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Autore: revansenich    20/06/2013    0 recensioni
Un solo nemico un solo eroe ed un gruppo di amici pronti a lottare al suo fianco. Ma se non fosse andato così?
In fondo il mondo è tutto grigio.
Genere: Drammatico, Fantasy, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Tom Riddle/Voldermort
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7, Da VII libro alternativo
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Disclaimer: I fatti riportati in questo testo sono puramente frutto della mia immaginazione. I nomi utilizzati sono anch'essi frutto della mia immaginazione, e qualsiasi riferimento a fatti o persone veramente esistenti è puramente casuale.
 

Giochi di luce tra le ombre.

«Ci sono storie che quando le racconti si consumano; altre, invece, consumano te.»
-Palahniuk

 


Lei era appollaiata sulla scrivania di legno massello, destinata ad altri scopi da più di due ore, e nessun muscolo del suo corpo si era mosso fino a quel momento per dare prova che non fosse semplicemente un manichino di porcellana abbandonato lì, con la testa appoggiata fra le ginocchia; ma questo non era necessario, bastava guardare i suoi occhi per capire quanto terribilmente fosse reale, con il suo sguardo da bambina che ha appena ricevuto l'ennesimo rimprovero per aver messo le mani nella torta. La pallida luce del sole di fine estate, che macchiava il cielo, filtrava dall'immensa finestra a mezza luna che le si apriva dinnanzi; le illuminava i capelli biondi, talmente chiari da parere fili di seta bianca posati delicatamente sulle sue spalle, e giocava con le antine di cristallo della teca alla sua destra formando spirali e riflessi colorati ipnotizzanti che animavano l’uccello posato sul suo piedistallo, poco distante, che si sbilanciava nel tentativo di catturare quei piccoli animaletti dai mille colori figli della luce. «Non potrà controllarmi per sempre!» Risuonò fredda e apparentemente vuota la voce di lei. «Non più.» Pareva una promessa rassegnata, quasi una profezia.  Balzò giù dalla scrivania lentamente, come se il suo corpo non potesse permettersi dei movimenti troppo bruschi, ma comunque elegante e aggraziata. La sua voce pacata, la tranquillità dei suoi movimenti mascheravano tutta la frustrazione che provava e che da un momento all’altro sarebbe esplosa. Le domande senza risposta, le missioni insensate, i divieti Inspiegati le si accumulavano dentro formando, come i rifiuti in una discarica, un’enorme pigna che pesava sempre più su di lei.
Si voltò, dando le spalle alla parete ricoperta di tappezzeria dorata e di dipinti ornati da ricche e suntuose cornici. La fenice gracchiò e la ragazza le si avvicinò molto lentamente e le accarezzò il becco con delicatezza e affetto. Erano rimaste sole, ancora una volta, come lo erano sempre state: solo loro due senza appoggio o conforto alcuno. Ci fu un sospiro e un fremito soffocato. «Lei non capisce!» Disse infine con voce bassa e rauca che solitamente non le apparteneva. Ci fu un momento di silenzio prima che una risata pacata rompesse la quiete. «Tutto a suo tempo..» Rispose con un tono che sembrava stonare con tutto il resto del mondo: con il sole morente nel cielo, con il gracchiare disperato della fenice, con l’innaturale silenzio della stanza e con la fronte corrugata di Alice che scrutava il dipinto preoccupata e furiosa. «Ma il suo tempo ormai è finito, deve capirlo questo!» Ribatté a voce alta.
Aveva gli occhi lucidi che rimarcavano le occhiaie che le si erano formate sotto di essi. Da quanto tempo non dormiva? Tanto, troppo per ricordarselo; l’unica cosa che la strega rammendava erano gli incubi che avevano animato il suo ultimo sonno. Era arrabbiata, furiosa e, cosa ancora più esasperante, non sapeva la causa di tale sentimento. Si odiò per quello che stava per dire, quasi fosse una beffa per l’uomo bloccato nel ritratto, incapace di muoversi dal suo alloggio e di interagire con la realtà. «Lo farò comunque, con o senza il suo consenso, non può far nulla per impedirmelo» Dichiarò ritornando improvvisamente la solita di sempre. Tuttavia non osava guardare in alto, vedere quell'espressione vuota e imperturbabile che le sorrideva in modo insulso e primo di vita, che non era stata neppur lontanamente toccata dalle sue parole e che se ne sarebbe rimasta lì, composta nella sua perfezione e maestosità a guardarla e replicare. L’uomo rise, una risata priva di gusto o divertimento, una risata piatta e vuota. Non rideva perché fosse divertito, rideva perché era quella la prassi alla quale era abituato. «Sei troppo precipitosa, come ho già detto il tempo ha il suo corso e va rispettato.» Disse. Nella sua voce calma e pacata v’era tutta la convinzione di chi ha la certezza di aver raggiunto il proprio scopo. «Sa benissimo che per me il tempo ha un concetto diverso.» Concluse.
Alice si sentiva quasi presa in giro, era offesa, Lui non si era minimamente curato di ciò che fosse, in quale forma fosse bloccata; le aveva parlato come si parla ad una qualsiasi ragazzina di diciassette anni con un esperienza puramente accademica, quando in lei di accademico vi era rimasto ben poco. «Non dovesti essere qui: hai il tuo posto dove poter stare, il tuo rifugio, è stato fatto per te.» disse pacatamente l’uomo. Lei non ribatté ma si limitò ad annuire. «Lo so, ma dovevo parlarle.» mentre diceva quelle parole comprese quanto poco senso avessero. Era così sciocco, si sentiva una sciocca, anche perché effettivamente non stava parlando con nessuno, perché lì non c'era nessuno con cui parlare. «Credevo che avessimo già parlato.» Rispose la voce. «Non di questo!» Disse con voce vibrante. Perché andava avanti a farlo? «Dobbiamo parlare di Lui.» Dopo una pausa la voce si fece risentire. «Ti ho già spiegato come stanno le cose, io mi fido di Lui e non c’è ragione per cui tu non debba fare altrettanto. Siete tutti uguali, voi giovani.» Disse sempre tranquillo. «Non ha esitato ha fare ciò che gli hai chiesto, neppure per un attimo! Ciò non vi fa riflettere? E poi io non sono giovane, lo sapete bene.» Era esasperata. «Analisi sbagliata, mia cara. Sai benissimo quanto tempo ho impiegato per convincerlo. Conosci le sue ragioni.» Lui aveva ragione e lei si limitò ad abbassare il capo in segno di sconfitta. Si avvicinò alla finestra, il sole era ormai tramontato, la notte aveva ricoperto con il suo manto scuro il cielo sopra il castello, la fenice si era addormentata con la testa sotto l’ala e da molti dei ritratti giungevano respiri pesanti.
Alice si sedette sulla sedia imbottita vicino alla scrivania e si mise a scrutare il vuoto. Sembrava aspettasse qualcosa, lì seduta con gli occhi semichiusi e lo sguardo vacuo; eppure quando, dopo diverse ore, un rumore di passi che si facevano vicini la scosse, lei si rintanò dietro ad un mobile di legno scuro. Si sentì così ridicola, come una bambina che gioca a nascondino e nel contempo come una padrona di casa sfrattata da un'estranea. Il mago comparve nella sua veste sporca e consumata; si trascinò fino alla poltrona, ancora calda del corpo di Alice. Pareva stanco, frustrato, come se avesse appena superato una prova che aveva richiesto molto sacrificio ed energia. «Tutto come avevate richiesto.» Disse d'un tratto come se qualcuno glielo avesse chiesto. «Potter verrà trasferito sabato sera, al calar del sole.» Disse con tono più che soddisfatto. Alice se ne stava accucciata con la fronte corrugata e le mani contratte mentre ascoltava la conversazione con estrema attenzione. Era esterrefatta, non riusciva a credere a ciò che l’uomo stava riferendo ma la cosa che più la sconvolgeva era la reazione del dipinto. «Benissimo e Mundungus?» Chiese con aria impassibile il ritratto. «Come avevamo previsto, non ha opposto resistenza ed non è servito neppure obliviarlo!» Disse con tono che pareva compiaciuto.
Calò il silenzio e Alice ebbe il tempo per riordinare i proprio pensieri. Aveva udito Piton parlare del trasferimento di Potter, aveva rivelato l’operazione a qualcuno, ma allora perché l’uomo nel ritratto sembrava felice quanto lui? Perché se n’era rimasto tranquillo e compiaciuto nella sua cornice senza obbiettare? Doveva andarsene, restare lì diventava sempre più rischioso. Non sapeva cosa fare, si protese leggermente in avanti per studiare la stanza circolare avvolta nella penombra; Piton era seduto in modo scomposto sulla poltrona e si massaggiava le tempie con una smorfia sul volto e gli occhi socchiusi. Alice si sporgeva sempre più, cercando di capire se il Professore fosse addormentato o meno ma improvvisamente la mano della ragazza, appoggiata al piede del trespolo della fenice, scivolò sul metallo dorato e il suo cadde con un moderato tonfo sul pavimento lucido. Chiuse gli occhi e si cruciò, per una manciata di secondi rimase così, poi sgranò le palpebre lentamente e si trovò di fronte all’unta figura del professor Piton che la osservava imperscrutabile. La strega di riflesso agguantò subito la bacchetta, balzò in piedi ritrovando la compostezza, e la puntò a pochi centimetri dal collo del professore che la guardava senza batter ciglio come se la volesse penetrare con lo sguardo. Di sfuggita Alice lanciava rapide e fulminee occhiate al ritratto che guardava altrove totalmente disinteressato, la cosa la faceva inspiegabilmente infuriare; e quando quest'ultimo abbandonò la sua cornice nell'ufficio dei presidi a Hogwarts, per farsi un giro tra quelle gemelle poste altrove decise che doveva fare qualcosa. «Quando?» Chiese con voce ferma spingendo la punta della bacchetta sul collo dell’uomo che non indietreggiò. «Sabato prossimo, al tramonto.» Rispose senza opporre resistenza: pareva gli avesse chiesto che ore fossero.
Il silenzio calò nella stanza, Alice non sapeva né cosa fare né come reagire, perciò iniziò ad indietreggiare lentamente e a percorrere la stanza verso l’uscita, contratta ed imposizione d’attacco: se solo Piton avesse aperto bocca sarebbe passata all'azione senza esitazione. Guardò un'ultima volta la cornice vuota e sparì nel buoi del corridoio. Non si preoccupò di eseguire un incantesimo di luce; conosceva quel corridoio, come ogni altro della scuola, come le sue tasche e lo percorse a passo spedito. Non correva, semplicemente se ne andava via risoluta senza voltarsi indietro: se lui l'avesse seguita, lei lo avrebbe sentito. In pochi minuti si trovava davanti alla Stanza delle Necessità, la sua meta. Appoggiò con delicatezza la mano sul muro e pensò: “Mi serve un posto dove vivere” la porta comparve e Alice vi si intrufolò velocemente.
La stanza non era molto grande e neppur luminosa: v’era un letto addossato ad una parete spoglia, vi era poi una sedia ed una piccola scrivania nell'angolo più a destra, un armadio e un calderone in disuso in un angolo. Si buttò sul letto con stizza e si mise a dare pugni al cuscino ansimando: quello era l'unico luogo dove l'era concesso di essere quella che era. Dopo essersi sfogata si alzò con stizza e prese una borsa a tracolla da sotto il letto, vi infilò un paio di vestiti presi a caso dall'armadio, un set portatile per preparare pozione che sembrava  risalire al secolo passato, un paio di particolari ampolle sottili e di cristallo e un piccolo taccuino di pelle blu scura. Quando fece per infilare quest’ultimo da esso scivolò un biglietto consumato e sgualcito. La ragazza lo guardò cadere a terra con sguardo assente e quando esso si posò sul pavimento di pietra cadde sulle proprie ginocchia come un cavaliere ferito. Afferrò il biglietto e lo lesse più e più volte:

 

«Al cerchio di pietre, ore 11. T.»


Le lacrime iniziarono a sgorgare, come un fiume in piena quando straripa, dagli occhi gonfi e stanchi di Alice che si lasciò scivolare sul pavimento. Era freddo duro e scomodo ma la ragazza era esausta e le bastò socchiudere gli occhi per cadere nel sonno più profondo.

  
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