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Autore: okioki    20/06/2013    1 recensioni
"Creatura quanto mai strana è l'uomo: insaziabile, sempre inappagato, irrequieto, mai in pace con Dio o con se stesso, di giorno tende senza posa a inutili mete, di notte si abbandona a un'orgia di desideri proibiti e malvagi."
5 classificata al contest Citazione Necessaria indetto da Gaea nel forum di EFP.
Genere: Fantasy, Malinconico, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Le tenebre



-Citazione scelta: 1

-Genere: Fantasy

- Rating: Giallo

Creatura quanto mai strana è l'uomo:
insaziabile, sempre inappagato, irrequieto,
mai in pace con Dio o con se stesso,
di giorno tende senza posa a inutili mete,
di notte si abbandona a un'orgia di desideri
proibiti e malvagi.
Jack London



Col il passare della notte le impetuose correnti del fiume erano andate attenuandosi, cullando con il loro lento movimento pensieri remoti.
Guin era sdraiato sull'erba alta che cresceva in prossimità del fiume, guardando le stelle, nel vano tentativo di mimetizzarsi con l'ambiente. Purtroppo, la Strada del Mare non era circondata se non da una distesa d'erba incolta, arida e stepposa, che assicurava ben scarso riparo e protezione.
Verso la riva del fiume la vegetazione era più alta, simile in qualche modo ai boschi della costa opposta. L'oscurità che pervadeva l'ambiente era rischiarata, allontanando dalla mente di Guin l'inquietante sensazione di essere osservato da entità oscure dall'altra lontana, fitta sponda. Per gran parte della notte era stato inquieto, con la mano vicino al pomo della spada, poi si era detto che era un comportamento imbecille credere che dall'altra parte del fiume ci fosse qualcuno che lo scrutava e preso dalla furia si era tolto la cinta, lanciandola da qualche parte nell'erba, rimanendo quindi immobile a guardare la volta celeste.
Anche nella lontana Terra delle Sabbie, quegli astri, dovevano avere un nome e da bambino lui l'avrebbe saputo, ma ora l'unico modo in cui riusciva a chiamarle era nel farrense comune.
Il cielo aveva assunto la colorazione violacea che preannunciava l'alba, quando li sentì arrivare.
Con gesto pigro lanciò nelle tranquille acque del Lioleto il torso di un frutto che stava mangiando, rimettendosi diligentemente la parte superiore dell'armatura e la cinta in cui teneva la daga e la borsa delle monete.
Salito il leggero dislivello tra la Strada del Mare e le rive del fiume, Guin si posizionò al centro del selciato. Sentiva il rumore degli zoccoli dei cavalli farsi sempre più vicino. In poco tempo furono visibili in lontananza due punti neri che avanzavano, e quando ormai aveva cominciato ad albeggiare, gli frenarono davanti un uomo e una donna in armatura, alzando grandi cumuli di terra e polvere.
«Siete in ritardo» esordì.
Non era vero. Non ci avevano messo più di una notte. Il loro arrivo era inaspettato: erano partiti quando il cielo era pieno di stelle mentre ora pochi punti luminosi erano visibili.
In gioventù, però, quando era arruolato nell'esercito tyaisiano, molte volte era stato criticato dai suoi superiori nonostante il suo operato fosse impeccabile; quindi ora riteneva giusto criticare egli stesso il lavoro dei suoi sottoposti.
Senza tanti complimenti, la donna, Elowys, gli gettò davanti ai piedi un sacco scuro, con dentro una massa informe. Dal tanfo che emanava Guin capì che era la carcassa.
L'uomo non fu tanto silenzioso.
« Troppo?» sbraitò sputando per terra. «Nemmeno una notte, dico io, in un monastero dove in due si è già in tanti!» La mascella, contornata da una barbetta ispida a tratti nera e bianca, si contrasse visibilmente, mentre sul capo calvo era in rilievo una vena. Guin assottigliò gli occhi.
Dazio Caprodosso era un uomo alquanto suscettibile, dalla mole non indifferente, che non sapeva stare al suo posto.
Da dove veniva lui atteggiamenti del genere potevano costarti la vita, quindi Guin mal sopportava l'abitudine contestataria di quell'uomo dalle orecchie protuberanti, come Caprodosso di certo odiava essere sottoposto ad uno straniero più giovane di lui e di ambigui natali.
«Vi avevo detto di non ucciderlo» ribatté Guin duro, allontanando con il tacco dello stivale il sacco odoroso.
«Gli ho dovuto tagliare la lingua,» si giustificò Elowys con voce flebile,«aveva minacciato di urlare.»
Con i suoi scontrosi silenzi e i suoi lunghi sguardi, quella donna era di gran lunga più pericolosa e inquietante di quanto lo fosse Caprodosso, si disse Guin.
Ancora non riusciva ad abituarsi al fatto che a Capo del Sole anche alle donne era permesso combattere. Ed Elowys non era nemmeno una brutta donna – cose che in qualche modo gli sarebbe stato più facile accettare – , con il suo fisico giunco non aveva di certo la prestanza di un uomo.
Un tempo, forse, era stata bellissima, ma battaglie e battaglie ne avevano provato il viso: il naso era tozzo e schiacciato, gli occhi celestini avevano perso vivacità, mentre i capelli si erano ridotti ad essere un groviglio rancido e sporco. Le poche volte che Guin l'aveva vista sorridere aveva notato come gli mancassero due denti o tre.
«E per questo sarebbe morto?» domandò scettico.
I lineamenti di Elowys s'indurirono. «Gli ho dovuto tagliare anche la gola» precisò, guardandolo insistentemente.
Guin aggrottò la fronte. Che razza di giustificazione era quella?
«Vogliamo muoverci? Sono tempi di guerra. Non sta bene sostare in questa strada più del necessario» intervenne Caprodosso, guardandosi alle spalle.
Guin sostenne per pochi istanti lo sguardo della donna, prima di allontanarsi con un sorriso beffardo. «Recupero il cavallo.»

La Strada del Mare non era una strada adatta ai cavalli.
Da quanto aveva appreso Guin, in un tempo più prospero e di pace quella via fungeva piuttosto da passaggio per le carovane di rifornimento che giungevano dai villaggi portuali, diretti alle diverse capitali del regno.
Ora di rado si vedevano simili convogli, ma le ruote dei carri passati più volte sullo stesso punto avevano lasciato dei solchi profondi, in cui spesso si andavano ad impigliare gli zoccoli dei cavalli; quindi, quando si poteva, si doveva procedere molto lentamente.
Erano passate alcune ore ed il sole era ormai alto nel cielo.
La lenta avanzata, unita al peso dell'armatura che Guin indossava e al calore interno di essa, stava rendendo insopportabile il viaggio.
Guin si era fermato spesso a far abbeverare il suo cavallo e a rinfrescarsi sulle rive del Lioleto, il fiume percorreva il loro stesso tragitto fino a sbocciare in mare aperto, costringendo i suoi compagni ad adattarsi ai suoi tempi. Sia per Caprodosso che Elowys sicuramente era consuetudine indossare armature del genere e non facevano più caso al caldo.
Guin sin dall'infanzia era stato abituato a vestiari da guerra lascivi, essendo cresciuto in un territorio di tavolato desertico, mentre ora si trovava ad indossare gli armamenti di Capo del Sole.
Se fosse stato per lui avrebbe continuato ad portare la sua Pelle di Drago, resistente e leggera, ma Alfeo era riuscito a convincerlo ad abbandonare le sue tradizioni. Era stata una decisione molto combattuta, del suo popolo non ricordava la lingua madre e aveva solo un vago ricordo dei paesaggi della sua terra, e tutto ciò gli era tenuto presente dalla Pelle di drago; ma come in molte altre cose Alfeo sapeva essere molto convincente.
Alla quarta sosta Caprodosso perse la pazienza.
Guin era intento a bagnarsi i capelli crespi e riccioluti quando lo sentì dire apertamente:
«Dobbiamo portare pazienza. Da quell'arida terra da cui viene è un miracolo che abbiano già di che dissetarsi.»
Guin si girò lentamente, Dazio stava fermo sul ciglio della strada e lo guardava con un ghigno sfrontato.
«A Tyais scorre il Corso Impero, un fiume di gran lunga più largo e lungo di questo, che riesce a dissetare quasi tutti gli abitanti dell'Impero Orientale» precisò, prendendo le briglie del cavallo e risalendo sulla Strada del Mare. Il Lioleto non era altro che un affluente del Manto degli Spiriti, un fiume di gran lunga più grande, ma ugualmente piccolo se paragonato al Corso Impero. «Inoltre, Caprodosso, non provarti più a simili sfide. A Tyais un affronto del genere ti sarebbe costato la testa, non è detto che anche il principe non abbia da dire qualcosa sui tuoi superbi e irrispettosi commenti» lo avvisò.
L'uomo divenne rosso come un peperone, digrignando i denti, ma al nome del principe distolse lo sguardo ritornando a cavalcare.
Mentre avanzavano Guin sorrise, soddisfatto di sé. Il suo vecchio arek dalla pelle dura e scura come il cuoio avrebbe di certo disdegnato un simile comportamento, incitandolo a staccare direttamente la testa a quello stupido; a ben ragione: poteva lasciar perdere simili affronti da parte di una donna miserabile come Elowys, ma nessun uomo, per quanto patetico fosse, l'avrebbe mai vinto.
Purtroppo, Alfeo sarebbe apparso alquanto contrito saputa la notizia, e quel fetente di Caprodosso non era importante a tal punto da portalo a inimicarsi il principe.
«Dragoroctono» Elowys, dopo poco tempo, lo chiamò. «Se il principe attende il nostro ritorno sarebbe il caso di muoverci più velocemente. Quando arriveremo?» Anche lei aveva cominciato a sudare copiosamente: i capelli le si erano appiattiti e attaccati alla fronte facendole sembrare la testa più piccola. Avvicinandosi, inoltre, aveva avvicinato con sé il tanfo del cadavere che portava legato dietro il cavallo.
Guin s'irritò. Durante quella lunga cavalcata aveva l'impressione che tutti volessero mettere a prova la sua pazienza.
Cavalcando velocemente in una strada simile una volta gli era capitato che il suo cavallo cadesse, e che lui venisse scaraventato a terra e calpestato dagli zoccoli del suo stesso destriero, non tornato più indietro. Non era sua abitudine dare nomi agli animali, nella maggior parte dei casi morivano in battaglia, ma al suo attuale cavallo si era affezionato parecchio, e temeva che si sarebbe potuto ripetere lo stesso episodio.
Non guardò Elowys mentre le rispondeva e meditò di non rispondergli:il paesaggio che cominciava a diradarsi in campi e le torri del fortino de La Città che s'intravedevano in lontananza erano delle riposte già da sé.
«Fra non molto» disse. Quelle torri non potevano distare più di qualche miglio. «Continuando con questo ritmo arriveremo prima che tramonti il sole.»
Invece arrivarono solo all'imbrunire, quando ormai il cielo stava gradualmente oscurandosi.
La Città era un villaggio che con la guerra, al contrario di molti altri, aveva trovato la sua fortuna. Si era trasformato in un rifugio per i superstiti scampati dalla distruzione dei paesini sulla costa e cresciuto a gran vista era diventato una specie di città.
Gli altri villaggi sparsi sulle rive del Mar Albino erano stati presi d'assalto dai razziatori che avevano fatto terra bruciata di tutto, ammazzando uomini e rapendo e stuprando donne.
Se non fosse stato per Alfeo anche La Città avrebbe avrebbe subito lo stesso destino, ma al principe servivano delle navi per poter lasciare Capo del Sole, quindi era accorso in loro aiuto in cambio della costruzione di esse.
Prima della guerra, il villaggio era stato un'importante sede carpentiera, primo rifornimento per la corporazione degli artigiani; ora Guin non riusciva a capire come Alfeo credeva che quel villaggio gli avrebbe in qualche modo costruito un qualsiasi tipo di vascello, quando gli abitanti non erano in grado di ideare qualcosa nemmeno per loro stessi: le mura esterne di pietra erano state provvisoriamente alzate con barricate in legno che sembravano poter cadere cedere da un momento all'altro, travolgendo i padiglioni al di sotto.
Lo stesso accampamento, appena al di fuori de La Città, a ridosso del Lioleto, ne era una prova inconfutabile: erano situati in quel luogo da tanto che Guin aveva cominciato a sentire il tanfo delle latrine riempite si sterco prima ancora di avvistare i padiglioni.
Appena entrarono nel perimetro dell'accampamento, Guin scese dal suo cavallo, affidandolo alle cure degli stallieri. Lo stesso fecero Elowys e Caprodosso.
Nemmeno il tempo di consegnare i bracciali dell'armatura alle insistenti servette, le quali volevano testardamente compiere il loro dovere, che un ragazzino vestito da paggio richiamò la sua attenzione picchiettando la parte bassa della sua armatura.
«Dragoroctono» disse. La sua era una voce innaturale per un bambino. «Il principe ti ha convocato nel suo padiglione. Ha detto anche che ti concede del tempo per rispolverarti e cambiarti d'abito, ma che dopo di questo esige che tu ti presenti immediatamente. Gli altri due, la donna e l'uomo grosso, devono venire subito. Portando anche il sacco... ha detto.»
Dalla sua strana parlantina, a tratti rude, Guin intuì che fosse un ragazzo del popolo messo al servizio di Alfeo dal signore del villaggio, forse nel tentativo di rabbonirlo a pazientare ancora.
Ci fu bisogno di un'occhiata tagliente da parte di Guin e quattro paroline da parte del paggio per far calmare Caprodosso, per fargli ricordare che Alfeo era il suo signore, e che era al suo servizio, e che era lui a decidere quando avrebbe riposato, e che poteva decidere di punirlo severamente qualora gli avesse disobbedito; da parte di Elowys non ci fu nessuna remora. Dall'espressione del suo viso, comunque, Guin capì che era infastidita e adirata con lui, perché se le avesse dato retta sarebbero arrivati molto prima, ma non se ne curò.
Dopo che si furono dileguati, anche lui si diresse verso il padiglione che gli aveva riservato Alfeo.
Purtroppo, conoscendo la sua passione per gli animali, il principe aveva fatto in modo di posizionarlo vicino alle stalle, credendo di fargli piacere, e non poteva fare un passo senza rischiare di acciaccare sterco di cavallo. Durante il percorso per la sua tenda si ritrovò a maledire varie volte i cavalli.
Una volta dentro deterse il corpo ed il viso con un panno profumato e si cambiò, indossando degli abiti puliti che prese da un baule di quercia e che non aveva nemmeno messo in conto di avere. Scelse le prime cose che trovò: una tunica nera di lino zerexiano e delle brache del medesimo colore.
Poi seguì il sentiero tra i bivacchi che portava al fiume, per ripulirsi gli stivali.
Le prime stelle erano comparse nel cielo violaceo, e l'accampamento era in pieno movimento.
Bambini luridi e all'apparenza felici giocavano in quello che sembrava fango, ma poteva benissimo essere merda, sotto lo sguardo vigili delle madri che distribuivano da un gran calderone le razioni di cibo ai guerrieri che si erano radunati in un lungo serpentone.
Da un tendone uscì una giovane ridente, coperta da un lenzuolo in maniera piuttosto lasciva, seguita subito dopo da un uomo nudo che cercava di acchiapparla, e finirono per lottare nel fango dall'aspetto sospettoso. Appena videro il Dragoroctono gli schiamazzi cessarono istantaneamente, e la puttana e l'uomo cominciarono a contendersi il lenzuolo per coprire le proprie nudità.
Degli uomini intenti a giocare a dadi in un angolo della strada smisero di tirare appena lo videro arrivare e non ricominciarono a scommettere finché non se ne fu andato.
“Devo sembrar loro un uccello del malaugurio” pensò Guin compiaciuto, “con questi abiti neri e la pelle scura”.
Quando giunse al fiume, non vi era quasi nessuno. Alcune donne stavano raccogliendo l'acqua in grandi brocche d'argilla, che poi avrebbero bollito: uno dei mali maggiori dei soldati in tempo di guerra era bere acqua infetta, per cui dopo, la maggior parte di loro pagava finendo per cacarsi addosso. Quelle femmine gli riportarono alla mente ricordi che pensava di aver dimenticato: di donne dalla pelle del color della sabbia, e del legno, e dell'ebano, che raccoglievano acqua dal Corso Impero in grandi vasi, per posizionarseli sopra la testa.
Cercando di ricordare più dettagli possibili di quella rievocazione, si tolse gli stivali e li lavò con l'acqua, facendo attenzione a non lasciarseli sfuggire. In quel tratto il Lioleto diventava più rapido, prima di venire inghiottito in un lungo tunnel sotterraneo al di sotto delle mura de La Città, che portava l'acqua nei pozzi e andava a sfociare nel mare su cui si affacciava il villaggio.
Quando ebbe finito si diresse verso il padiglione di Alfeo.
Sapeva bene la strada: molte notti l'aveva percorsa al buio, ed inoltre l'alloggio era il più grande dell'accampamento. Le pareti di tela apparivano nere nella notte quando arrivò, ma c'era qualcosa d'inquietante che gli permetteva di distinguere bene lo stendardo cremisi di Terossa.
Due guardie in armatura sostavano fuori dall'entrata, appena lo videro lo fecero passare senza domande, abituati com'erano a trovarlo quasi sempre in compagnia del principe.
Guin si era ritrovato molte volte a pensare a cosa sapessero in realtà le guardie delle sue visite, e in che modo prendessero la cosa: il Dragoroctono tyais dalla pelle scura e gli occhi e i capelli neri come piume di un corvo sempre affiancato al principe dragone dalla pelle chiara e le movenze raffinate...
Quando entrò udì una dolce litania. «Lo posso intendere dagli abiti fini/ o per la lingua galante in cui t'esprimi/...» Una voce melodiosa stava intonando quel canto, accompagnata dall'arpa.
Vide Alfeo con un ginocchio poggiato a terra, attento studiava il suo drago, che con sguardo famelico era sopra il corpo violaceo di un uomo, e aveva posizionato le sue fauci esattamente alla gola. Il padiglione era piuttosto vasto: in quell'ampio spazio il principe aveva posizionato un grande tavolo per scrivere, su cui era sparse carte e calamai e penne di ogni tipo, cesti riposti sui banchi e ripieni di frutti aspromontani. Il terreno era tappezzato da mappe e libri aperti. Accanto al grande tavolo, in posizione retta, era situata l'armatura bianca del principe, lucidata e priva di ammaccature. La tenda era immersa nel profumo dei chiodi di garofano.
Il suo ingresso non passò inosservato: il paggio ragazzino venutogli incontro quella stessa sera smise di suonare e d'intonare la canzone, mentre il drago voltò la sua testa di rettile verso di lui, guardandolo con occhi gialli e malevoli, e gli sibilò contro.
Rialzandosi di scatto, Alfeo fece un movimento irato con il pugno chiuso, prima di sorridergli.
«Dannazione Guin! Fatti annunciare!» esclamò.
Tutto, nella forma del suo viso, era così bello da far credere che non ci fosse in natura niente di più affascinante e contagioso del sorriso di quell'uomo, della fossetta del mento, o dei suoi capelli biondi. «Chiedo perdono, principe» si scusò Guin.
Il principe fece un cenno al paggio, che ubbidientemente uscì portandosi l'arpa appresso.
Quando furono soli Alfeo gli si avvicinò.
«Principe?» ripeté assottigliando gli occhi, il sorriso affilato. La sua voce assunse un tono carezzevole. «Noi non siamo questo.»
Guin si morse la lingua. “Cosa siamo?” avrebbe voluto chiedergli. Ma Alfeo non era uomo avvezzo a dare risposte dirette: avrebbe usato tanti giochi di parole per fargli dire, infine, quello che Guin voleva dicesse lui.
«Sì, non siamo questo» rispose allora placidamente.
Alfeo si allontanò, ritornando a guardare il gioco del suo drago.
Era una bestia dalla bellezza inaudita: aveva la corazza che gli ricoprivano il corpo più nera dell'oscurità, le piccole ali membranose ricoperte di scaglie taglienti dai riflessi argentei, e la stupenda coda, due terzi del suo corpo di fluida e viscida pelle viva, che compiva movimenti sinuosi.
«Cosa sta facendo?» chiese Guin, accennando al drago. L'uomo su cui era posato era il cadavere che Elowys aveva trasportato nel faticoso viaggio per la Strada del Mare.
Alfeo scrollò le spalle, avvicinandosi ad un banco e prendendo un frutto maturo. «Insegnavo alla mia ombra a prendere un uomo alla gola» disse.
Agitò il frutto con la mano, attirando l'attenzione del drago, che indolente si allontanò dalla carcassa, lasciandosi alle cure del suo padrone.
Alfeo non amava gli animali, ma quella bestia dalla bellezza e dall'intuito raro era uno dei pochi esseri a cui tenesse davvero. La dimostrazione stava nel fatto che ci giocasse e si lasciasse distrarre, sapendo che non avrebbe ottenuto niente in cambio, se non qualche verso sibillino.
A Guin venne da chiedersi se avesse fatto mai qualcosa del genere con lui, ma non seppe trovare risposta. «È l'uomo del monastero?» l'interruppe, improvvisamente irritato dall'attenzione che il principe stava dedicando alla bestia.
Alfeo alzò gli occhi su di lui, mentre il drago gli ringhiò addosso facendolo arretrare istintivamente.
Si diceva che ci fosse stato un tempo in cui erano esistiti draghi con l'ausilio del fuoco e del volo, ma quelle particolari fiere si erano estinte tanto tempo fa: se il drago di Alfeo avesse avuto queste capacità, Guin era sicuro che l'avrebbe incenerito all'istante.
Il principe sorrise, accarezzando la viscida coda dell'essere. «Cosa può essere un drago per colui che ha sterminato i dragoni?» domandò divertito, abbandonando il frutto a terra. Il drago, deluso da quel disinteressamento drastico, ritornò a studiare il cadavere.
Alfeo gli si fece di nuovo vicino, con un sorrisetto compiaciuto in viso.
«Indossi i tessuti zeraxiani che ti ho fatto portare» disse, ad un palmo dal suo viso. «Il nero, a dire il vero, ti dona molto» si complimentò. Dalla sua bocca usciva l'intenso odore di garofano che impregnava tutto l'ambiente.
Guin non sapendo cosa fare annuì. Non era mai stato tipo da esaminare accuratamente il suo vestiario: non amava gli abiti occidentali.
Vide che Alfeo lo stava guardando intensamente; forse voleva che anche lui gli facesse qualche complimento per la maniera in cui si era addobbato?
Quel giorno il principe era vestito in maniera molto elaborata, si chiese come non l'avesse notato prima. Indossava un farsetto bianco striato di rubini rosso sangue e decorato con fili d'argento alle maniche. Una mezza cappa dalle pieghe elaborate era trattenuto da una fibbia, in cui era incastonato un gioiello con il simbolo della Pace. Il signore del villaggio aveva donato al principe, per ringraziarlo del suo soccorso, il sigillo di Protettore della Pace. In mancanza di materie prime il gioiello era stato ricavato fondendo metalli dal nome sconosciuto. Era un ornamento povero e tutto storto, e Guin non capiva perché il principe si ostinasse ad usarlo per adornare ogni sua cappa da quando erano in quel luogo.
«A proposito, Dazio Caprodosso si è lamentato di te. Mi pare abbia detto... che tu abbia intenzione di portarlo nella Tyais d'Oriente per tagliargli la testa» lo informò Alfeo. Con le dita pizzicava il tessuto dei suoi abiti neri, forse per studiarne la qualità.
«Posso essere misericordioso» ribatté Guin con voce arrochita. Fece una smorfia, non avrebbe tollerato che quell'irritante mercenario infastidisse anche lui. «Gliela taglierei qui, se a questo ci tieni.»
Alfeo ritrasse un poco le dita sottili, mentre i suoi occhi di un celeste slavato ardevano. «Sei così voglioso di compiacermi?» chiese.
Guin, irrigidito, chinò in avanti il capo. «Sì.»
Il principe si allontanò con uno scatto, ritornando indietro di qualche passo. «Speravo l'avresti detto!» esclamò, sorridendo raggiante. «C'è una cosa che per me puoi fare. Per amore di ciò che ci lega. Come sai è Simo che ci ha commissionato l'omicidio. Mi aveva promesso l'anonimato e aveva promesso che in nessun modo io sarei stato collegato a questo terribile assassinio. Ma non mi fido di quell'uomo: non è nuovo il suo odio verso i dragoni» gli confessò il principe stringendo il pugno.
Nervoso, o forse troppo eccitato, incominciò a camminare indietro e avanti per il perimetro, lasciando ogni tanto qualche carezza distratta al suo drago.
«Ho sentito che ha una concubina dalla pelle nera, proveniente dalla Terra delle Sabbie... nonostante gli emissari del Dio-che-è-tre debbano essere votati al celibato. Si vocifera che fornichi sia con uomini che con donne...» riprese il principe con voce suffusa.
Guin annuì, nonostante avrebbe dovuto intuirlo, aveva creduto che il compiacimento che volesse il principe fosse tutt'altro. «Devo uccidere anche lui?»
Alfeo scosse il capo. «No, voglio che sia lui a salire al potere. Non è nuovo il suo odio indistinto per tutti i dragoni» replicò deciso. «Le navi sono terminate. Partirò per La Roica domani.»
«Tu?» chiese Guin.
«Sì, rimarrai qui Guin e ti addosserai la colpa dell'omicidio. Di solito il processo si dovrebbe svolgere nella capitale più vicina, ma farò in modo che tu ne esca illeso e che possa raggiungermi in seguito» gli spiegò Alfeo. « Troverò una maniera perché tu risulti aggredito dalla folla de La Città prima ancora di giungere... vediamo,versante est...quindi la capitale più vicina è Criisi.»
Guin sospirò, era una seccatura, ma avrebbe fatto come il principe comandava. «Va bene.»
Improvvisamente il drago frustò la sua lunga coda in aria, ringhiando con le fauci aperte sul viso del cadavere.
Alfeo si strinse le labbra, attirato dai movimenti della sua fiera.
«Sai,» gli disse distrattamente «credevo che non saresti resisto più di tanto con me. Ma mi sbagliavo.»
Il principe andò verso la scrivania, appoggiandosi con pigrizia.
Guin sorrise. «Davvero?» chiese affilando gli occhi.
«Davvero» ribatté Alfeo. « Ora, invece, l'unica morte non gloriosa in cui posso immaginare il Dragoroctono è scorticato vivo da tutte le donne a cui ha spezzato il cuore.»
Guin aggrottò le sopracciglia. Improvvisamente si rese conto che l'unico volto femminile costantemente presente nella sua mente era quello di Elowys. Non ricordava le altre donne: il volto di sua madre era un'immagine scomparsa tanto tempo prima, quando ancora si trovava a Tyais, lo stesso dicasi per le donne che aveva avuto nel suo letto.
«In che modo avrei spezzato loro il cuore?» domandò perplesso.
Alfeo fece una smorfia, alzando il braccio in un gesto di diniego. «Chi strappa il cuore ai dragoni può così facilmente conquistare il cuore di una donna...» mormorò. Poi lanciò uno sguardo a Guin di sottecchi. «Domani io partirò, questa sarà l'ultima notte in cui potremmo interloquire prima di tante altre, e non voglio di certo passarla parlando di femmine» gli disse, stendendosi sul tavolo.
Guin annuì, non sapendo se procedere. Alfeo non faceva mai la prima mossa nonostante sollecitasse, aspettava sempre che fosse lui a venire.
Stava per avvicinarsi, quando sentì voci e movimenti al di fuori del tendone.
«Fatemi passare, veniamo per ordine di Silenio, signore de La Città!»
Un attimo dopo nel padiglione entrò l'attendente del signore de La Città.
Guin lo conosceva bene, perché, oltre ad avere un aspetto viscido, si rifiutava di chiamare Alfeo con la nomina di principe, considerandolo alla stregua di un mercenario comune.
«Reziero, Dragoroctono» esordì, salutandoli con un cenno al capo. I suoi occhi acquosi si soffermarono su Alfeo mentre questi si ricomponeva, con una sfumatura quasi divertita. « Avete udito le nuove? Il protetto Oliviero è stato rapito e probabil...» s' interruppe, vedendo il drago sopra il cadavere a pochi passi da lui.
Guin stava già per mettere mano alla spada, pensando irritato che era la punizione consona per aver interrotto lui e Alfeo, ma l'improvvisa intensità con cui il principe lo fissò gli fece capire che non era quello che voleva. Era rosso in viso, per ira e per vergogna Guin non sapeva dirlo, lo sguardo sornione che gli aveva rivolto l'attendente doveva essere preso in causa, ma non voleva incorrere nel rischio della sua ira.
«Ah...» riprese l'attendente dopo un lungo silenzio, ispezionando con attenzione lo spazio a lui circostante. Un sorriso affilato gli si disegnò sulle labbra. «Reziero, Dragoroctono, vorrete seguirmi fuori allora, i nostri uomini vi scorteranno fino al castello» disse l'uomo facendogli ampio gesto verso l'uscita.
Alfeo si fece avanti, teso come la corda di un arco. «Sono dunque in arresto?»
Guin rimise la mano sul pomo della spada, pronto a scattare, qualora la risposta dell'attendente fosse stata positiva.
«E per cosa?» l'uomo che si rifiutava di dare l'appellativo di principe ad Alfeo gli rise in faccia, accennando al cadavere. «Nelle tenebre i corpi delle persone morte sfuggono come ombre. Magari mi sveglierò domattina, il dotto del castello verrà a portami un falco con la notizia ufficiale della morte del protetto del savio, sollecitando a muovere ricerche per trovare il colpevole, e ripenserò a questo corpo; mi dirò: chi era? Allora verrò da te, per ulteriori spiegazioni. Ma fino ad allora non ha nessuna importanza. Il mio signore vuole condividere con voi il suo desco, se volete seguirmi».

Fu quasi doloroso lasciare andare la sicurezza delle tenebre, che aveva accompagnato il loro rigido e teso viaggio, per lasciarsi travolgere dalla cacofonia di suoni che proveniva dalla sala del vecchio maniero de La Città, quando due guardie aprirono i battenti per lasciarli entrare.
Lo spazio era molto ristretto rispetto a quello delle sale grandi degli altri castelli che Guin aveva visitato. I tavoli ai livelli bassi straripavano di uomini spiaccicati gli uni contro gli altri, che tentavano di avventarsi sulle portate servite.
Il loro arrivo non passò inosservato: dalla piattaforma, al di sopra di ogni clangore, Silenio Oddo, signore de La Città, si erse. Era un uomo sulla sessantina, basso e consumato. Il cranio calvo era chiazzato da macchie purpuree, mentre dalle bassette gli cresceva una rada barba grigia. Il naso era attraversato verticalmente da una cicatrice rosea e gli occhi grigi perennemente lucidi.
Non era mai stato un uomo avvenente e la cicatrice che gli solcava il naso l'aveva reso più che mai sgradevole alla vista.
«Principe Alfeo della famiglia dei Reziero, comunemente chiamata dinastia delle tenebre... Il privilegio di avere nelle vene il distinto sangue dei Rossi, il sangue di coloro che hanno ucciso i vecchi dei... ecco chi ho al mio desco, l'ultimo dei Reziero!» esordì il signore de La Città appena vide Alfeo, aprendo la braccia in segno di benvenuto.
In men che non si dica, tutti gli occhi furono puntati su di loro.
Alfeo avanzò verso la piattaforma. Guin stava per incamminarsi verso un luogo appartato ma non ne ebbe il tempo.
«E anche il famoso Dragoroctono. Che strano accostamento! Il pelle nera che nella prima gioventù si distinse nelle Isole farrensi!» lo chiamò Silenio Toddo. «Venite, sedetevi con me! Ho fatto riservare degni posti per voi!» continuò indicando i primi posti alla sua sinistra.
Guin allora non poté far altro che avanzare rigido al fianco di Alfeo. Non si aspettava un simile onore e una simile scocciatura: di solito la piattaforma era affollata dai nobili o dai signori degli altri villaggi e Toddo aveva difficoltà anche a trovare un degno posto ad Alfeo, che poi oggi ne avesse riservato uno anche a lui, un mercenario tyais di umili origini, era ben strano.
Dopo che si furono seduti, Guin notò come nella piattaforma, e in tutta la sala, l'unica presenza femminile fosse costituita da una fanciulla che sedeva alla stregua del banco nobiliare e dalle servette che servivano ai banchi.
Accennando un lieve inchino con la testa, Alfeo disse in tono solenne: «Sarà un onore e un piacere per noi mangiare il vostro cibo e bere il vostro vino.»
Il vecchio Silenio, seguendo l'etichetta atea di Capo del Sole, rispose: «Come darà gioia ai nostri cuori condividere il nostro desco con voi, principe Alfeo e Dragoroctono.» Aveva delle labbra sottilissime, solcate da mille screpolature, e quando parlava aveva l’abitudine di inumidirle con la lingua. Con un suo cenno di mano, cominciarono a sfilare le portate. La guerra pareva non aver intaccato il cibo a La Città, c'erano pietanze di ogni tipo: dagli arrosti di anatra e maiale con contorno di foglie di sedano di monte -che in tempo di guerra erano una rarità-, a grandi prosciutti cotti, stufati, funghi intinsi nel sugo; per poi passare al dolci e alla frutta: finocchio e cumino glassati con zucchero e miele, confetti di zenzero, tartine ripiene di crema ai frutti di bosco. Il tutto si poteva intingere nelle grandi forme di pane, che i servitori non finivano mai di servire in grandi vassoi.
A Guin tutta quella quantità di pietanze fece storcere il naso, e si limitò a prendere solo ciò che sceglieva Alfeo - ben poco - sforzandosi di mangiare quel cibo dal sapore dolciastro.
Il signore loro ospite notò quella mancanza di appetito: «Mio principe,» disse posando una mano sul braccio di Alfeo «assaggia uno di questi confetti allo zenzero, una vera delizia»
Alfeo accettò di buon grado di farseli mettere sul piatto senza però toccarne alcuno.
«Che abbondanza di cibo in questo tempo di guerra!» esclamò, anche se Guin capì che la frase che il principe voleva intendere era tutt'altra. “Il denaro per la costruzione della mia flotta sembrava mancare!”
Silenio sorrise, leccandosi le labbra. «Tutto ciò che vedi proviene dalle rive opposte del Lioleto, mio principe. Lì, nonostante sia in atto la guerra, non giungono altro che flebili suoni» mormorò.
Guin aggrottò le sopracciglia: gli etti di boschi dell'isoletta erano proprietà del monastero eretto in quel luogo, questo faceva dei cacciatori di Silenio dei semplici bracconieri.
«Lo immagino» commentò lascivamente il principe, mentre con una mano spingeva al bordo del piatto i confetti di zenzero.
Lo spettacolo che si stava consumando davanti ai suoi occhi doveva irritarlo molto: nella sala era stata abbandonata qualsiasi decenza.
Provenivano risate e urla sguaiate da ogni parte e ormai la maggior parte delle serve erano state sequestrate dagli uomini ai banchi bassi, che esaminavano con molta cura i loro corpetti, mentre i cantastorie strimpellavano note su canzoni lussuriose e poco consone a una corte nobiliare.
Guin aveva qualche idea sul perché quasi nessuna donna fosse presente al banchetto, ma preferì chiedere all'uomo alla sua sinistra.
«Perché le femmine mancano al banchetto?»
Era calvo con la barba rasata e la forma del viso allungata e asciutta. In un primo momento l'uomo sembrò soppesarlo, come a chiedersi chi gli avesse dato il permesso di rivolgergli la parola, ma poi rispose: «Le dame cenano nella sala privata della signora, accompagnando i loro pasti con le noti soavi d'arpa.»
Guin annuì. In un certo senso le invidiava, anche lui avrebbe preferito mangiare in disparte, in un angolo tenebroso della sala, senza dover guardarsi da ogni comportamento che poteva essere considerato sgradevole. L'unica persona che sembrava annoiarsi ancora più di lui era la donna seduta allo stremo del banco nobiliare. Ogni tanto aveva notato che gli lanciava occhiate furtive, forse aver il suo compagno di sorte in qualche modo la rincuorava.
Da quando si erano seduti sulla piattaforma Alfeo l'aveva ignorato, se non quando gli lanciava qualche occhiata di rimprovero, occupato in un'animosa conversazione col signore.
«Dragoroctono, avevo cominciato a credere che non ci avresti mai degnato, in questa sera, dell'onore di conversare con noi» disse improvvisamente Silenio Toddo, sorridendogli.
Anche Alfeo si girò a guardarlo.
«Mi spiace, vec... mio signore, ehm. Solo il vino è capace di rendermi avvezzo a chiacchiere» replicò Guin, senza benevolenza.
Il signore de La Città rise. «Il vino e le donne!» ribatté, facendo cenno ad un servitore lì vicino di versare le tre coppe di vino. Alzò la sua per ricongiungerla con quelle di Guin e Alfeo, facendo fuoriuscire metà del contenuto. «A Terossa!» disse, nell'ovvio tentativo di lusingare Alfeo.
Il principe sorrise freddamente, portandosi la coppa alla labbra.
Guin non si unì allegria comune, ma bevve comunque un sorso del vino, giudicandolo troppo melato.
«Vino addolcito con il latte, un toccasana per il mio intestino» rivelò Silenio ad Alfeo, succhiando rumorosamente la bevanda.
Alfeo rise. «Mio signore, vorrei anch'io arrivare alla tua età così come te e se questo è il segreto, berrò vino addolcito per tutta la vita! Sarai ancora molto prestante..» esclamò il principe con fare malizioso.
Toddo s'inumidì le labbra e si schiarì la gola. «Quanto basta. Credo che sia ora che mi ritiri nelle mie stanze, non ho più abbastanza forze per sostenere questi ritmi giovanili» disse il signore alzandosi, dando dei leggeri colpetti sulla spalla di Alfeo.
«È stata una notte quanto mai piacevole, mio signore» ribatté Alfeo sorridendo. «Conversare con te, mio signore, è uno grande stimolo.»
“Questa doveva essere la nostra notte” pensò cupamente Guin. L'indomani non si sarebbero rivisti per lungo tempo e Alfeo avrebbe dovuto passare la notte in sua compagnia, non conversando con Silenio Toddo.
«Allora credo che sarà un piacere per tutti e due continuare la discussione nelle mie stanze... in un ambiente più tranquillo e consono.»
«Sarà senz'altro un piacere.»
Appena udite quelle parole Guin scattò in piedi, non potendo credere alle sue orecchie, eppure nessun dei due sembrò prenderlo in considerazione.
Il signore de La Città non smetteva di mettere le sue fetide mani addosso al principe da tutta la serata, Guin l'aveva notato: un leggero tocco sull'avambraccio, una pacca sulla schiena...
Se fosse stato soltanto una volta forse non vi avrebbe dato troppo peso, ma quell'uomo sembrava trovare ogni scusa per toccare il principe, tanto che Guin si era dovuto trattenere varie volte dal staccargli la mano di netto in reazione della sensazione nauseante che gli dava.
«Ho sentito che suoni l'arpa divinamente, mi farà piacere ascoltarti...» continuò Toddo, passandosi la lingua sulle labbra.
«Alfeo non è un miserabile cantastorie ma un principe. Se vuoi udire della musica prenditi uno dei tuoi bardi» lo interruppe Guin brusco, trattenendo il principe per una manica.
Il signore de La Città aggrottò le sopracciglia, come se credesse di aver udito male.
«Perdonami?» domandò, leccandosi le labbra.
Guin era più che pronto a ripetere, ma d'improvviso s'accorse dello sguardo glaciale gli stava rifilando Alfeo. Un' espressione di nemmeno troppo velato disprezzo. Si accorse che il principe stava tremando.
Non era mai stato tanto arrabbiato da non accorgersi, in un primo momento, dell'ira montata in Alfeo.
«Perdona il mio... Dragoroctono» disse Alfeo. « Ma io non ne sono offeso. Anzi, sarò ben felice di allietare il tuo sonno...»
Con uno strattone si liberò dalla presa di Guin, accostandosi a Silenio Toddo.
«Alfeo» lo chiamò Guin, bruciante di rabbia. «Alfeo!» insistette. Non poteva credere che l'avrebbe fatto davvero!
«Principe!» lo corresse il dragone girandosi di scatto. Per un momento i suoi occhi assunsero una tonalità rossa come il fuoco. Poi però, mentre si rivolgeva di nuovo al signore, ritornarono freddi e calmi. «Perdonami» disse mettendosi stancamente una mano sugli occhi. «Vogliamo andare?»
Guin rimase immobile, incredulo, ogni nervo teso quasi allo spasmo, a osservare la figura snella del principe accanto a quella del vecchio allontanarsi.

In seguito non seppe dire quanto tempo rimase impasse sulla piattaforma e quando finalmente si decise a ritornare all'accampamento: ricordava di aver bevuto molto vino, sebbene addolcito dal latte, fino da averne la nausea; ricordava che in seguito la dama al limite della piattaforma era venuta a parlargli ma lui non le aveva dato molta attenzione; infine, ricordava le note di una ballata, che in un eccesso di boria, un cantastorie si era messo a strimpellare sulla sedia del padrone.
Ora, camminare nella notte, alleviava in qualche modo la sua rabbia.
Quella doveva essere la loro notte, quella sua e quella del principe, eppure, ora che si sentiva meglio, non poteva perdonarsi di aver lasciato correre. Li avrebbe dovuti ammazzare tutte e due: quello schifoso e Alfeo. Anzi, avrebbe dovuto ammazzare dal principio l'attendente del signore.
Nervosamente picchiettò sul fodero della sua spada, alzando gli occhi verso il cielo stellato.
Qual'era il nome di quella stella, in tyaisiano, che risplendeva luminosamente più a est delle altre? O quella che indicava perennemente il nord delle terre aspromontane? O ancora, quella che l'aveva condotto in salvo tante volte nel Mare Interno delle Farrins?
Un tempo, pensò amaramente, sapeva queste cose e molte altre. Un tempo, riusciva a conservare il ricordo seppur lieve del volto di sua madre, o quello di sua sorella, da cui era stato strappato troppo in fretta. Ora invece anche i ricordi dei suoi duri addestramenti nella Terre della Sabbie, dei suoi compagni, del suo arek stavano lentamente svanendo. Sarebbe poi toccato a quelli da marinaio alle Isole farrensi, e in seguito anche a quelli della compagnia mercenaria?
Pensava, e si accorse di non aver preso la strada che portava al suo tendone ma di starsi dirigendo inconsapevolmente agli alloggi di Alfeo.
“Bene,” pensò seccamente “aspetterò il suo ritorno e gli parlerò come mai non ho fatto prima.”
Fu tentato di andare prima al suo padiglione, per prendere la sua Pelle di Drago e indossarla per la prima volta dopo tanto tempo, pensando alla faccia che avrebbe fatto il principe a vederlo vestito come un soldato dell'esercito dell'Impero Orientale.
Inoltre, anche se non l'aveva mai creduto prima d'ora, sospettava che l'armatura avesse la proprietà magica di tenergli sempre presente il ricordo della sua patria.
Nonostante fosse da tempo passata la mezzanotte, l'accampamento era ancora in attività. Probabilmente si stavano preparando per l'imminente partenza per La Roica.
Al suo passaggio gli uomini e le donne si chiudevano nel silenzio, sembrava quasi che intravedessero un alone di malumore avvolgere la sua figura. Negli occhi allungati e scuri del Dragoroctono riuscivano a vedere qualcosa oltre la severità e lo sgarbo che riservava a tutti: qualcosa che, preso per il verso sbagliato, non avrebbe portato a niente di buono.
«Dragoroctono» mentre sviava tra i padiglioni per arrivare da Alfeo, sentì una voce che lo chiamava. Sapeva bene chi era, ma non aveva intenzione di fermarsi.
Svelto svoltò strada, ma la voce continuò ad insistere: «Dragoroctono.»
“Si, sono io” pensò Guin, deciso ad ignorare la voce. “Non avrei mai dovuto avvicinarmi a quel principe. Io i dragoni li uccido, tutti, indistintamente. Ho commesso un errore, ma forse... sono ancora in tempo”.
«Dragoroctono!» esclamò Elowys stringendogli il braccio.
Con uno scatto furioso Guin si girò, staccando il braccio bruscamente dalla sua presa, e mettendo mano al pomo della spada. «Quietati donna!» gli ringhiò addosso, per poi bloccarsi interdetto. Non era tipico di lui lasciarsi andare a quel modo alla rabbia. Anche Elowys sembrò sorpresa dai suoi modi ed indietreggiò un poco.
“Guarda in che modo mi sono ridotto,” pensò Guin irritato, ricomponendosi “ a perdere il controllo per un'insulsa donna.”
«Dragoroctono, il principe mi aveva detto di lasciare il cadavere nelle tue mani. Dovresti venire a prenderlo» lo informò la donna, ritornando impassibile.
Guin si accigliò, doveva portare il cadavere nel suo alloggio in modo che il giorno dopo l'accusassero dell'omicidio? Ma poi si ricordò che Elowys era stata ricevuta prima di lui quel giorno, e che quindi forse Alfeo aveva preso la decisione di passare a lui la colpa sin da quando gli avevano commissionato l'omicidio.
«Non ho tempo per simili stupidaggini. E sia il principe che le sue richieste possono andarsi a farsi fottere» replicò Guin secco, riprendendo a camminare.
Ancora una volta Elowys gli prese il braccio, artigliandolo con le sue unghie.
«Tu non hai tempo?» domandò talmente tanto stizzita che costrinse Guin voltarsi. Improvvisamente nel suo viso si era riversata tutta scontrosità . «Lo so bene. Di solito non hai mai tempo per nient'altro che non sia demoralizzare e criticare l'operato altrui, o non considerare l'opinione d'altri. Eppure per Alfeo, tra una cosa e l'altra, avevi sempre trovato un qualche tempo da ritagliare, quasi fosse un favore che stessi facendo a tutti noi... Sto al fianco di Alfeo da tempo immemore e tu prima combattevi contro il suo stesso popolo. Un tempo era una gradevole presenza, sai? Ma ho abbandonato ogni traccia di femminilità per servirlo nella sua causa. Eppure, nonostante questo, ho dovuto sopportare la tua indifferenza e superbia nei miei confronti, quasi come se essere una donna non mi rendesse nemmeno una creatura degna della tua attenzione, mentre tutto ciò che cercavo era di avvicinarmi a te. Sei un uomo pieno di boria, Dragoroctono. E pieno di presunzione e sgarbato. Da tempo guardo in che modo rechi onta al principe con ogni tuo gesto e ogni tuo atteggiamento, ma non replico perché non sta a me farlo. E come potrei visto la bassa considerazione che tutti voi uomini avete di me? Oh, non posso negare che anche lui ha fatto la sua parte dandoti favori che non avrebbe mai concesso ad altri, ma stai approfittando della sua generosità e la sua bontà in modo esagerato. Chi credi di essere per parlare così del nostro principe? Pensi di essere il primo a cui Alfeo chiede un sacrificio, o di essere quello sottoposto al sacrificio più grande? Tutti noi abbiamo dovuto abbandonare qualcosa, o tutti in qualche modo dobbiamo dimostrargli la nostra fedeltà poiché Alfeo è stato un capo buono e magnanimo con tutti noi. Rammenta che sei tu colui che sporca Alfeo più di qualunque altra cosa, e nonostante ciò, lui ti tiene accanto.»
Per un attimo Guin rimase in silenzio, stupito da un tale fervore da parte di una donna che era sempre stata silenziosa o quando parlava lo faceva con voce flebile, ma presto ritrovò le parole.
«Non sono stato io a sporcare il principe, o a recargli onta, è stato lui a sporcare me» ribatté brusco, liberandosi dalla morsa della mano di Elowys. Le parole di quella donna, per la prima volta, l'aveva colpito profondamente. Cercò di non pensarci mentre riprendeva a dirigersi verso l'alloggio di Alfeo, ma le ultime parole continuavano a ritornargli in mente “sei tu colui che sporca Alfeo più di qualunque altra cosa, e nonostante ciò, lui ti tiene accanto...
...E rimasero fino a quando non scorse il padiglione del principe, per poi essere sostituite da un'improvvisa vampata di rabbia. Guin avanzò verso le due guardie all'entrata.
«Aspetto il principe per parlargli di urgenti questioni» li informò bruscamente, vedendo che questi continuavano a studiarlo perplessi.
Le due guardie si guardarono. «In verità, Dragoroctono, il principe è tornato» gli disse uno, timoroso.
«Davvero? Dove sarebbe?» “Però, ci ha messo poco” pensò Guin cupo.
«Nel padiglione» disse l'altra guardia.
Con passo rigido Guin avanzò, alzando la tenda che celava l'entrata, mentre sentiva lo sguardo inquisitorio dei due uomini seguirlo.
Il padiglione all'interno era buio. Guin si strizzò gli occhi, cercando di abituarsi alla netta oscurità che permeava l'ambiente. Si guardò intorno, non riuscendo a riconoscere nessuno degli spazi che quella sera gli erano apparsi così nitidi, e non riuscendo a percepire nessuna presenza umana.
Pose la mano sul pomo sulla spada, avvertendo un brivido dietro la schiena, poi sentì un movimento sinuoso e sfoderò la lama girandosi di scatto.
«Sei impeccabile Guin» sussurrò il principe, mentre la fredda lama premeva alla sua gola.
Ricomponendosi Guin si allontanò. Per un momento aveva creduto che dietro di sé fosse nascosta un'oscura creatura, come quelle che aveva immaginato di vedere nella sponda opposta del Lioleto quella mattina, ma probabilmente quel movimento sinuoso era stato provocato da Ombra.
Ma non doveva ritrarre la lama, si disse duramente, era venuto lì per quell'unico motivo. L'aver sentito improvvisamente la voce di Alfeo l'aveva fatto indugiare per un attimo, ma sarebbe andato fino in fondo.
«Principe,» gli mormorò in risposta Guin, prendendogli il polso e stringendolo. «Devi chiamarmi Dragoroctono.»
Con uno scatto Alfeo si liberò dalla stretta, indietreggiando. «Lascerò passare perché sei ubriaco Guin...» ribatté il principe. «Ma prova un'altra volta a toccarmi in questo modo e ti faccio far marcire le mani dal mio drago, mi hai capito?»
Dietro di sé Guin udì un verso sibilino ricolmo di minaccia e il suo sorriso luccicò nell'oscurità.
Che ci provasse pure ad attaccarlo, avrebbe fatto di quel drago ciò che aveva fatto di tutti i dragoni che aveva incontrato... prima di Alfeo.
Era davvero ubriaco? Se fosse stato così una volta rinvenuto non sarebbe mai riuscito a perdonarsi ciò che voleva fare... No, non era mai stato un problema lasciarsi indietro le storie passate: l'aveva fatto alle Farrins, nella Tyais d'Oriente... Sì, forse sarebbe ritornato a Tyais una volta finito il lavoro.
«Guin» Alfeo lo chiamò nel buio stringendo la mano al suo avambraccio. «Guin, devi sentirmi parlare... prima che tu decida qualsiasi cosa. Ascoltami.»
Guin s'irrigidì, ma non si ritrasse dalla presa. Tentennava, non avrebbe nemmeno dovuto permettergli di aprir bocca, ma adesso smaniava di sentire ancora la sua voce. Alfeo non disse “ti prego”, ma sembrava ristagnare nell'aria, e il Dragoroctono sentiva nella voce del principe una strana inquietudine.
«Parla» l'assecondò.
Nell'oscurità fu visibile per un secondo un sorriso luminoso di trionfo, seguito da un verso animale di soddisfazione.
«Andiamo fuori» Alfeo lo tirò per il braccio verso l'uscita del padiglione. «La luna, camminiamo sulle sponde del fiume, avvolti dalla notte. Parleremo» promise.
Guin si ritrovò ad annuire, la sua decisione un poco intaccata, ma non si era dimenticato ciò che voleva fare. La rabbia rimaneva ancora, costante, come nel momento in cui l'aveva abbandonato andandosene con il signore.
Alfeo schioccò la lingua alla sua fiera, che prese a camminargli poco dietro usciti dal padiglione, mentre lo sguardo impiccione delle due guardie poste davanti al padiglione li seguiva. Alfeo fece loro un cenno secco al quale risposero con un sorriso raggiante.
Tutti noi abbiamo dovuto abbandonare qualcosa, o tutti in qualche modo dobbiamo dimostrargli la nostra fedeltà poiché Alfeo è stato un capo buono e magnanimo con tutti noi.”
Il vino aveva però avuto n lui un effetto rivelatore, e la figura di Alfeo quella notte gli appariva nitida come mai: era un uomo dall'ambizione sfrenata che avrebbe fatto qualunque cosa per ottenere ciò che voleva.
Eppure aveva sempre pensato che il loro rapporto fosse di natura più elevata...
S'incamminarono prendendo una via larga per arrivare al fiume. Deviarono per vicoli secondari, forse nell'intento di non essere fermati o visti insieme di notte. Guin seguiva Alfeo cupo e in silenzio, ogni tanto guardando indietro, sperando che Ombra non li stesse più seguendo, ma quegli occhi gialli e malevoli era sempre presenti con le sue quattro zampe che strisciavano quasi sul terreno. Cominciò a temere che Alfeo sapeva ciò che avrebbe voluto fare: lui ed il drago non erano buoni amici, e Alfeo non lo portava mai con sé non con l'intento di essere protetto.
Quando cominciarono ad udire il rumore del fiume impetuoso che si inoltrava nei cunicoli sotterranei, Guin, tormentato dal dubbio, non ce la fece più a trattenersi. Quella notte gli aveva messo nell'anima una strana agitazione, una febbre d'azione, che l'avrebbe consumato se non avesse detto e fatto tutto ciò che doveva.
Era da troppo tempo che non metteva mano alla spada solo per vederla macchiata del sangue dragone.
Improvvisamene si pentì di non aver disobbedito agli ordini di Alfeo quella mattina e di non aver ucciso lui stesso il novizio, e di non aver tagliato di netto la testa a Caprodosso quando l'aveva provocato per timore di far un dispetto al principe. Alfeo non aveva avuto in nessun modo riguardo di lui nella sala grande del castello di La Città. “Per il signore ne ha avuto molti riguardi...”.
Guardò il principe con decisione, mentre si avvicinavano alle rive del fiume, e fece per dire qualcosa d'importanza basilare, ma Alfeo l'interruppe ancora prima che potesse iniziare.
«Lo senti? Anche adesso mi chiama...» bisbigliò ermetico, gli occhi rivolti alla luna.
Erano arrivati in prossimità del fiume, dove era possibile intravedere l'isoletta dalla sponda opposta.
«Il sangue delle tenebre... questo meraviglioso canto che è proprio della luna... mi spinge a compiere azioni aldilà della mia volontà» continuò in un sussurro sottomesso, tanto basso che Guin si chiese se in realtà non fosse stato lo spiffero di uno degli spiriti che si diceva albergassero in quelle terre. «Le tenebre...»
Alfeo portò una mano in alto, verso la luna, quasi a volerla acchiapparla.
Guin si sentì invadere dall'irritazione e desiderò ardentemente di farlo arrabbiare. «Come hai potuto Alfeo? Tu, principe, compiere un'azione del genere?» gli domandò, il tono corrosivo.
Il principe si bloccò, la faccia rivolta verso il cielo, gli occhi si spalancarono per un secondo. La luce della luna lo faceva apparire una creatura androgina: una delle facce del Dio-che-è-tre, o, nella sua versione originale, l'antico dragone che aveva sfidato i vecchi dei.
«Non è possibile vero?» continuò Guin, assottigliando gli occhi, in un tono velenoso come miele. «Ma perché ammutolisci? Perché non neghi? Dimmi qualcosa!» insistette.
Alfeo arrossì. Era infuriato: la sua mano destra tremava, mentre la mano della spada era chiusa a pugno quasi pronta a scattare verso il suo viso.
Lo guardò con occhi pieni d'odio e Guin ricambiò con la stessa intensità. Poi, il principe distolse lo sguardo da lui. Sembrava che in lui si stesse svolgendo una lotta interna.
«Non ho niente da dirti» si arrese infine rompendo il silenzio, con voce atona. Il suo drago incominciò a muovere nervosamente la coda e a fare versi strazianti alzando il capo alla luna.
Un lamento: il lamento delle tenebre.
E – si rese conto Guin – il principe aveva cominciato a manifestare i sintomi della bellezza del male. I suoi occhi erano rossi alla luce della notte, i capelli platinati e le labbra rossissime in contrasto con la carnagione.
«Non posso nemmeno dirti ciò che vorrei dirti!» riprese Alfeo. «Ciò che mi è concesso è ben poco: non posso riposare, non posso fermarmi, non posso indugiare in nessun luogo che non sia la mia patria.» Nel pronunciare queste parole i suoi occhi luccicavano pieni d'inquietudine.
Guin si costrinse a distogliere lo sguardo, stava solo cercando d'incantarlo sviando il discorso.
Non poteva dirgli ciò che avrebbe voluto dirgli... era vero, ma avevano sempre saputo che tra di loro non ci sarebbe mai stato spazio per simili parole.
Se non l'avesse interrotto Guin capì che non l'avrebbe lasciato mai più: la figura di Alfeo era un risveglio per i sensi, e il verso del suo drago lo stava confondendo.
«La mia Pelle di Drago è tutto ciò che sono, non ho più intenzione di frenare i miei istinti» disse deciso, toccandosi il pomo della spada per dare maggior decisione alla voce. Nonostante Alfeo gli avesse detto molto spesso che il motivo per cui aveva dovuto rinunciare all'indumento tradizionale del suo popolo era perché a Capo del Sole era mal visto, cominciava a intuire quale fosse il motivo effettivo. «Non sono come te» pronunciò le parole lentamente, sentendo che la rabbia di Alfeo accresceva nel sentirle.
«No, non lo sei» ribatté il principe duramente, ma poi la sua voce si fece dolce. «Ma siamo così affini... è per la notte sprecata? E per questo che mi parli con tanto rancore? Dannazione Guin! Se solo tu sapessi che avrei preferito star con te invece di sottostare al...» scosse la testa, cominciando ad incamminarsi verso la riva del fiume, dove nel terreno spuntavano piccoli ciuffi d'erba.
Il Dragoroctono lo seguì, infuriato. Cosa voleva che dicesse, doveva sentrisi rincuorato per aver udito simili parole? «Nessuno ti ha costretto a fare ciò che hai fatto, principe» replicò seccamente.
Alfeo voltò la testa di scatto e Guin istintivamente di tirò indietro. Nel principe gli sembrò di percepire qualcosa che aveva percepito in Ombra quella stessa sera, quando era indietreggiato davanti allo sguardo minaccioso del drago, quasi avesse il potere di incenerirlo.
Nonostante avessero analogie diverse e lo stesso colore dell'incarnato era contrapposto, Alfeo gli sembrò in quel momento simile alla sua fiera. D'improvviso s'accorse che il lamento della bestia era cessato, e si guardò intorno cercando di capire dove fosse finito Ombra, ma non lo trovò.
“Deve essersi dileguata in silenzio, come un serpente” si disse.
Alfeo rise, le acque del fiume gli bagnavano la punta degli stivali. « Guin,» gli parlò in tono di rimprovero, «noi non siamo questo. Non volevo rivelartene il motivo, ma sei tu che mi hai costretto a fare questo.»
Guin lo raggiunse sulla riva con quattro lunghi passi. Una sola spinta, pensò, una solo spinta e sarebbe stato trascinato nelle acque turbolenti del Lioleto fino ai cunicoli interni, e sarebbe parso un incidente.
«Io?» chiese incredulo, trattenendosi dal riprendergli il polso.
Alfeo sorrise, gli occhi rossi come sangue vivo, facendosi pericolosamente vicino. «Non ti rendi conto di nessuno al di fuori di te stesso, eh?» gli domandò.
Guin avrebbe voluto replicargli “E tu?”, ma si trattenne.
Il suo alito rilasciava l'intenso odore di garofano. «Sono un principe solo di nome, il mio regno non è altro che una promessa e io devo far in modo che venga mantenuta» gli pose una mano sulla guancia, talmente calda che Guin fu costretto a scostarsi.
A Tyais si diceva che la pelle di un drago vivo poteva ardere talmente tanto da bruciare le dita al solo tocco, Guin non se ne era mai accertato, e fino a quel momento non aveva nemmeno mai creduto che la pelle di un essere potesse superare il calore provocato dalle febbri dello sciacallo.
Il sorriso di Alfeo si fece più sottile. «Perché ti ritrai? La verità comincia a svelarsi? Ho fatto tutto ciò perché tu potessi rimanere vivo e potessi tornare. Guin, tu hai un intuito sopraffino, mi meraviglio che una cosa talmente stupida ti sia sfuggita. Cosa credi, che Silenio Oddo avrebbe acconsentito a tutto ciò che doveva essere fatto senza niente in cambio?»
«Ma come, dopo tutto ciò che hai fatto per La Città, ancora osa chiederti qualcosa...» ribatté Guin tentennando. Ma poi la rabbia si impadronì di nuovo di lui. «Non puoi far ricadere la colpa su di me Alfeo! Non ti ho chiesto io di farlo...» protestò.
Alfeo portò le labbra all'orecchio di Guin, il suo fiato era rovente: «Ciò che faccio io per altri non è mai abbastanza contando quello che gli altri hanno fatto e fanno per me. Ma tu Guin...» sorrise, lasciando la frase in sospeso.
Improvvisamente Guin si sentì invaso da un sentimento d'infelicità dirompente: nessuno gli aveva mai dimostrato un tale attaccamento. Nessuno aveva mai fatto questo pur di tenerlo con sé.
«Non sono io che ti ho detto...» insistette debolmente.
Alfeo scosse la testa, sbattendo più volte gli occhi. «Ne ho abbastanza, devo riposare Guin!» Troncò la sua debole protesta incamminandosi verso i padiglioni. «Ti sono grato per l'aiuto che mi dai, sento che d'ora in poi divento sempre più forte...»
Guin rimase sulla riva del fiume, ad osservare le stelle, sperando ardentemente di poterne ricordare il nome o il principio della sua vita.

Quella notte sognò.
Fuoco, bruciante come le tenebre.
Un cerchio di fuoco lo attorniava, eppure il paesaggio circostante rimaneva sempre in ombra, e lui non riusciva a scorgere nulla. Cominciò a pensare che il mondo fosse scomparso inghiottito dall'ombra, e che l'unica cosa che lo facesse esistere fosse quella parvenza di sangue che lo circondava. Poi però nell'oscurità comparve un colore, una mandorla gialla si aprì lentamente scoprendo l'iride di un serpente, prima che fosse coperto dalla sabbia.
“Dovremmo darlo agli iconoclasti, sapranno cosa fare di lui”.
Una voce, una donna sopra di lui di cui tratti del viso era sfocati.
La donna gli accarezzava la fronte, e sussurrava parole in una lingua ormai dimenticata, mentre uno strano dolore cominciava a pervadergli tutto il corpo. Come un fuoco.
Quando la cantilena e il dolore giunse al massimo sopportabile riuscì a capire un frammento di ciò che diceva la donna.: se tocchi un dio non avrai pace, ma febbre...
Guin aprì di soprassalto gli occhi, portandosi la mano alla spada accanto a sé. Era raro per lui sognare quando per tutta la vita era stato abituato a destarsi per il più piccolo rumore.
Si alzò di scatto dal letto, già equipaggiato, quella notte aveva dormito con la sua Pelle di Drago.
L'altra notte si era dimenticato ciò che voleva fare, quindi, non gli restava se non fare ciò che Alfeo gli aveva chiesto, così l'avrebbe rivisto.
Sapeva bene ciò che stava per succedere, infatti, poco dopo entrarono nel padiglione con la forza di un toro una dozzina di uomini in armature lussuose.
Un uomo, con faccia corpulenta di un toro, si fece avanti sventolando un pezzo di carta in mano. «Sei agli arresti, bruto di un pelle nera» sputò con disprezzo. «Accusato di essere stato complice nel bruto assassinio del protetto Oliviero, in questi tempi turbolenti, dall'attendente di Silenio Oddo.»
Guin fece cadere la spada a terra, sbuffando. Era una seccatura, ma una volta finito avrebbe potuto finalmente fare ciò che doveva fare.
«Fai ciò che devi fare e vedi di farlo in fretta, buffone» ribatté Guin brusco. «In questi tempi guerra ognuno di noi a dovuto rinunciare a qualcosa. Io ho rinunciato alla mia pazienza, e credimi quando ti dico che dovresti approfittare del momento, perchè non sono sicuro che resterò così passivo per tutto il viaggio verso Criisi, per il processo.»
L'uomo si fece avanti colpendolo col il guanto di ferro. Guin cadde a terra per la forza d'urto, sputando un pezzo di dente. Cercò di rialzarsi, preso dalla rabbia, ma altri due uomini lo immobilizzarono e si ricordò di aver buttato la spada a terra.
«Non so di cosa tu stia parlando, blasfemo di un pelle nera. Quale processo! Non ci sarà nulla di tutto ciò, e tu non vedrai mai Criisi in vita tua» replicò l'uomo ridendo.
Detto questo sguainò la spada.


Note: Non sono convinta del risultato finale, doveva venir fuori come una specie d'amore – amicizia platonica, anche se non so come risulta agli occhi degli altri...


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Correttezza sintattico-grammaticale 6/10
Stile e lessico 7/10
Caratterizzazione dei personaggi 8/10
Originalità 8/10
Coerenza con la citazione scelta 8/10
Gradimento 3/5
Totale:40/55

Ci sono alcuni errori, principalmente nella punteggiatura (e un qual era con apostrofo e qualche congiuntivo mancato!), alcuni refusi, ripetizioni e dimenticanze, ma, soprattutto, alcune frasi dall’eccessiva “arzigogolatura” che portano ad una certa perdita di coerenza della frase stessa. Per la punteggiatura l’errore che hai fatto più spesso è di inserire la virgola dopo la lineetta di “riapertura” di un inciso/dialogo, per esempio “sedano di monte – una rarità in tempo di guerra -, …”. È come se tu mettessi una virgola da sola dentro delle virgolette: è sbagliato. La devi mettere, se vuoi proprio metterla (ma le lineette facendo da inciso la rendono spesso superflua) prima di aprire l’inciso stesso. Esempi di errori si trovano già all’inizio: “Col il” che sarebbe o solo “col” o “con il”, “fisico giunco” a cui manca un “da”, ma che suonerebbe meglio con l’aggettivo “snello”, tutte le volte che ti riferisci a Elowys dici che “gli disse, gli fece…” quando dovrebbe essere “le disse”; ti segnalo in questo gruppo anche “sdraiato sull’erba alta” che non è strettamente sbagliato, ma dà un impressione strana a prima lettura, come se galleggiasse ^^ lo sostituirei con “nell’erba alta”. C’è anche un punto in cui la Elowys fissa insistentemente Guin... ma, per come la frase è posta, è logico che lo fissi “insistentemente” mentre dialogano. Forse intendevi insolentemente? intensamente? Comunque, anche qui, non è propriamente un errore. Fra le frasi eccessivamente girate e rigirate che a un certo punto sembrano mancare di una certa logica ci sono “L'oscurità che pervadeva l'ambiente era rischiarata, allontanando dalla mente di Guin l'inquietante sensazione di essere osservato da entità oscure dall'altra lontana, fitta sponda” … ora, io ho capito il senso della frase, ma non è finita: da cosa l’oscurità è rischiarata (poteva essere un, non so, “appena rischiarata dai primissimi raggi di sole”), ma soprattutto perché la luce allontana l’inquietudine: tu sai il perché nella tua testa e io capisco il perché ragionandoci, ovvio, ma... resta la sensazione che manchi qualcosa per chiudere la frase. Un errore “logico” invece è verso il finale, mentre mangiano e i cibi si possono “intingere nelle grosse forme di pane”. Il pane non è liquido, non vi si può intingere molto, piuttosto il pane può essere intinto in qualcosa… ma dato che subito prima parli di torte alla crema, anche quelle difficilmente sono fonte di “puciamento”, come si dice dalle mie parti! Questa forma così complessa penalizza anche lo stile: non è fluida da leggere questa storia, anzi, spesso si deve rileggere una frase per controllare di aver ben capito il senso. Lo stile, infatti, è molto complesso, a mio parere eccessivamente, ma questa cosa la riprendo nel gradimento.
Le frasi con inversione oggetto-verbo suonano più ricercate, è vero, ma in un racconto di questo tipo, a mio parere, disturbano più che entusiasmare; inoltre il lessico ha qualcosa che non va, è come se tu avessi voluto, in questo racconto, cercare termini ricercati (passami la cacofonia) e metterli qua e là per decorare la storia, sbagliandone il contesto e, a volte, persino il significato. Il vestiario lascivo da guerra da Guin, per esempio: o il ragazzo va in guerra a torso nudo e con tanga di seta ^^ oppure sarà un abbigliamento leggero, magari non metallico, ma non lascivo. La ragazza che siede “alla stregua del banco nobiliare e delle servette”… dato che “alla stregua” significa “alla maniera”, non riesco a capire il senso della frase… idem più sotto, che dici che siede “allo stremo”. Lo stremo si usa, sì, per indicare il limite di qualcosa, ma solo per cose astratte come… allo stremo delle proprie forze. La forma corretta è “all’estremo della panca”. Lì vicino, un altro esempio che mi viene, è che Guin cresce in un territorio “di tavolato deserto”… ma perché? A volte semplificare paga più di eccedere: “un territorio desertico” basta e avanza. Inoltre credo che per far capire meglio a me il mondo che sta dietro questa oneshot tu abbia ecceduto in spiegazioni che sarebbero forse state meglio nelle note: per esempio il panegirico del signorotto locale quando accoglie Alfeo… chi è presente in sala sa chi egli sia, non serve la spiegazione sul fatto che è l’ultimo discendente di una famiglia detta bla bla che ha fatto bla bla… queste cose interrompono la narrazione. Ed è un peccato perché questa già è abbastanza lenta! Inizi il racconto con un’attesa, prosegui con un percorso a cavallo in cui non avviene niente, l’incontro col principe… tutto è finalizzato all’analisi del protagonista, dei suoi ricordi, dei suoi pensieri, non c’è molta azione. Questo non è un male, sia chiaro, ma se ad una storia lenta unisci un linguaggio ed uno stile troppo sofisticati finisci per avere un racconto eccessivamente difficile da approcciare. La caratterizzazione dei personaggi è che buona, mi lasciano perplessa certi scatti d’umore così inspiegabili, gente prima beffarda, la frase dopo remissiva, … ma forse non conoscendo quello che c’è sotto – intendo narrativamente, continui a parlare di “quello che il principe ha fatto per noi” senza dire cos’ha fatto – è normale che sia così. Anche Elowys mi lascia perplessa. A livello fisico prima dici che la sua bellezza disturba Guinn, poi però sostieni che in viso non sia poi questo spettacolo… ecco, la bellezza non è solo avere un bel fisico xD e lo stesso per il carattere, la dici sfrontata e pericolosa, eppure silenziosa e dalla voce flebile… sono due immagini di lei diverse e difficilmente raccordabili.
La storia è abbastanza originale, ma date le premesse e la caratterizzazione del principe, lo svolgimento dalla cena in poi ed il finale sono abbastanza prevedibili; sciocco da parte di Guin essersi fidato…
Infine la citazione. Era probabilmente la più difficile da associare davvero ad una storia. Qui l’ho ritrovata, sì, ma staccata: ho sentito la smania di potere del principe, la decadenza e la lussuria della sala banchetti e dell’accampamento… eppure non è convincente, come citazione, non dà in pieno il senso di essere il filo da cui si dipana tutta la narrazione. Ma questo è, ovviamente, la mia impressione.
Come ho già detto più su, nonostante la storia, come trama, mi sia piaciuta, il tuo stile ricco, a tratti eccessivo nel modo di strutturare la frase, non mi ha conquistata; per questo il gradimento penalizzato.

  
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