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Autore: Ely79    17/06/2013    8 recensioni
Vorreste trasformare la vostra ridicola Urbanhare in un mostro capace di far sfigurare le ammiraglie del Golden Ring? Cercate più spinta per i vostri propulsori a vapore compresso? Spoiler e mascherine su disegno per regalare una linea più aggressiva al vostro mezzo da lavoro? Una livrea che faccia voltare ogni testa lungo le strade che percorrete? Interni degni di una airship da corsa, con quel tocco chic unico ed inimitabile?
Se cercate tutto questo, grande professionalità ed un pizzico di avventura, allora siete nel posto giusto: benvenuti alla "Legendary Customs".
[Ambientazione Steampunk]
Genere: Avventura, Commedia, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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L.C. - Cap. 1
1

Odiava i lunedì di marzo, troppo freddi e umidi per i suoi gusti. Un velo di nubi oscurava il cielo e il vapore usciva dalle grate degli scantinati, ricadendo appiccicoso sui marciapiedi. Neppure i lunedì di aprile erano più gradevoli, con il luccichio delle finestre che venivano continuamente aperte alla primavera da massaie indaffarate a gettare la polvere fuori dalle stanze. Lo stesso poteva dirsi per quelli di maggio, con la profusione di fiori messi a spargere i loro stupidi petali ovunque. C’erano poi quelli di giugno, luglio, agosto e via discorrendo per l’intero arco dell’anno. Odiava i lunedì nella loro totalità: erano uno stuolo di orribili soldatini dall’aspetto innocuo, che gli sparavano contro accuse, malesseri, luci accecanti, rumori e odori molesti.
Capì d’essere a destinazione quando udì il familiare rombo delle caldaie e lo sferragliare dei magli. Superò il cancello trascinando i piedi sull’asfalto rattoppato, inspirando quanto più profondamente gli consentisse lo stomaco gonfio e a soqquadro. L’arsura in bocca acuiva il bisogno di vomitare.
Un boato esplose nelle meningi, obbligandolo a chinare il capo mentre strizzava le palpebre dietro le lenti scure. Il mondo si contorse in un vortice, che scomparve alla stessa rapidità con cui era venuto.
Non si trattava di un tuono, non aveva nulla a che fare con il meteo. Era una voce. Una voce che conosceva fin troppo bene.
«Niklas».
L’uso del suo nome di battesimo significava guai grossi. Enormi. Sentì il cervello riempirsi d’imprecazioni e maledizioni, ma nessuna raggiunse la gola. Persino la scusa preparata con tanta, claudicante cura, se l’era svignata alla chetichella, lasciandolo disarmato.
Si raddrizzò a fatica, la testa incassata fra le spalle e le mani appese alla cinta. I capelli biondi ricadevano arruffati sul volto che, seppur segnato dai quasi cinquant’anni e dai pesanti trascorsi, faceva sospirare ancora parecchie donne. Tuttavia, lo sguardo rimase incollato agli scarponi chiazzati d’olio dell’altro.
«Ehi, cuginetto!» balbettò, storcendo le labbra in quello che avrebbe dovuto essere un sorriso. «Bella giornata, eh?»
«Sai che ore sono?» tagliò corto.
«Ehm… no. No, ma tranquillo, adesso mi… mi metto in pari. Se ci… m-metti una b-buona… parola…»
«Sono le undici, Scorch» l’interruppe, facendolo barcollare con il solo peso delle sillabe.
Lui indietreggiò e sollevò le mani, i cui palmi erano segnati da grosse cicatrici bianche e piatte. Tremava, ma era difficile dire se dipendesse dalla paura o dalla nausea.
«N-non s-succ… succederà più. Ecco… a-adesso… entro e…» e fece per superarlo con passo malfermo.    
Clay gli stritolò la spalla, obbligandolo ad alzare lo sguardo febbricitante. Il suo volto squadrato e minaccioso  riempì l’intero campo visivo dell’interlocutore ed era tutto, fuorché un bel vedere. Scorch lo capì anche in quelle condizioni.
«Vattene» ordinò, facendolo ruotare su se stesso come un giroscopio.
L’ingegnere mugolò, tentando di opporre una fiacca resistenza. Le dita del cugino e i capogiri gli impedirono di cercare un motivo qualsiasi per convincerlo a farlo restare. L’unica cosa che riusciva a distinguere chiaramente era la fitta alla base del collo che sovrastava il resto dei dolori.
«Ho detto vattene» latrò perentorio Clay. «Va a casa e dormi. Ne riparliamo domani. E non fermarti da nessuna parte, chiaro? Non voglio venire a ripescarti in nessun bar da qui alla Capitale».
Scorch ansimò frustrato, simulando un singhiozzo cui non credette. Era già caduto in quel trucco, non si sarebbe ripetuto.
«Ancora qui?» insisté, assestandogli uno spintone che per puro caso non lo mandò lungo disteso.
«Posso lavorare» esalò a denti stretti.
«Quanto? Un’ora? Due? Puzzi di alcol, dannazione, farai venire il mal di testa a tutti».
«Posso…» insisté.
«Levati dai coglioni, Scorch. Altrimenti ti prendo a calci nel culo fino a casa tua» minacciò.
L’uomo rimase impalato per qualche istante, incerto sul dove dirigere le gambe. Non lo trovava giusto, aveva lavorato in condizioni peggiori di quelle, perché lo stava cacciando?
«Fanculo, Clay» sputò, incassando la testa fra le spalle e tornando da dove era venuto.
«Altrettanto, Scorch. A domani».
Allontanare l’uomo da cui era venuta la sua fortuna, era per Clayton Lomann una delle cose più penose al mondo. Si sentiva terribilmente in colpa perché la “Legendary Customs” era nata dalle mani di Niklas, ma allo stesso tempo non poteva sempre mettere una pezza quando i suoi stramaledetti vizi avevano il sopravvento. Riteneva d’aver già fatto molto rilevando l’officina più di vent’anni addietro, quando era prossima al fallimento, ed era andato oltre quando aveva scelto di tenere quello scapestrato nello staff. Eppure, quando si presentava strisciando come un verme per i postumi di una sbronza, farfugliando scuse ridicole e giurando e spergiurando di star bene, aveva la netta impressione che tutto ciò che aveva fatto non fosse servito a niente.
«La tenacia è un’arte, ma la tua sfocia in un’assurda perversione» cantilenò una voce alle sue spalle.
Un uomo dai tratti orientali era appoggiato allo stipite del portone d’ingresso. Le braccia incrociate sul petto erano ricoperte di tatuaggi dove si rincorrevano squali e tartarughe.
«Non hai da fare? Siamo di consegna mercoledì, e non ti ho ancora visto mettere mano al tuo sputavernice» borbottò il capofficina, sperando di chiudere il discorso sul nascere.
L’altro accese con calma una sigaretta e inspirò una lunga boccata, guardandolo dritto in faccia.
«Non può continuare così. Quanto è durato? Quattro mesi? Sta peggiorando di nuovo. Sbaglia i conti, non sa più  tirar fuori colpi di genio. Certe volte non riesce a tenere la matita in mano. Ci rallenta e, cosa ancora peggiore, rischia di farsi male. Seriamente stavolta» concluse, riferendosi all’incidente che aveva costretto Scorch a girare con le stampelle per diverse settimane.
Clayton si appoggiò all’altro battente, chiudendo gli occhi. Avrebbe potuto osservare la strada o l’officina per distrarsi, ma la verità era che parlare col suo secondo diventava indispensabile, in quei casi.
«Hai ragione, Hito, ma cosa vuoi che faccia? Che lo licenzi? È pur sempre mio cugino; è un fratello per me, lo sai. Se gli volto le spalle, cosa gli resta?»
«Gli serve aiuto. Un aiuto che non sia il tuo. Piantala di spendere monete d’oro per un gatto1» l’ammonì, rigirando il mozzicone tra le dita quasi fosse un prestigiatore.
«Sono venticinque anni che tento di convincerlo. Non ascolta nessuno, fa solo finta. Non voglio mettere di mezzo gli avvocati, ne ho abbastanza di quei figli di puttana».
Aveva avuto a che fare a sufficienza con quei damerini leccati e impomatati, e ancora non smaltiva l’acido che gli avevano versato nelle vene.
Un clangore di lamiere cancellò i discorsi dei due, obbligandoli a guardare all’interno. Videro diversi uomini correre tra le scocche e i banchi di lavoro. Le urla di Choncho inseguirono una figuretta che schizzava fuori dalla porta laterale.
«Boy» sospirarono all’unisono.
Il loro allievo era un’autentica spina nel fianco: non era stupido, né gli mancava la voglia di fare, anzi. Il problema era esattamente l’opposto: Boy voleva strafare per dimostrare la propria superiorità a chiunque, col risultato di portare caos e darsi la zappa sui piedi. O abbatterla sui piedi degli altri.
«Va a vedere che diavolo ha combinato e dagli una rigirata. Io ho da fare» grugnì Clay imboccando la scala metallica accanto all’ingresso.
«Vuoi fare cambio?» domandò ironico l’artista, schiacciando la cicca sotto lo stivale.
«Non chiedermelo».

***

Scorch dondolava lungo il marciapiede, curvo sotto il peso di un’inesistente bancata. Clay lo tenne d’occhio dalla finestra sul pianerottolo fin quando svoltò su Amyngton Boulevard, augurandosi di non essere raggiunto da telefonate di baristi inferociti o, peggio, dalla prigione della Contea.

La giornata era cominciata male, con un fastidioso dolore al gomito che aveva reso la guida un autentico strazio; era proseguita imboccando la spaventosa china rappresentata dalla chiusura trimestrale dei registri dell’attività; aveva subito la brusca battuta d’arresto sui postumi di Scorch e ora minacciava di procedere verso l’abisso, con la ripresa della revisione dei conti.
Salì la seconda rampa augurandosi che pure il morale tornasse a puntare in alto. Entrò nell’ufficio senza bussare e fu accolto dall’espressione interrogativa della segretaria, nonché responsabile amministrativa. Le fece cenno che preferiva tacere su quanto accaduto e in cambio ottenne l’invito a riprendere il posto abbandonato poco prima.
«Dove eravamo?» mugugnò lasciandosi cadere di peso nella poltroncina girevole.
Questa protestò crepitando e una delle rotelline emise uno schiocco allarmante.
La donna all’altro capo della scrivania allungò un plico, sistemando distrattamente gli occhiali sul naso. Charlotte lavorava lì da circa un anno, tuttavia Clayton non ricordava una sola volta in cui si fosse presentata al lavoro in maniera meno che consona al suo ruolo. Abbigliamento impeccabile, trucco appena accennato, capelli raccolti in ordinatissime crocchie che avrebbero sfidato le acrobazie di No Way. Tutte cose che la facevano sembrare più vecchia di quanto non fosse.
«Capitolo quattro: forniture di materiale d’uso e consumo» scandì piatta, spuntando la voce dal promemoria. «Non vada subito a pagina diciannove» lo riprese, sentendolo scorrere rapido i fogli.
«Volevo leggere il totale» si giustificò.
«E come al solito avrà da ridire sull’importo, anche se le posso garantire che è ridotto all’osso. Deve leggere le altre pagine per capire il senso di quelle cifre».
Clay aggrottò la fronte, soffocando una bestemmia. Era vero: l’importo gli era parso subito esagerato. E lei sembrava una stizzosa maestrina quando usava quel tono acido e saccente.
«Le pagine prima, signor Clayton» ripeté la donna. «Guardi i singoli consuntivi e si renderà conto che quel totale non è poi così alto. La “Legendary” sta viaggiando molto bene».
«Cazzo, ma sono settemilaottocento trias, Charlotte!» sbottò l’uomo.
«È per il materiale utilizzato giornalmente» spiegò quieta, prendendo una voluminosa cartelletta ad anelli. «Boccole, rivetti, distanziatori, guarnizioni, manicotti, chiodi, barre di stagno e rame per saldature… elementi utilizzati per ogni tipo di lavoro, oltre alle personalizzazioni» e così dicendo sfilò un intero fascicolo, alto quasi tre dita.
«Non t’azzardare a mettermi quella roba davanti al naso, donna» l’avvertì puntandole contro l’indice.
Detestava leggere riga per riga le fatture degli ordinativi e lo stesso valeva per i promemoria che i ragazzi trasmettevano giornalmente a Charlotte.
Incurante del tono minaccioso, la segretaria pareggiò i bordi del dossier e glielo porse.
«Ho detto…»
«Preferisce lo faccia Sandy?» lo interruppe, spiandolo da sopra la montatura nera.
L’imbottitura dei braccioli si gonfiò pericolosamente fra le dita del capofficina. L’accenno alla ex-moglie era andato a segno con un’efficacia da cecchino.
Sbatté i fogli sulla scrivania, chinandovisi sopra mentre firmava, nascondendo il volto tra le braccia quasi fosse un ragazzino intento a difendere i propri scarabocchi dalla madre pronta a punirlo.
«Bastarda» sibilò più piano che poté, accompagnando con la testa l’andamento spigoloso della grafia.
«L’ho sentita» replicò tranquilla quando ripose le attestazioni nel portadocumenti.
A Clay sfuggì un gemito sofferente quando la vide prendere una nuova cartellina.
«Capitolo cinque: forniture per lo staff. Abbigliamento, attrezzature standard, dotazioni minime di sicurezza, spese sanitarie e generali» elencò, mentre lui si lasciava scivolare sulla poltroncina.
Charlotte aveva il potere di sfinirlo.
«Quanti cazzo di capitoli hai messo giù questa volta?» domandò, premendo le mani sulla faccia per non dovergliele stringere al collo.
«Quindici» rispose laconica.
«Quindici?!» tuonò esasperato.
Nella sessione precedente i capitoli di spesa erano stati “solo” undici. Avrebbe proprio voluto sapere come, ma soprattutto dove, riusciva a scovare voci nuove per i rendiconti dell’attività.
«Voglio una sparachiodi calibro due e venti» rampognò.
«Non esistono. E anche se esistessero, è inutile che si lamenti, signor Clayton. Siglerà tutto anche con le mani inchiodate al soffitto, al pavimento, ai muri o dove le pare».
«Usando cosa?» la punzecchiò, grattandosi vigorosamente il basso ventre.
Sapeva fin troppo bene che qualunque accenno a cose sconce le faceva tremare i polsi dalla vergogna. Quella volta però cascò male.
«I piedi. A mio rischio e pericolo» e indicò il rigo dove firmare.
La mano dell’uomo si spiaccicò ben aperta sull’incartamento, occupandone la maggior parte.
«Allora questo non devo leggerlo?» ammiccò furbescamente.
Per nulla divertita, Charlotte tacque senza perdersi d’animo. In fondo, dovevano esaminare ancora parecchie voci prima di poter mettere la parola fine a quell’incombenza.

***

La sirena di mezzogiorno e mezzo fischiò acuta, sancendo il termine della prima parte della giornata.
«Allora un dio esiste!» sbuffò sollevato Clay, allontanandosi con una poderosa spinta che lo fece arrivare fino alla porta. «Su, Charlotte. Molla tutto e andiamo a riempirci la pancia! I registri possiamo finirli dopo».
In un attimo si era eclissato oltre l’uscio, senza darle possibilità di replica. Lei scosse il capo, spazientita. Raccolse i plichi sparsi, dividendo in pile ordinate quelli firmati da quelli ancora in bianco, preparò un nuovo foglio nella macchina per scrivere e riordinò le stilografiche che Lomann aveva sparpagliato ovunque. Sfilò gli occhiali, concedendosi qualche istante per massaggiare la nuca indolenzita dalla postura. Infine, aprì la finestra quel tanto da permettere all’aria di circolare senza che il vento scompaginasse i documenti.
In quel momento, sul ballatoio transitò quella che poteva essere scambiata per una mandria di buoi cingolati, ovvero lo staff dell’officina.
La mensa era all’altro capo del soppalco. Dal cucinino provenivano i commenti concitati di Pancake e Maria Pilar, che sovrastavano la sigla d’apertura de “Le Porte di Backfield Road”. Non perdevano una sola puntata della telenovela sin dalla prima puntata, andata in onda nove anni addietro.
Charlotte prese posto all’angolo estremo della tavolata e scoperchiò il suo pranzo. Fissò allibita la porzione di paella, mordendosi il labbro: avrebbe potuto riempire comodamente il vano di carico di un Heeler.
«Mangiala tutta, niña, che ti vedo patita!» disse affettuosa la cuoca.
La raccomandazione sollevò un nugolo di risatine. Quella di Clay suonava chiarissima: doveva sentirsi vendicato della mattinata trascorsa in sua compagnia. Era risaputo in tutto il quartiere che una razione dei manicaretti di Mamá Pilar era sufficiente a sfamare almeno due persone di robusto appetito; persino i voraci meccanici della “Legendary” avevano difficoltà a vuotare i piatti, quindi era piuttosto buffo sperare che una signorina potesse anche solo cimentarsi nell’impresa.
Dopo aver rifilato a ciascun commensale una smorfia sdegnata, si alzò e puntò alla dispensa.
«Grazie del pensiero, mamacita» rispose allungando il collo nello stanzino. «Che succede? Prince sta ancora tentando di uccidere Kevin?»
«Ha dovuto lasciar perdere perché sono intervenute Brandy e quella sgallettata di Delora» bofonchiò Pancake con la bocca piena. «Prince ha accusato un fumatore d’oppio che aveva visto nel vicolo, dicendo di essere accorso alle grida di Kevin, e siccome questo non ha visto chi l’aveva aggredito, l’ha pure ringraziato. Che imbecille!»
«E Delora e la sua amichetta ora sono tutte un “Che eroe-che eroe-che eroe!”. Sono proprio due mujeres bobas! Ma come fanno a non capire? È così evidente che Prince sta mentendo! E sai chi è il drogato? Quello che stanno portando via adesso, lì, lo vedi nella navetta? Roy!»
«Roy? Il fratello di Peter scomparso durante il viaggio dell’Onfalia?» esclamò stupita Charlotte.
Pur non essendo appassionata della soap opera, ne seguiva l’intreccio attraverso i commenti di Pancake e Maria, oltre che nei riassunti sulle pagine del FlyinGazzette.
«Esatto!» esclamò il giovane, addentando una torre di frittelle alla cannella. «Hanno fatto vedere i suoi documenti. Adesso ce li ha l’Ispettore Valenti. Ci scommetto che li userà per ricattare Justina! Dirà che se non vuole far sbattere dentro Roy per aggressione e riconsegnarlo sano e salvo al fratello, dovrà stare al suo gioco e andare a letto con lui! Ha sempre voluto scoparsela».
Maria Pilar era di tutt’altro avviso e per assicurarsi di non essere interrotta dall’altro, allontanò il piatto dei dolci e gli offrì una porzione titanica di riso e crostacei direttamente nel mestolo.
«Secondo me vorrà i documenti per incastrare il suo capo, quelli che Peter nasconde nella cassaforte dello studio, quello dove non fa entrare nemmeno Justina. Valenti sarà anche uno schifoso ma ha una sua dignità. È un poliziotto!»
«Maria, nelle mutande la dignità va farsi fottere. E non è un modo di dire» esclamò Pancake, ammonendola con il ramaiolo appena ripulito.
Charlotte abbandonò la disquisizione, tornando a tavola per versarsi mezzo bicchiere di vino rosso.
«Ehi, bella! È quello che ci ha dato Avelan?» ciancicò interessato Boy, prima di scolare d’un sol fiato la birra che aveva nel bicchiere per poi allungarglielo.
Il ragazzo era una specie di puntaspilli, con sopracciglia, orecchie e labbra piene di ornamenti metallici che serpeggiavano dentro e fuori la cute spruzzata di grasso e sporcizia.
Dopo aver richiuso con calma la bottiglia, Charlotte si sistemò meglio sulla sedia e respinse il bicchiere al mittente, sorseggiando il proprio con l’aria di godersela un mondo.
«Sbagliato» rispose. «Questo è il vino che il signor Avelan ha dato a me, Jessie, per meriti che ha ravvisato nel mio operato» e sfiorò l’elegante biglietto di pergamena ancora legato al collo della bottiglia.
Un coro di fischi e versacci indicò la vincitrice indiscussa della schermaglia.
«E se vogliamo dirla tutta, sei minorenne. Non ti sarebbe permesso neppure guardare quella birra» osservò alzando la voce e squadrando i presenti, che ammutolirono indispettiti.
«Chicky-Charly» sghignazzò di rimando l’apprendista.
A quelle parole, Charlotte s’irrigidì. Strinse le dita sulle posate e qualcuno della squadra fu pronto a giurare che stesse per sgozzare il moccioso. L’ilarità residua evaporò in un secondo mentre chiudeva coltello e forchetta nel contenitore del pranzo. Alcuni chinarono impercettibilmente il capo nell’attimo in cui afferrò le vettovaglie, temendo di vedersele arrivare addosso.
«Tesoro, dove vai?» chiese Maria, insospettita dal rumore dei tacchi.
«In ufficio, mamacita. Voglio godermi questo bel pranzetto in santa pace. Grazie tante» disse sporgendosi per darle un bacio. «Oggi preferisco la compagnia dei documenti» soggiunse uscendo impettita.
Solo quando l’eco dei passi svanì e la porta dell’ufficio venne chiusa a doppia mandata, gli uomini della “Legendary” tornarono a respirare normalmente.
«Non fatemi venire lì per scoprire di chi è la colpa, malcriados» rampognò Maria Pilar, approfittando di uno stacco pubblicitario per scrutare nella stanza.
Sotto il suo sguardo inquisitore, i meccanici tornarono rapidamente a concentrarsi sui piatti.
«Siete una manica di fottutissimi stronzi» li accusò dopo qualche minuto Clay, sottolineando il proprio disappunto con un sonoro rutto. «Tutti quanti. Devo starci io con lei questo pomeriggio, non voi!»
«Paura che ti faccia totò sul sederino?» scherzò Iron, l’addetto ai lavori pesanti.
«Ino? One, vorrai dire!» rise sguaiato Boy, ma le facce infastidite dei colleghi lo obbligarono a chiudere immediatamente il becco.
«Sì, sì, ridete. Aspettate la busta paga a fine mese, poi vedremo se avrete ancora voglia di scherzare» ricordò loro Clay, puntando eloquente il coltello alla gola.
«Era veramente incazzata stavolta. Non gli passerà alla svelta» commentò Patch, succhiando una cozza.
«Fatti suoi. Deve smetterla di fare la mammina, non ho cinque anni!» protestò Boy, cominciando a tracannare un’altra birra.
«Le manchi di rispetto. E non solo a lei» lo riprese Hito, strappandogli la bottiglia.
«Cosa?!» esclamò il ragazzo, ingaggiando un duello impari per riavere il maltolto.
«La contesti sempre» sbadigliò No Way, spiandolo sonnacchioso da sotto il berretto.
«La prendi in giro con quei soprannomi orrendi» suggerì Odrin.
L’Andull era il solo oltre alla segretaria a non avere pseudonimi. “Chicky-Charly” era il modo dell’apprendista di darle della pollastrella, della femminuccia frivola, decerebrata e modaiola. Esattamente l’opposto della donna che tutti conoscevano.
«Le fai l’imitazione. E anche male» aggiunse Iron, parlando di proposito in falsetto e fingendo di sistemare gli occhiali.
«Parli troppo, concludi zero e fai casino, porca troia. E lei lo sa. Come tutte le cazzo di femmine di questa merda di mondo» rincarò Choncho, dondolandosi mollemente sulle gambe posteriori della sedia.
Quale prova, dal cucinino la madre gli impose all’istante di sedere composto, pur non avendolo visto.
«Vogliamo parlare di tutta la roba che hai rotto o perso, e hai preteso ti facesse riavere? Sono quasi sicuro che sei costato più tu in questo trimestre che tutti noi messi insieme» concluse Clay.
Il ragazzo cercò un appiglio disperato in Ozone, seduto al suo fianco, che però si limitò ad assentire bonario. Avevano ragione: se non andavano d’accordo, la parte maggiore della colpa era a carico suo. Charlotte poteva essere indisponente, arrogante, nevrotica, persino tirannica, ma faceva del suo meglio per mantenere con tutti un rapporto di civile convivenza. Spesso i suoi divieti si erano rivelati una mano santa per l’economia dell’officina: aver imposto l’uso protezioni per occhi, orecchie e mani – pena una trattenuta di cinque trias dallo stipendio – aveva ridotto del settanta percento il ricorso ai servigi del Dottor Hernzt. Nella catena di comando Charlotte era un gradino sotto Clay e Sandy, ne faceva le veci quando erano assenti, aveva facoltà decisionali in merito agli ordini, gestiva i rapporti con i clienti, approvava le richieste di permessi e ferie. Averla per nemica era una pessima idea.
«E non provare a farle scherzi con quella bottiglia, tipo fargliela sparire o vuotarla o sputarci dentro, perché sarà la volta buona che ti fa pulire il pavimento con la lingua» l’avvisò Hito.
«Sempre se non t’infila in uno dei bidoni per la morchia» ridacchiò Choncho, fingendo di annaspare nel denso liquame.
«O magari nella Teuronne» suggerì Odrin, schiacciando la faccia color pece tra le mani per dargli un’idea di quale effetto avrebbe avuto la pressione della caldaia.
Sulla porta del cucinino comparve la sagoma ballonzolante di Pancake, più scuro in volto di quanto le lontane origini africane non lo rendessero già. Aveva le mani affondate nei fianchi e le guance gonfie di riso e frittelle.
«Silenzio! Qui non si sente niente!» urlò, sputando una pioggia di briciole sui presenti.


1 Monete d’oro per un gatto: equivalente giapponese del “dare le perle ai porci”.



NdA
Finalmente, dopo mesi, mi ributto nel mondo delle long vere e proprie. Chiaramente in stile steampunk. Questa storia prende le mosse da serie tv come "Pimp my ride", "Street Customs", "Top Gear", etc. ma se non siete appassionati di motori, state tranquilli: non ci saranno lezioni di meccanica!
Detto questo, un ringraziamento speciale va a Shade Owl e _ivan, miei amici-lettori-recensori-revisori, grazie ai quali non solo le idee spuntano come funghi, ma soprattutto giunge sempre il consiglio giusto al momento giusto.
Ultima notazione: la pubblicazione sarà settimanale! Al prossimo lunedì.
   
 
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