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Autore: NotFadeAway    18/06/2013    1 recensioni
E' la storia di una donna, disabile e forte, Eve e un uomo, che lei chiama Ombra, sembra che il loro amore sbocci dal nulla, come nelle favole, ma un segreto oscuro verrà prima o poi alla luce...
Questa storia nasce da un'ispirazione che mi è venuta in seguito alla visione del film "Sette anime", non ho voluto portarla per le lunghe, sarà di soli due capitoli. E' una storia d'amore, ma non lasciatevi ingannare dall'inizio, il mio consiglio è di andare fino alla fine prima di additare questa storia come troppo melensa.
Genere: Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Severus Piton
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Durante l'infanzia di Harry
Capitoli:
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Gli occhi di una persona possono rimanere nel cuore di un’altra per sempre.
Possono fare ecclissare tutto il resto e accecare con la propria aura.
Possono essere molto potenti, e molto pericolosi.
 
La prima volta che vidi Ombra fu nel 1984, era il due luglio.
Ero appena uscita di casa, stavo infilando ancora tutto nella borsa, iniziando ad incamminarmi, quando qualcosa mi cadde. Ne avevo sentito il rumore, così feci marcia indietro e, prima ancora che riuscissi a capire che cosa fosse, Ombra mi fu davanti.
-Le è caduto questo – mi disse, chinandosi per afferrarlo – Tenga –  me lo porse.
In quel momento, quando le nostre mani si ritrovarono separate solo da quel mazzo di chiavi, ci guardammo dritto negli occhi. Ma non fu solo un’occhiata fugace, Ombra si appoggiò al mio sguardo come se lo conoscesse da una vita e rimase così, per molto tempo.
Quando non fui più capace di sostenerlo, afferrai il portachiavi e lo distolsi.
-Ehm… grazie… - dissi, rompendo il silenzio che anche io, colta di sorpresa da quella situazione, avevo contribuito a creare.
Quando parlai lui si scosse e guardò altrove.
-Prego – mormorò, sembrava imbarazzato, ma soprattutto improvvisamente molto triste.
Per un attimo, esitò ad andare via, attimo che mi fece sfuggire il mio nome.
-Io sono Eve – dissi.
Ombra rispose con il suo nome, ma sembrava proiettato con la testa altrove. Se ne andò senza dire altro.
Trascorsi il resto della giornata senza pensare alla stranezza di quell’episodio, e l’immagine di Ombra mi sfrecciò per la testa, solo quella sera, mentre affogavo i miei stress in un bagno caldo. Mi concessi qualche minuto di congetture, poi la mia età intervenne e accantonai tutto da parte.
 
Fu due giorni più tardi che me lo ritrovai di nuovo sul cammino.
 Era all’ingresso del palazzo, dove c’era il mio ufficio e quando mi vide arrivare, si avvicinò alla porta e me la aprì. Lasciò che entrassi, ma non mi seguì. Anche questa volta, non c’era niente sul suo viso, se non uno sguardo profondo agganciato al mio.
Mi chiesi se quella non fosse una coincidenza. Ma data la scarsa probabilità che fosse effettivamente così, iniziai a domandarmi chi fosse e che intenzioni avesse.
 Che cosa poteva volere da una come me? Mi guardai allo specchio, mentre salivo con l’ascensore al settimo piano: avevo i capelli bruni, che non arrivavano alle spalle, e la matita mi era colata sotto gli occhi, accentuando le mie occhiaie, in più il vestito assumeva una forma orrenda schiacciato in quella sedia a rotelle (o forse questa era solo  una scusa per non ammettere che dovevo seriamente cominciare una dieta). Non trovai risposta alle mie domande, perché l’ascensore tintinnò ed io fui sommersa da ben altri problemi.
Quando uscii, lui non c’era, ma comunque fosse, avevo una scadenza imprevista per il giorno seguente e avevo altri pensieri per la testa. Il giorno dopo, però, era di nuovo lì, e come quello prima, mi aprì la porta, mi guardò, ma non mi sorrise. E poi ancora, nuovo giorno, stessa storia, e andò avanti così per due giorni ancora, fino a quando, al terzo, non lo incrociai al bar lì vicino.
Avevo mezz’ora di pausa prima di iniziare una riunione, così ero scesa per prendere qualcosa da bere e me lo ritrovai lì, seduto ad un tavolino, il bicchiere vuoto e la schiena curva, a formare una “C”. Gli passai accanto, e avvicinandomi, notai che aveva gli occhi arrossati. O quello era il risultato di un’intensa seduta di canne con i ragazzi di Finnick Street, oppure aveva pianto.
Senza pensarci troppo mi accostai al suo tavolo, chiamai il suo nome, per attirare la sua attenzione, e questi alzò la testa di scatto, quasi sorpreso di vedermi lì.
-Sono Eve. Ti ricordi? – aggiunsi, mentre attuavo un’accurata manovra di soffocamento della mia voce interiore, che continuava a ripetermi quanto stupida dovevo sembrare in quel momento.
Lui annuì,  senza liberarsi della sua espressione stravolta.
-Tutto bene? – chiesi.
Lui fece un altro cenno di assenso, poi aggiunse un “Sì” molto a bassa voce.
-Perfetto. Allora posso offrirti qualcosa! Ti va un caffè? – proposi, impertinente come di mio solito. Ignorai la sua faccia, che pareva tanto sperare che me ne andassi (se voleva cacciarmi doveva tirare fuori le palle e farlo come si deve!), - Aspettami qui – dissi e andai al banco per ordinare due caffè.
Quando tornai, Ombra era ancora lì e cercai di attaccare bottone.
-Non ti avevo mai visto in giro. Non sei di queste parti, vero? –
-No. Sono arrivato da poco – aveva risposto, vago. Sembrava a disagio, non tanto nei miei confronti, quanto più di se stesso.
Decisi di non essere troppo crudele e di non insistere. Lasciai che se ne andasse, con una scusa accampata, appena ebbe finito il suo caffè.
Probabilmente avevo esagerato, perché Ombra non si fece vivo il giorno seguente, né tutta la settimana che venne. Forse lo vidi solo una volta, per strada, ma poteva benissimo non essere lui.
 
Non lo notai subito, perché, quando entrai in ascensore avevo un blocco di fogli tra le mani,  stavo sfogliando l’ultima relazione che presto avrei dovuto consegnare. Mi prese quasi un colpo, quando qualcuno parlò all’improvviso.
-Eve – aveva detto Ombra, nel tentativo di attirare la mia attenzione. Io alzai la testa e lui cercò come sempre il mio sguardo.
-Oh, sei tu! Ciao! – risposi – Come stai? È da parecchio che non ti vedo! – aggiunsi: odio i silenzi in ascensore.
Ombra mi sembrava leggermente arrossito e dovette schiarirsi la voce, prima di riuscire a rispondermi.
-Sono… sono stato via. Tu come stai? – mi parlava senza mai smettere di guardarmi negli occhi, era come se per lui esistesse solo il mio sguardo.
-Bene. Che fai? Mi segui? -
La domanda schietta, lo mise più a disagio, infatti distolse per la prima volta lo sguardo.
-Io… ehm… no… -
-Se mi dai una prova convincente che non sei un sicario, venuto qui per uccidermi, potrei anche invitarti a cena… -
La mia proposta spiazzò Ombra, che esitando un attimo di troppo, perse l’occasione. L’ascensore,infatti,  raggiunse il piano terra e le porte si aprirono.
-Peccato. Sarà per un’altra volta – dissi, mentre uscivo dal cassone di ferro. Una parte di me (anche abbastanza imponente) sperava che mi seguisse. Ma naturalmente, quell’idiota non lo fece.
 
-Allora, hai riflettuto sulla mia proposta?-
Il mattino dopo, Ombra era di nuovo lì, più al disagio del solito, ma per qualche motivo era venuto.
Che strano uomo, pensai tra me.
-Eve … - iniziò a dire, ma io l’interruppi.
-Lo prenderò come un sì. Ci vediamo stasera da Paul’s. Lo conosci? Sta a Rose Street. Alle otto – feci io, sgommando dentro al palazzo, - Ci conto, eh! –
 
Il ristorante di Rose Street era piuttosto affollato quella sera, ma in un paese piccolo come il mio non c’è mai bisogno di prenotare: Paul, il proprietario, era un vecchio amico di famiglia, che si era largamente arricchito sulla vastità dei nostri stomaci, in quegli ultimi vent’anni; ci avrebbe fatto saltare la fila.
In più era vicino casa, quindi potei arrivare a piedi, nonché in anticipo, ma lui era già lì.
Non indossava vestiti diversi dal solito, aveva una maglietta nera a maniche lunghe, nonostante facesse molto caldo, e un paio di pantaloni, neri anch’essi.
Gli andai incontro e gli sorrisi.
-Ehi, ciao! Allora non mi hai dato buca! –
Lui arrossì e scosse leggermente la testa.
-Be’, entriamo, no? –
-E la fila? –
-Oh, non preoccuparti di quella. E se qualcuno protesta, poi, potrò sempre investirlo – e sottolineai la cosa dando due colpetti ad una delle ruote. Questo gli strappò per la prima volta un sorriso.
 
Ombra non era di molte parole, né di grande appetito: mangiai quasi il doppio di lui, nonostante il mio status attuale fosse di dieta forzata. Questo, però, non significa che mi fece sentire sola.
Innanzitutto, ascoltava molto e lo sapeva fare molto bene, e poi, quando parlava, non diceva mai cose inutili, non ti aspetteresti da lui un commento come “Ahi, scotta!” oppure un “Davvero squisito!”. Doveva essere una persona che, essendo sempre vissuta da sola, aveva imparato a ridurre le chiacchiere al minimo. Era una cosa così lontana da me, che mi affascinava! E poi, c’ero già io a contribuire ai tre quarti dell’inquinamento acustico del locale.
E mi piaceva la sua voce, era grave e sempre molto moderata nel tono, sembrava quasi sussurrasse. Quando parlava, le sue parole lente  e strascicate, si appoggiavano ai timpani come vecchie foglie ingiallite sull’asfalto.
Tra una portata e l’altra, gli raccontai mezza storia della mia vita, gli dissi perché ero su quella sedia a rotelle, che fine avevano fatto i miei genitori e che lavoro facevo.
Uscimmo dal ristorante quasi due ore più tardi, io quasi non avevo più voce, mentre lui non mi aveva raccontato praticamente nulla di sé. Il vino, per giunta, aveva aizzato la mia parlantina, e finito di atterrare la sua.
-La mia casa è di là! – dissi, - Ehi! Tu non mi hai neanche detto dove abiti! –
-Perché non è importante – rispose.
-Su questo ne dobbiamo discutere … -
Lui fece un mezzo sorriso.
-Beh, allora io vado –
-No, aspetta. Ti accompagno. – fece lui, non sembrava convinto al cento per cento delle sue parole, probabilmente si era morso la lingua subito dopo aver pronunciato quella frase, ma non si tirò indietro.
Ci incamminammo. Stavo valutando l’idea di afferrargli la mano, ma mi pareva un po’ un nuovo azzardo, per fortuna fui distolta, quando lui mi chiese:
-Mi dai il tuo numero di telefono? –
Io sorrisi.
-Certo. Ce l’hai un foglio e una penna? –
-Ho una buona memoria – rispose.
Gli dettai il numero, mentre lui ripeteva ogni cifra col labiale e mi guardava dritta negli occhi.
-Io dovrei avere un’agenda nella borsa. Ho una pessima memoria con i numeri, a stento mi ricordo quello di mio padre!  Se me la prendi, mi segno il tuo – dissi, porgendogli una borsa di pelle, nera e celeste.
-Io non ho un telefono, Eve –
-Oh –
E in quell’ “oh” andarono in fumo tutte le mie speranze di prendere il controllo della situazione, sarebbe stato lui a mantenere il coltello dalla parte del manico, decidendo quando vederci e quando telefonare.
-Ma ti chiamo presto – disse, sempre senza interrompere il contatto visivo.
Nel frattempo eravamo arrivati di fronte alla mia casa, eravamo esattamente nel punto dove ci eravamo visti la prima volta.
-Sono stata bene, stasera –
Ombra sorrise.
-Avvicinati, dai – dissi, tirandolo giù. Adesso era davanti a me, con il viso paonazzo – Grazie, davvero – aggiunsi, poi mi protesi verso di lui, chiusi gli occhi e cercai di baciarlo, ma Ombra si scostò.
-Scusami…. – fece lui – Non posso…  non… - si rialzò – Domani… domani ti chiamo… - e in un attimo era già sparito lungo il viale.
Rientrai in casa cercando epiteti per la mia stupidità. Non avevo voluto tenergli la mano, ma avevo cercato di baciarlo?! Di certo non era un donnaiolo che faceva la parte del misterioso per portasi le donne a letto. Ma se non era interessato a me, perché tutte quelle attenzioni? Perché seguirmi?
La mia mente era ora frustrata da altri mille dubbi, poteva anche essere una persona timida, ma se fosse stato un uomo pericoloso? C’erano troppe cose che non sapevo di Ombra.
 
Aveva detto che l’indomani mi avrebbe chiamato, e invece non lo fece. Rimasi delusa e le congetture su di lui triplicarono.
Quel week-end lo passai lontana da tutta quella storia, ero andata a Liverpool a trovare mio padre. Una volta in città, iniziai a guardarmi intorno, pensando che se mi avesse seguito fin lì, era decisamente uno stalker, un sicario o un maniaco. Con mio grande sollievo non c’era.
Ma era a casa al mio ritorno.
Non era Ombra in carne e sangue, ma sotto forma di inchiostro e cellulosa. Era una lettera.
 
Eve,
mi dispiace se l’altra sera sono andato via così. È complicato. Venerdì non sono proprio riuscito a  trovare il tempo per chiamarti, ero via.
Spero che possiamo vederci di nuovo.
Un saluto.
 
Aveva una scrittura sottile e spigolosa, la lettera era scritti su una carta grezza  e non c’era alcun timbro postale, né l’indirizzo del mittente.
Rimisi la lettera nella busta e la andai a riporre da parte. Era dolce, a suo modo; era tipica di Ombra.
Il giorno seguente mi chiamò, ma non mi è mai piaciuto molto parlare per telefono, soprattutto in questi ultimi anni, ho brutti ricordi al riguardo. Sia lui che io fummo di poche parole ed io strinsi al succo: ci demmo un nuovo appuntamento e riagganciammo.
 
-Ti piace viaggiare? – chiesi io.
Eravamo al parco, che eccezionalmente, essendo agosto, era aperto anche fino a sera tardi. C’era un laghetto e un viale puntellato di albero, dove noi passeggiavamo piano; si sentiva solo il rumore delle nostre voci e il motorino elettrico della mia sedia a rotelle. Era passato un mese.
Lo vidi scrollare le spalle.
-Ho perso gusto per molte cose di recente – rispose lui, ma ormai mi ero abituata alle sue sentenze di morte, così non gli diedi peso.
-A me piacerebbe. Sono stata in Irlanda, una volta, e sulla costa settentrionale della Francia, ma non è facile andare lontano con questa – e diedi due schiaffetti al bracciolo della carrozzella. – Tu hai viaggiato molto? –
-No, non sono mai andato oltre il canale d’Irlanda. –
-Dici sul serio? E c’è un posto dove ti piacerebbe andare? – domandai ancora.
-Non lo so. Non m’importa. –
-Mai un pensiero positivo, eh, Ombra? Devo farti ubriacare una di queste sere! – mi feci più vicina, avendo ben cura di non arrotargli un piede – Io vorrei andare a Barcellona, oppure a Parigi. Ma se proprio potessi, volerei dritto in posti lontani, il Perù mi ha sempre affascinato… -  dissi, facendomi prendere dall’entusiasmo – E tu? Proprio da nessuna parte? –
Sembrò pensarci su, stavolta.
-Praga – disse, senza aggiungere altro o dare spiegazioni.
-Praga? Posso chiederti perché? –
-Dicono che sia un posto magico… - rispose, vago, anche se quella non sembrava una risposta “alla Ombra”.
-Hai mai volato? –
-Diciamo di sì… -
-Wow, dev’essere stato eccitante! –
Ancora una volta, scosse semplicemente le spalle, invece di rispondere.
-Basta così. Adesso andiamo a comprare un po’ di alcol! – e detto questo gli afferrai una mano e diedi un’accelerata, trascinandomelo dietro.
-No, dai, Eve. Aspetta! – mi gridò dietro, ma non riuscì a fermarmi, prima che gli si mozzasse il fiato.
-Avanti, siediti. Sei un po’ fuori allenamento, da domani sei convocato davanti casa mia alle sei e mezza, verrai un po’ a correre con me nel parco. – e mentre stavo dicendo questo, lo accompagnai ad una panchina, sotto un albero ricurvo, che formava un ombrello con la sua chioma.
Ci fu un attimo di silenzio, c’erano spesso se non ero io ad intavolare un argomento, ma la cosa mi piaceva, perché nessuno di noi due si sentiva a disagio, quando capitava. Ne approfittai per soffermarmi a guardare il lago, c’era una sorta di fenicottero, o comunque un uccello che si era appollaiato su una sola zampa, sulla riva, circondato da una manciata di anatre e una foresta di piante acquatiche. Era molto suggestivo.  Poi mi accorsi che Ombra mi stava fissando,  ma quando mi volsi verso di lui, questi velocemente distolse lo sguardo altrove. Fu il mio turno di guardarlo sottecchi, mi capitava spesso di indugiare sul suo profilo affilato, il cui colore pallido della pelle veniva interrotto solo dal pizzetto che gli avevo fatto crescere sul mento. Mentre lo osservavo, fui colta da un impeto di affetto nei suoi confronti.
-Sei mai stato innamorato? – la domanda uscì spontanea, come mi fosse scivolata sulla lingua, senza passare per il cervello.
-No – rispose, senza esitare nemmeno un secondo.
-Io forse sì, una volta. Ero solo una ragazzina allora, avevo diciassette anni, e lui era il mio compagno di banco … - dissi, non senza velare di un pizzico di malinconia la voce.
-Siete stati assieme? – mi chiese, senza smettere di fissare il lago.
-Per un mese. Mi lasciò lui, perché non ero il suo tipo – risposi, sbrigativa, ricordando che era tutto dominio del passato ormai – E tu? Quali sono le tue storie più scottanti? – domandai, caricando la voce di un tono malizioso.
-Mi hai guardato bene in faccia? – rispose, facendo leva sulla sua alta concezione di sé.
-Sì, Ombra. E non ha nulla che non va! – la sua espressoone scettica mi fece capire che non l’avevo convinto – E’ sicuramente perché non avevi il pizzetto! – e detto questo mi sporsi verso di lui e gli appoggiai un bacio sulla guancia.
Ombra sobbalzò e arrossì.
-Non mi starai dicendo che non hai mai avuto una ragazza? – era una domanda un po’ cattiva, ma doveva abituarsi anche a quelle.
Per tutta risposta, Ombra diventò ancora più rosso e abbassò lo sguardo. Mi venne da sorridere, sembrava così diverso, ora.
-Comunque non c’è problema… rimediamo subito… - mi feci ancora più vicina e gli appoggiai una mano sulla guancia, questi cercò di svincolare nella direzione opposta, ma con l’altra mano lo ebbi in pugno e lo baciai, ma fu solo un tocco, poi mi separai, volevo che sapesse una cosa.
-Volevo solo dirti che, forse, mi sto innamorando di te –
Lui non mi rispose, né io aspettai che lo facesse, lo baciai di nuovo, stavolta a lungo. Gli passai le mani dietro al collo e tra i capelli, mentre avrei tanto voluto abbracciarlo.
 
Una decina di giorni dopo stavamo passeggiando per quello stesso parco, ma adesso ero riuscita ad ottenere che ci stringessimo le mani.
-In Scozia, almeno lì ci sei stato? –
Annuì.
-Sono… andato a scuola lì – rispose.
-Davvero? Che cosa fantastica! Come mai così lontano? –
Ombra scollò le spalle e borbottò qualcosa tipo “I miei genitori… “.
-In che parte della Scozia? –
-Ehm… nelle Highlands… tra un lago e l’altro… -
-Caspita, è proprio dove speravo di andare tra qualche giorno! – esclamai, entusiasta – Venerdì mi danno le ferie: due settimane. Stavo pensando di andare nella terra dei laghi… - lasciai sapientemente la frase in sospeso, di modo che Ombra potesse intuire le mie intenzioni. Lo guardai: - Ci verresti con me? –
Lui si strinse nelle spalle.
-Va bene .-
-Ehi, frena l’entusiasmo, Ombra. Non vorrai farti salire la pressione – lo punzecchiai e lui si scusò, dicendo che ci teneva sul serio a venire, ma questo l’avevo già capito.
 
Partimmo alla volta delle Highlands il 18 agosto e saremmo tornati dieci giorni più tardi, perché Ombra sarebbe dovuto andare di nuovo a lavorare.
Poiché nessuno di noi due sapeva/poteva guidare, abbracciammo l’idea del treno e una volta giunti a destinazione, avremmo incontrato la nostra guida, che ci avrebbe scortato per il paese.
Il viaggio in treno non fu molto piacevole, Ombra sembrava più di malumore del solito (il che dice già tutto), quindi vennero meno anche le sue tanto amate risposte a monosillabi. Fortunatamente la situazione migliorò nettamente al nostro arrivo, l’aria della Scozia sortì un ottimo effetto su di lui, che riprese ad intrattenere relazioni con altri esseri umani.
Avevamo prenotato il nostro albergo vicino a Loch Katrine: dava proprio sul lago, dal qualche era separato solo da una piccola stradina. Era molto carino, come l’avevamo visto in foto: in legno, con i fiori su ogni balconcino e ampie finestre.
Era quasi sera, ma nessuno di noi aveva voglia di chiudersi già in hotel, così decidemmo di andare a fare un giro prima di cena. Camminammo fino ad arrivare ad uno spiazzo mozzafiato: la riva del lago aveva l’aspetto paludoso, il fondo era basso e la sabbia biancastra si confondeva con la ghiaia e traspariva da sotto l’acqua, macchiata a sprazzi da canne e piante acquatiche. Era una di quegli spettacoli che avrei potuto guardare per sempre, senza mai essere capace di stancarmene o di trovare un difetto. (Okay, non mi fissate così, ci ha già pensato Ombra a farmi notare la stranezza delle mie parole!).
-Ecco vedi, questo è il motivo per cui sono voluta venire qui! – esclamai, letteralmente estasiata dal paesaggio.
-Una palude? – chiese lui, seriamente perplesso.
-Ah, a proposito, domani ti devo presentare ad un mio amico, si chiama Romanticismo. Sto iniziando a considerare l’idea di chiudervi in una stanza assieme per un paio d’ore. – ribattei, sarcastica, prima di lasciarmi rapire di nuovo dal lago. – Vorrei tanto toccare l’acqua – era un pensiero riservato solo a me, ma quando mi accorsi che l’avevo detto a voce alta, era troppo tardi, così aggiunsi – Passami le stampelle –
Ombra guardò prima me, poi le stampelle e infine la mia meta, mentre sulla sua faccia si delineava un’espressione che sembrava voler mettere in serio dubbio le mie capacità mentali.
-E come pensi di arrivare lì? –
-Con due gambe inutili e un paio di stampelle, quelle che se non mi passerai, mi prenderò da sola –risposi, mettendomi sulla difensiva.
-E’ pericoloso e stupido, Eve –
-Va bene, me le prendo da sola, ho capito – la sua osservazione, per quando giusta, stava sottolineando  il mio più grande limite e non potevo sopportarlo. Mi torsi e cercai di afferrare le stampelle, ma Ombra fu più veloce: sia avventò su di me e mi sollevò di peso tra le sua braccia.
Iniziò ad avviarsi verso il lago ed io fallii ogni tentativo di guardarlo accigliata, la mia espressione di disappunto era più che altro una smorfia, che presto si tramutò in una risata.
-Per questa volta te lo concedo, Ombra –
Si fermò solo quando la ghiaia lasciava il posto ad una sabbia così fine che vi sarebbe sprofondata anche una zanzara. Ma quando si chinò, per cercare di farmi toccare il pelo dell’acqua, si sbilanciò e perse l’equilibrio, facendo finire entrambi con il didietro nel lago. Ci fu un attimo di silenzio, in cui ci riprendemmo dalla botta e ci assicurammo l’uno delle condizioni dell’altro, poi io scoppiai  un’altra volta a ridere e Ombra, incredibilmente, mi seguì. Anche la sua risata era silenziosa e discreta, non era affatto la droga contagiosa che fa scoppiare a ridere chiunque nel raggio di un miglio, ma c’era comunque qualcosa di affascinante nel vederlo ridere così.
-E tu che dicevi che le stampelle erano una cattiva idea! – lo provocai, strizzandomi le punte dei capelli – Sono tutta, completamente, inzuppata! –
-Perché come pensi che saresti finita con quelle? Però, forse era davvero un’idea migliore, almeno io sarei rimasto asciutto! – scherzò. Ombra stava scherzando!
Lo schizzai – Grazie di avermi trovato il lato positivo della faccenda! –
L’acqua era quasi calda, come il mare di sera, o almeno così volevano farci credere le nostre membra tremanti, pur di rimanere ancora un po’ così. Strisciando sulla ghiaia, riuscii a raggiungere Ombra, gli presi il un braccio e me lo feci passare attorno alle spalle, poi mi appoggiai al suo petto.
Il sole era già tramontato, ma c’era ancora tanta luce che si era lasciato dietro; il cielo grigio e bianco era ancora quasi del tutto irradiato. L’aria era umida e senza vento, c’era quel tipico odore di lago, mescolato ad un sapore di pioggia e al profumo caratteristico di Ombra.
 
Quando stavano per calare le tenebre, infreddoliti e zuppi d’acqua, prendemmo finalmente la saggia decisione di incamminarci verso l’alloggio, che per fortuna, non era lontano.
Appena arrivammo, una volta attuata la manovra di defilamento dell’ispezione della  portinaia, ci sfilammo i vestiti bagnati, prendendone di nuovi, ed io filai in bagno, per asciugarmi i capelli, prima di presentarmi a cena. Avevo lasciato la porta aperta, e mentre mi spazzolavo, avevo discusso  con Ombra dei posti che intendevamo visitare per primi, l’indomani. Poi io avevo acceso l’asciugacapelli e mi ero dovuta accontentare di osservarlo nel riflesso.
Lui non se n’era accorto, si era seduto sul letto e mi dava le spalle. Non riuscivo a capire esattamente cosa stesse facendo, ma vidi che stava armeggiando con una fasciatura. Poi, quand’ebbe finito, andò a sedersi su una delle sedie, a guardare fuori dalla finestra. Era una cosa che Ombra faceva molto spesso.
Il rumore del phon riempiva la stanza e le dava una dimensione di protezione e intimità che faceva sembrare che stessimo a casa. Sentivo i brividi di freddo scivolare giù la mia spina dorsale e abbandonarmi, mentre la mia faccia si faceva paonazza per il getto di calore. Era bello guardare Ombra con lo sfondo freddo della finestra sul lago: fuori aveva iniziato a piovere ed era calata la notte, dentro c’era una luce soffusa che diventava calda e accogliente, grazie al colore rosso e arancione della tappezzeria.
Poi Ombra voltò la testa e finalmente si accorse di me nello specchio, e mi sorrise con gli occhi, ed era  una cosa così rara vedere i suoi occhi illuminarsi…
Distolse subito lo sguardo, ed io senza indugiare, abbandonai l’asciugacapelli e afferrai le stampelle, mi sistemai sulle mie gambe malferme e uscii dal bagno. L’attenzione di Ombra fu catturata da una donna claudicante che si muoveva nella sua direzione. Gli sorrisi subito, perché un sorriso ammaliante era l’unica cosa eccitante che gli potessi offrire. Zoppicando, in un contorcersi di spalle e braccia, arrivai davanti a lui; mi guardai dall’alto in basso e mi strinsi nelle spalli, con un’espressione un po’ dispiaciuta, poi, molto cautamente, mi misi a cavalcioni sulle sue gambe e abbandonai le stampelle.
Ombra ovviamente arrossì e s’irrigidì. Iniziai a baciarlo, prima sulle labbra, poi feci scendere le mani sul suo petto e presi a baciargli il collo, mentre lo sentivo trattenere il respiro ed il suo odore m’inebriava. Feci saltare via un bottone e poi un altro, le mie mani passarono sulla sua pelle nuda.
E a quel punto mi fermò.
-Eve, no. Basta – mi disse, con la voce rauca.
Io mi arrestai a metà di un bacio e stavolta anche le mie guance si colorarono di rosso.  Tutta la mia sicurezza salì a galla come una bolla e scoppiò.
-Scusami, Ombra. Scusami – dissi, riallacciandogli la maglietta, litigando con le asole per la fretta - …è che io credevo… no, ma hai ragione… una come me… vado… vado a finirmi di preparare per la cena … - avevo il viso in fiamme, le orecchie avrebbero potuto prendermi fuoco, volevo togliermi il più presto possibile da dosso a lui, ma le stampelle erano a terra, irraggiungibili e mi sentii ancora più stupida, mentre invano cercavo di afferrarle.
Mi aveva rifiutato. Di nuovo. Come spesso rifiutava i miei baci, e non era mai lui a cercarli, ero sempre io a prendere l’iniziativa. Mi domandai se non avessi forzato troppo le cose, portandolo al punto in cui si era sentito costretto di intraprendere quella relazione.
Le cose che mi frullarono per la testa in quei pochi secondi e il suo silenzio mi stavano facendo impazzire, e non riuscivo a scendere! Mi chinai quanto più potei, ma, proprio quando persi l’equilibrio, lui scattò e mi afferrò. Usò quella stessa presa per farmi fermare un minuto a guardarlo. Ebbi solo un attimo di tempo, prima che lui mi baciasse. Lo fece  con un impeto incredibile, travolgendomi di nuovo nel suo odore.
Questa volta le mie mani si mossero veloci a togliergli la maglia, lasciando scoperto il suo petto pallido e villoso e un braccio completamente avvolto in delle bende. A quel punto fui io a fermarmi e lo guardai, spaventata.
-Che cosa ti sei fatto? –
Lui scosse le spalle – Spegniamo la luce – rispose, evitando la domanda. E detto questo mi prese in braccio e, fatto scendere il buio nella stanza, mi stese sul letto. Lo intravidi nella penombra fissare, imbarazzato, la scena e poi seguirmi tra le coperte. Mi sfilai di dosso i vestiti, mentre lui quasi non osava toccarmi, poi lo tirai a me, gli slacciai i pantaloni e ripresi a baciarlo.
Finalmente sentii il tocco delle sua mani sul mio corpo, mentre i suoi capelli mi solleticavano la faccia e la garza ruvida mi graffiava la pelle. Vedevo alla luce sottile che proveniva da fuori suoi lineamenti così normali, così poco perfetti, ondeggiare tra le lenzuola, gli occhi chiusi, che non mi guardavano, e il cuore che pulsava forte contro il mio petto.
 
Il mattino dopo ci svegliammo affamatissimi e cominciammo le nostre escursioni. Dopo quella notte, tra noi ci fu tutt’un’altra complicità. Sentivo il mio battito accelerare appena mi spuntava davanti e provavo l’istinto di sorridere appena gli ci stringevamo la mano, mi sembrava di essere tornata ad avere quattordici anni. Ombra, ovviamente, non mostrava nessuno di questi sintomi, ma prese a cercarmi più spesso e, se lo abbracciavo, si stringeva a me per molto tempo, s’infilava nell’incavo del mio collo e lo potevo sentire respirare contro la mia pelle. Era quello il suo modo per esprimere ciò che provava per me.
Per dieci giorni girammo per ogni angolo più remoto della Scozia, nessuno di noi due amava particolarmente le grandi città, così non fu difficile trovare un accordo sulle mete. C’erano molte foreste, riserve naturali e cascate lì, nonché più laghi che terra emersa, e noi ci spingevamo ogni volta più a Nord.
L’ultimo giorno fu il turno  dell’isola. Avevamo prenotato un traghetto per una delle isole più sperdute e spopolate del paese e decidemmo di inerpicarci lì, nonostante le avvertenze di Dave, la nostra guida, che ci aveva sconsigliato di andare, poiché era prevista una forte tempesta nel pomeriggio-sera.
L’isola era davvero piccola come ci era stata descritta, quindi era visitabile benissimo anche a piedi e la giornata era ancora luminosa e calda.
Quando sbarcammo nel porticciolo, ci fu subito chiaro che quello non era un posto per turisti ed io ne fui entusiasta (inutile dire lo stesso di Ombra, per lui “poche persone” equivale, più che altro, ad una grazia calata dal cielo). Non c’erano assordanti insegne che indicavano questa o quella taverna, né tutti i negozi di souvenirs che ci avevano perseguitato lungo il viaggio. Le uniche barche ormeggiate erano quelle dei pescatori locali, alle quali si aggiungevano solo un paio di traghetti sgangherati che facevano la tratta con la terra ferma.
-Ombra, ho avuto un’idea! – esclamai, non appena la mia scansione del luogo ebbe successo.
Lui mi guardò con un’occhiata interrogativa (non dirò “preoccupata”, perché suona così male ) ed io, per tutta risposta, gli indicai un cartello a forma di freccia.
-C’è un percorso ciclabile attorno all’isola! – mi guardò storta – Potresti affittare una bicicletta, così ci facciamo il giro – e qui lessi – “più mozzafiato di sempre!”, non particolarmente sagacie come slogan, ma efficacie –
-C’è un problema, Eve – disse, mentre approdavamo dal molo di legno sulla banchina di cemento – Io non so andare in bicicletta –
-Intendi dire che sei una schiappa o che non ci hai mai provato? – chiesi io, sorpresa e divertita allo stesso tempo.
-Ci sarò andato un paio di volte quando avevo dieci anni … ma non ho mai imparato… -
Io scoppiai a ridere.
-Non sai guidare! Non sai andare in bicicletta! Penso che a questo punto debba abbandonare le mie aspettative sugli sci! – lo schernii e qui lui mise in atto la numero una della top ten delle sue risposte preferite: scrollò le spalle. – Va bene, non m’interessa. Oggi è la volta buona che impari! –
Il noleggio di vecchie biciclette scrostate dalla salsedine era poco fuori dal paese, il che equivaleva a dire a due minuti di cammino, e fortunatamente riuscii a trascinarvi Ombra senza troppi battibecchi. Feci irruzione nel negozio, prima che potesse dissuadermi, e affittai una bicicletta color pervinca (che rendeva il tutto più… gradevole agli occhi) e la consegnai ad un Ombra molto riluttante.
-E beh? Non Sali? –
-E’ rosa – sottolineo, con un cipiglio nero sul viso.
-No, è pervinca. Adesso dammi lo zaino e sali, non fare storie, Ombra. –
Da qui comincio il mio (crudele) divertimento. Mi misi la sua sacca sulle gambe e lo guardai mentre si arrovellava per riuscire a raggiungere il sellino, solo dopo cinque spassosi minuti, i miei sbuffi di risate lo insospettirono e si risolse ad abbassarlo. Riuscì finalmente a mettersi in sella.
-E adesso? –
-L’hai voluta la bicicletta? E adesso pedala! – fu più forte di me, non potei non rispondergli così.
-Più tardi faremo una ripassatina su come coniugare i verbi e sulla natura dei pronomi personali, Eve – minacciò, accigliato.
Da quel momento in poi, i tentativi di fare più di quattro centimetri in equilibrio si susseguirono e Ombra iniziò a salutare più volte il terreno con la faccia, nonché a dare sfoggio del suo più raffinato vocabolario di imprecazioni.
Due ore e mezzadopo  tornammo a destinazione, con lui che si era risolto a pedalare appoggiandosi alla mia carrozzella.
-Però è stato bello. Era veramente fantastico il panorama! – dissi, dopo che avemmo riconsegnato la bici (ormai più color fango che pervinca).
-Io al massimo ti posso descrivere quanto era stato bello l’asfalto! – borbottò Ombra.
Per distrarlo dal disastroso tentativo della pista ciclabile, andammo a cercare qualcosa da mangiare e passammo il pomeriggio tra i vicoli, nel microscopico museo pseudo-vichingo e, sul fare della sera, tornammo al molo. Ma, quando ci riaffacciamo sul mare, fummo investiti da un vento costante e carico di aria salmastra: la guida, ovviamente, aveva ragione, tutti i collegamenti erano stati interrotti per la notte.
Rimanemmo lì per un po’, Ombra mi aveva preso in braccio ed ora era seduto con i piedi penzoloni sul molo, con me tra le gambe, tenendomi stretta in vita.
-Non mi hai mai detto che lavoro fai! – feci io, come colta da un’illuminazione.
Non potevo vederne la faccia, ma, a giudicare dal tempo che impiegò a rispondermi, capii di aver toccato un punto delicato.
-Non posso dirtelo, Eve – asserì, in tono serio.
-Perché? –
-E’ complicato. Un giorno ti dirò tutto  rispose.
Si avvicinò col viso al mio, eravamo così vicini che i nostri occhi vedevano le stesse cose.
Mi lasciai trasportare dalla brezza marina e dall’eterna vista del mare, sperando che il soffio rumoroso del vento smorzasse i miei pensieri: tutti quei segreti, tutti le cose che non sapevo di Ombra, continuavano a frullare nella mia testa.
-Fa freddo. – dissi a un certo punto, non riuscendo più a sostenere la cosa – Vieni con me, ho un’idea! –
Lui sbarrò gli occhi – Un’altra? – mugolò.
-Avanti, questa ti piacerà! – tagliai corto.
Ovviamente mentii.
La mia idea, che era indiscutibilmente fantastica, non piacque per niente ad Ombra. In fondo avevo solo trascinato la persona più misantropa che conoscessi in un locale affollato di corpi sudaticci e schiacciati l’uno contro l’altro, altresì noto con il sostantivo di “discoteca”.
Una volta entrati, il rumore assordante ci avvolse e già vedevo la faccia di Ombra caricarsi d’odio, così me lo tirai verso il bar e prendemmo qualcosa da bere, mentre in tutti i modi cercavo di trascinarlo in pista.
-Non credo che un’idea sia mai stata tanto lontana dal passarmi per la testa. Non grazie, Eve – adesso non pronunciava più il mio nome leggendo la “e” finale come “i”, diceva soltanto “Ev”.
-Andiamo assieme allora! Avanti, perché sei così restio? È divertente!-
Lui lanciò uno sguardo obliquo a i tizi che si agitavano, braccia e gambe, tra le luci psichedeliche e il fumo artificiale.
-Abbiamo due concetti diversi di “divertente” -
E in quel momento partì un pezzo di Stevie Wonder, dandomi il pretesto finale.
-Oh, adoro questa canzone! Ti prego… solo questa! – e misi in pratica le tre S del codice internazionale donne-figlie-fidanzate: Sguardo, Sorriso, Sopracciglia.
Il risultato è assicurato. Infatti…
-E va bene. Solo una. –
Ci lanciammo in pista, o meglio io feci una sgommata e Ombra credo abbia raggiunto la velocità minima consentita per essere dotati della definizione “in movimento”. Non che si possa dire che Ombra ballò, più che altro occupò una parte della pista da ballo con la propria massa corporea, ma almeno ero riuscita a portarlo fin lì.
Il pezzo si estinse e il falsetto di Stevie Wonder lasciò posto ad una fisarmonica ed un piano. Era partito il lento.

The screen door slams
Mary’s dress waves
like a vision she dances across the porch
as the radio plays

 
Gli presi una mano e poi l’altra ed iniziammo ad ondeggiare sulle note di Thunder Road.

Roy Orbison singing for the lonely
hey that’s me and I want you only
don’t turn me home again

I just can’t face myself alone again
 
Ombra si faceva trasportare dai miei movimenti, quasi senza opporre resistenza. Lo vidi molto concentrato sulla canzone.
 
don’t run back inside
darling you know just what I’m here for
so you’re scared and you’re thinking
that maybe we ain’t that young anymore
show a little faith
there’s magic in the night
 
Dopo un po’, mi lanciò un’occhiata, si chinò e mi prese in braccio. Abbandonammo la sedia a rotelle al lato della pista e danzammo sulla voce ruvida di Springsteen, vicini, mentre lui cantava le parole che Ombra sembrava dirmi ogni giorno e che per me erano le più preziose:

you ain’t a beauty
but hey you’re alright
and that’s alright with me
 
Presto la gente vicina iniziò a notare la scena e a stringersi a cerchio attorno a noi, come fossimo artisti di strada. Ombra aveva gli occhi chiusi e non lo notò, era completamente perso nella dimensione della musica.
 
You can hide `neath your covers
and study your pain
make crosses from your lovers
throw roses in the rain
waste your summer praying in vain
for a savior to rise from these streets

E, senza pensare che alter venti persone ci stavano fissando, lo baciai. Lui non uscì dalla sua condizione ascetica, fui più che altro io ad entrare nella sua, e a dimenticarmi del resto.
 
Well now I’m no hero, that’s understood
all the redemption I can offer, girl
is beneath this dirty hood
with a chance to make it good somehow
 
Quando la canzone finì, fortunatamente la folla si era diradata e Ombra non si accorse di nulla. Accettai finalmente di uscire di lì.
-Dove andiamo adesso? – mi chiese, la porta della discoteca si era richiusa alle nostre spalle, risucchiando il rumore all’interno.
-Vuoi davvero che tiri fuori un’altra delle mie idee? Ti conviene? –
-Tanto peggio della mia non può essere, Eve –
-Che hai in mente? –
Ombra sembrò ponderare per un attimo l’ipotesi di stare zitto e lasciare perdere, ma poi disse: - E se andassimo in spiaggia? –
-Aah, hai colto il mio punto debole, la spiaggia di notte. Grandioso! Facciamo un falò! Peccato solo che ci manca la chitarra –
In breve tempo raggiungemmo la spiaggia più vicina e, raccattata un po’ di legna, Ombra accese il fuoco; quindi mi distese sulla sabbia fredda e pallida, accanto a lui.
Il mare e il cielo, davanti a noi, si confondevano e mescolavano sull’orizzonte, era così buio lì, che era difficile capire se si stesse con gli occhi aperti oppure chiusi.
-Perché mi nascondi tutte queste cose, Ombra? – gli chiesi, sussurrando per non spezzare la quiete di quell’oasi naturale.
Lui assunse un’espressione sinceramente contrita.
-Eve, devi scusarmi, ma non può essere altrimenti. Un giorno capirai –
-Sempre con queste frasi vaghe… perché tanto mistero? Sei una spia, un latitante , un evaso? – dissi, un po’ scherzando, un po’ sul serio.
Lui rise.
-No, non ho mai avuto il piacere… -
-E che cosa nascondi sotto quella fasciatura? –
-Quale? –
-Non ci provare – gli presi la mano sinistra e gli alzai la manica, a scoprire l’avambraccio – Questa! –
-E’ solo… un brutto ricordo… meglio che resti così… -
-Cos’è? Un tatuaggio di cui ti sei pentito? –
-Sì… è così… - aveva un tono quasi affranto, quando disse tali parole.
-Voglio vedere – e, scacciandogli le mani, gli svolsi la garza: nella parte più interna dell’avambraccio aveva tatuato un teschio e un serpente, anche se si vedevano appena, non erano certamente realizzati in inchiostro.
-Ma è…? –
-Sì, è un marchio a fuoco – disse, tirandosi giù la manica più in fretta che poté, sembrava che quella vista gli fosse repellente.
-Posso chiederti perché l’hai fatto? –
-Tutti sono stupidi da giovani. C’è chi lo è un po’ di più – fu la sua risposta.
Decisi di non insistere, perché l’argomento aveva fatto scendere le tenebre sul suo viso. Così gli dissi:- Aiutami a togliermi le scarpe –
Se lui la trovò una proposta strana, non lo diede a vedere. Lo fece e mi diede una mano anche a sfilarmi i calzini, quindi mi afferrai le caviglie e ,con un grande sforzo, le sollevai per aria.
-Questo, invece, è il mio –
Quando avevo diciannove anni, mi ero fatta tatuare sotto le piante dei piedi due piccole orme di bambino con la scritta “I can – walk”. –Quando un giorno potrò camminare, lo farò scalza per tutto il paese e lo mostrerò a chiunque incontrerò per la via! – era uno dei miei progetti folli, ne avevo tanti per quel “dopo”.
-C’è qualche possibilità che tu possa guarire? – fece lui, ritornando a sorridere.
-Magari non in questa vita, ma in un’altra, perché no? –
-Capisco –
Un brivido mi fulminò la schiena.
-Senti freddo? – chiese subito lui.
Anche se il vento era calato, l’aria era umida e gelida. Riavvivò il fuoco e si fece più vicino, era dietro di me e riuscivo a vedere la sua ombra danzare sulla sabbia. Stava giocherellando con le punte dei miei capelli.
-Ombra – lo chiamai, lui chinò la testa in avanti, oltre le mie spalle. – Quanto starai via? –
-Devo solo sistemare un paio di cose. Non più di tre giorni –
-Tre giorni… - ripetei – Si può fare! Però non perdere tempo solo per stare alla larga da me –
-Non avevo intenzione di farlo –
Mi contorsi per incontrare per un attimo il suo sguardo, poi mi abbandonai di nuovo all’immensità del mare.
-Credo di essermi innamorata di te –
Lui rimase paralizzato, lasciò perdere i miei capelli e si alzò. Lo vidi sparire dalla pozza di luce lasciata dal fuoco, verso il bagnasciuga, ne distinguevo solo i contorni, confusi, nell’oscurità. Quando tornò da me, stava sorridendo.
-Anche io – disse.
   
 
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