combatto con il desiderio
di
abbandonarmi al suo abbraccio che tanto ho cercato in questi giorni
senza di
lui. La mia risposta è diversa, le mani a pugno contro il
suo petto, gli occhi
chiusi a forza, frasi escono dalle mie labbra senza che io sia capace
di
controllarle.
“Sei un deficiente!
Un… Un codardo!
Te ne sei andato senza
dirmi nulla!
E io ti ho cercato!
Mi hai abbandonato!
Mi avevi promesso che non
l’avresti fatto!
Io ti odio!”
Sono certa che sul suo
viso il sorriso si sia spento. Incassa i colpi uno per uno, non ribatte
per
difendersi da quello di cui lo sto accusando. Lascia che mi sfoghi, poi
mano a
mano che i miei pugni si fanno meno vigorosi e frequenti, mano a mano
che le
lacrime scendono sul mio volto, mi circonda con le sue braccia, mi fa
abbandonare la testa sul suo petto, mi accarezza. Mi sfiora la fronte
con le
labbra, poi gli occhi, le guance, la punta del naso, per finire sulle
mie
stesse labbra. Mi bacia e il suo bacio rispecchia il mio, come se fosse
assetato delle mie labbra, come se non averle baciate per due giorni
fosse
stato un incubo anche per lui. Ma il bacio dura poco, il tempo di
ritrovare
l’alchimia che ci ha sempre contraddistinti, poi lui si
allontana. È ferito, il
mio dolore è diventato anche suo. Incatena i miei occhi ai
suoi, poi prende
parola.
“Non ho mai voluto
abbandonarti. Non ho mai voluto andare via senza dirti nulla. Non
avresti
dovuto cercarmi. Io ti amo.”
Dice senza troppi giri di
parole, rispondendo a ogni mia accusa.
“Non è
vero che ti odio
Lou. Non è vero”
Mi abbraccia, tenendomi
stretta, poi mi porge le rose, ad una ad una, senza distogliere lo
sguardo.
“Per te, amore mio.
Questa
rosa rossa, per ricordare il nostro passato, i momenti che abbiamo
trascorso
insieme e che hanno aiutato questo amore a nascere, crescere e
rinforzarsi.
Questa rosa gialla, per tenere alla mente questo presente, per sapere
sempre
che per quanto la
lontananza faccia
male, non ti abbandonerò mai, sarai sempre il mio primo
pensiero. E questa rosa
appena sbocciata…”
E qui fa una pausa. Prende
la mia mano, si inginocchia. Non può essere vero. Cerca
nella tasca, una
scatolina di velluto blu. Questo è un sogno.
“Questa rosa bianca
appena
sbocciata rappresenta noi due, se accetterai, ovviamente. Rappresenta
la nostra
vita, la famiglia che non vedo l’ora di formare con te.
Questi due giorni senza
di te sono stati un’agonia. La risposta ai dubbi che avevo.
La risposta che ho
sempre avuto nel mio cuore. Non voglio stare senza di te. Sposami Beth,
sposami
e giuro che ti amerò per sempre.”
Tommo’s
corner:
Voila…
One shot scritta
così, in un momento (anzi due) di schizzo totale…
E…
Niente, l’ho finalmente
finita e ho deciso di pubblicarla :)
Vi
ringrazio per averla
letta ed essere arrivate fin qui e… Se voleste essere
così gentili da lasciare qualcosa, per farmi sapere la
vostra opinione, grazie :)
(Mi
chiedo perché ogni
volta che scrivo di Louis mi innamoro di lui… Quanto
è bello questo ragazzo)
Un
abbraccio,
-S