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Autore: _Sinclair_    20/06/2013    2 recensioni
In un tranquillo paesino del nord della Francia, le vite degli abitanti scorrono all'ombra della grande cattedrale. Ma sotto questa apparente normalità si muovono tragedie e drammi personali di cui solo un vecchio custode è a conoscenza. Storia giunta seconda classificata nel contest "Citazione necessaria".
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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"Se guardi nel buio a lungo, c'è sempre qualcosa." (William Butler Yeats) 

 

 

 

Guardo.

E' il mio lavoro. Il mio compito.

Forse non è un'occupazione particolarmente esaltante, ma questo è quello che faccio e penso di essere anche bravo. Rimango qui, davanti alla piazza, a vederla svuotarsi e riempirsi di nuovo giorno dopo giorno, notte dopo notte. Ecco, la notte, è proprio quello il mio mondo, l'ora in cui la mia guardia comincia , l'ora in cui si nascondono i pericoli maggiori.

Che poi, pericoli... Anche adesso che il sole tramonta tra Rue de Saint-Hilaire e Rue du Cardinal Mazarin, facendo brillare con la sua ultima luce i tetti del municipio e dell'ufficio delle poste, adesso che sto iniziando il mio servizio, mi viene un po' da ridere se ripenso a quanto mi si stringeva il cuore i primi anni all'ora del tramonto. In quei giorni ormai lontani (eh sì, ho sempre fatto questo lavoro e nient'altro nella mia vita) il solo pensiero di dover affrontare le insidie della notte mi atterriva. Guardavo e riguardavo, e guardavo ancora, convinto di veder comparire chissà quale spirito maligno dai pochi alberi del piccolo giardino comunale situato al centro della piazza, sicuro che mille demoni crudeli mi spiassero da dietro le finestre, o magari rimanessero in agguato nascosti dietro le sirene e i tritoni della fontana di marmo.

Poi, i giorni, le settimane, i mesi e - per l'appunto - gli anni mi hanno fatto comprendere quanto futili fossero le mie preoccupazioni. Cosa volete che possa succedere in una cittadina di campagna come la nostra, spersa tra le colline della Normandia e ricordata principalmente per le dieci diverse qualità del proprio formaggio ? Quale diavolo si darebbe mai la pena di venire qui, nel bel mezzo del nulla, per tentare anime la cui unica preoccupazione è tirare a campare, mettere su famiglia e sentirsi un po' meno soli quando si è vecchi?

Sì, d'accordo, c'è stata la guerra e di diavoli ne abbiamo visti parecchi. In quegli anni sì che ne succedevano di cose. Ovviamente io c'ero (non ve l'ho detto, ma avrete già capito che tanto giovane non lo sono) e con i miei occhi ho visto la fontana saltare per aria, centrata in pieno da una bomba calata dal cielo. Un miracolo, dissero allora, perché quello fu l'unico ordigno a colpire la città in tutto il conflitto, ma la realtà è che fu sganciata per errore da un aereo diretto verso un altro obiettivo ben più imporante, e di vittime non ne fece nemmeno una. Certo, si sbagliavano, perché io quelle sirene e quei tritoni li conoscevo bene, potrei dire che li consideravo già da tempo dei miei vecchi amici, tante erano state le notti che avevamo passato insieme. Ma, si sa, le persone spesso non sanno quel che dicono, non ne colgono il reale significato. Dicono che non è morto nessuno proprio mentre sono intenti a rimuoverne o a calpestarne i poveri resti. 

E non è finita qui. Gli stessi uomini che ringraziano il cielo, lo stesso cielo dal quale piovono le bombe, per averli risparmiati lo offendono poi erigendoci contro mostri metallici come quell'orribile lastrone di bronzo con una sorta di sfera attaccata in cima, un globo tutto sbrindellato e contorto che dovrebbe fungere da memoriale per i caduti. Ah, se odio queste nuove costruzioni fatte solo di metallo, una materia corruttibile, deforme, infida... pensate che la sottospecie di vasca con cui hanno sostituito la vecchia e bella fontana, lì sotto il lastrone, devono venire a ripulirla almeno due volte l'anno perché non si arrugginisca! 

Sto divagando, non rimango con i piedi per terra. Il che, vista la mia posizione e il mio compito, sarebbe molto inappropriato.

Lo devo ammettere, col tempo mi sono abituato anche a quel ferraccio che deturpa la piazza. In fondo, non è mica colpa sua se è così brutto, no? E poi mi piace come ci giocano sopra i raggi del sole al mattino, quando il mio turno finisce e la luce riappare da dietro la piazzetta del mercato. Il bronzo, così sporco e rossastro mi pare quasi fiorire per la gioia di essere scampato ad un'altra notte, di avere un'altra giornata di fronte a sè. In quei momenti, i riflessi che rimbalzano sulle lettere in rilievo dei nomi dei caduti mi riportano in mente gli spruzzi che nella fontana l'acqua versata dalle bocche dei tritoni finiva con il colpire le impudiche code delle sirene, forse un po' troppo alte per la decenza comune ma così graziose e leggere. Perfino le acque scure della piccola vasca sembrano vivere di nuovo e tornare ad essere un qualcosa di vagamente naturale.

Rido un po' tra me e me. Rido del mio lato poetico, della mia fissazione di cercare la bellezza in qualsiasi cosa, del ritenere che essa sia contenuta nella materia e che basti così poco per farla uscire. Non sono poi tanto diverso da quei bambini che passano le ore a cercare di far venire fuori le lumache dal guscio o che rimangono incantati dallo spettacolo di una farfalla che emerge dal bozzolo. E sono sicuro che la mia colomba riderebbe con me di queste parole.

Lo farebbe se avessi il coraggio di parlarne con lei. Se potessi parlare con lei.

Adesso, guardando gli alberi del giardino, in direzione della sua casetta che dà sulla piazza, posso quasi sentire il suo dolce respiro reso più pesante dal sonno. E posso immaginarla con il capo chino, bianca del biancore che solo la sua purezza assoluta può dare, a fare chissà quali sogni. Sogni sulla propria vita, la propria città, la piazza dove vive... e forse sul suo guardiano. Forse su di me. E poi, con il pensiero già corro al mattino, quando alla fine della mia veglia, lei esce di casa e attraversa veloce la piazza. 

Ecco, penso. E divago ancora. Ma non m'importa, accidenti! Che altro posso fare, in questa mia esistenza notturna, rinchiusa tra i muri di una piazza insignificante, costretta in una guardia senza alcuno scopo? Ho qualche altra alterntiva che pensare e sentire queste cose, io? Ho mai avuto una qualche altra alternativa nella mia vita? Esistere, e basta. Venire al mondo e poi, da subito, guardare e custodire, proteggere e sorvegliare. E che cosa? Quattro sassi che non vuole nessuno, contro nemici inesistenti? E questo buio, questo maledetto buio che mi circonda, mi soffoca, mi ricopre con l'insistenza di una melassa fastidiosa... se almeno, se almeno...

Pensieri feroci ma vani. Anche la cattiveria, il rancore, la recriminazione per me sono amicizie inutili, che non vale la pena di coltivare. Non mi portano a niente. Accettare e andare avanti, con pazienza e - perché no - anche un po' di rassegnazione. Sì, forse dovrei prendere esempio da Marcel del carretto.

Eccolo lì, puntuale come il tempo stesso, ad affacciarsi all'angolo della piazza, quello che dà su Rue de l'Etoile. Lui e il suo trabiccolo un po' sgangherato, una sorta di grossa carriola con due ruote malmesse e una montagna di fiori che ci straripano sopra, appoggiati alla bell'e meglio. Anzi, nemmeno, perché quando cammina gliene casca sempre un mazzetto o due e anche stasera è arrivato portandosi dietro una scia di petali, rametti e foglie assortite. 

Fa sempre così, ogni sera. Arriva a quell'angolo, evita per un soffio l'immancabile auto che minaccia di investirlo, piazza il carretto sotto il lampione e si siede sulla solita panchina, rivolgendo qualche parola distratta ai passanti per invogliarli a comprare qualcuno dei suoi fiori... ma senza affanno, perché anche se non ne vende neanche uno lui è contento uguale. Stasera che fa freddo indossa un cappotto marrone di foggia elegante ma un po' liso sulle maniche e in testa porta un grosso berretto più o meno dello stesso colore. Si siede, si liscia i suoi grossi baffoni grigi, inforca un paio di occhiali dalla montatura d'argento e apre un libro (non l'ho mai visto senza, quasi che abbia bisogno di avere un po' di carta tra le mani per vivere). E come sempre lancia un'occhiata di sbieco a quel grosso coso di metallo che odia almeno quanto me, cosa che me lo ha sempre reso simpatico. Siamo un po' troppo lontani per salutarci, mi spiace non poter lasciare il mio posto, ma so che è consapevole della mia presenza, uno dei pochi.

Lo vedo bene, fermo nella sua isola di luce assediata dal buio, ai lati della piazza, e lui vede me, e questo ci basta. Tanto lo so, magari venderà qualche giglio o una rosa, e tra un po' finirà con l'addormentarsi, quasi fino all'alba. E lungi da me l'idea di cacciarlo o rimandarlo a casa! Lo dice sempre a tutti, lui, che non vi è posto migliore per assopirsi che in mezzo ai propri fiori, che gli regalano sogni più belli, che sono l'unica gioia degli ultimi anni della sua vita e nessuno ha il coraggio di ribattere, io meno di tutti.

Non è sempre stato così Marcel del carretto. Una volta era il signor Ferrault, il proprietario della più grande negozio di fiori della città, un negozio bellissimo dalla facciata decorata con fregi dorati e situato nientemeno che in Boulevard des Frères-Noires, a due passi dal municipio. Una persona di gran gusto, di grande ricchezza, di grande abilità nel commercio. Uomo d'affari, dunque, ma anche poeta sprecato e mai compiuto, anche lui con la passione per il bello in qualsiasi sua forma. Aveva soldi e risorse, non un solo problema al mondo. Tranne uno, e ovviamente il più grave: la signora Ferrault.

Come lui avesse potuto sposare quella bottegaia gretta e arrogante era uno dei grandi misteri della nostra città. Non era bella, non era ricca e non era nemmeno particolarmente intelligente, visto che almeno in diverse occasioni c'era voluta tutta l'abilità di Ferrault per riparare ai suoi malestri finanziari e salvare il negozio. Forse il giorno del suo matrimonio era distratto, troppo incantato dai mazzi di fiori che ornavano questa stessa cattedrale sotto cui mi trovo ora, o forse sperava di poter coltivare nell'animo della futura moglie una qualche recondita e meravigliosa qualità. Ma avrebbe fatto prima a cercare di far crescere delle rose in un campo di rape! Quella donna orribile non aveva fatto altro che derubarlo di quarant'anni di vita, privandolo di ogni gioia e dandogli null'altro che pensieri su pensieri. Avesse almeno avuto la cortesia di tradirlo e di lasciarlo (o avesse avuto lui il coraggio di farlo a sua volta... ogni giorno, davanti al suo negozo, c'era la fila di belle signore incantate dalla sua persona tanto che dalle sue orchidee, e di certo non sarebbe rimasto da solo per tanto tempo...), almeno Ferrault si sarebbe potuto ancora salvare e non sarebbe diventato Marcel del carretto!

E invece no, c'erano voluti quarantuno anni, tre mesi e quattro giorni di sofferenza (sono un tipo preciso, io, soprattutto in fatto di tempo) perché la signora Ferrault decidesse di togliere finalmente il disturbo andandosene al Creatore. Solo che quando il cuore della megera aveva fatto cilecca Ferrault era ormai diventato vecchio e tutto imbiancato. Però quella sua testa così stramba aveva in serbo un'altra bella sorpresa per noi e cosa credete che abbia fatto due giorni dopo il funerale della strega? Non si diede alla pazza gioia, cercando magari quelle compagnie femminili più giovani che i soldi gli avrebbero comunque garantito a dispetto degli anni. Non si rinchiuse nemmeno in casa nè se ne andò dalla città. No, non ha fatto nulla di così banalmente straordinario. Ha fatto di più.

Ha offerto una bella cena di ringraziamento a tutti i suoi amici e a coloro che erano venuti al funerale, ceduto il suo negozio (l'unico motivo di astio che ho nei suoi confronti: ora al posto dei suoi fiori c'è un orribile rivenditore di roba elettronica... altro metallo, insomma) e venduto la sua casa per abitare in un appartamento più piccolo che dà su questa piazza. Poi, un mesetto dopo è comparso all'angolo di Rue de l'Etoile con quel suo carretto ricolmo di fiori, si è andato a piazzare sulla prima panchina libera (che da allora è sempre rimasta tale, a lui riservata da un tacito accordo di tutta la città) e ha cominciato a leggere ogni sera un libro diverso. 

Una volta una ragazza gli si è avvicinata e gli ha domandato perché facesse così, la domanda allo stesso tempo più intelligente e più stupida che si possa fare ad un settantenne che ha deciso troppo tardi di dare una svolta alla propria esistenza. Lui ha chiuso il libro, l'ha guardata dritto negli occhi e le ha risposto che lo fa perché gli piace l'aria della notte. Poi, senza lasciar passare nemmeno il tempo un respiro, le ha chiesto se anche a lei l'aria della notte piaceva. La ragazza - con l'aria contrariata di chi, preso alla sprovvista, si trova a dover ribattere ad una domanda impertinente - ha scrollato le spalle e se n'è andata, senza dire altro. L'aria della notte, figurarsi... quell'uomo doveva esser matto.

L'aria della notte. Stupida ragazzina, Marcel ha tutte le ragioni di questo mondo. A lui quell'aria piace tanto, e non c'è molto altro da dire. Piuttosto, gli si potrebbe obbiettare che l'ha capito troppo tardi. 

Gli si è accostata una giovane coppia, penso siano sposati, e se sì sicuramente da poco. Hanno anche una bambina, uno scricciolo con troppi capelli in testa e gambine troppo corte per camminare ancora bene. Ah, Marcel, vecchia volpe, i tuoi affari li sai fare ancora bene... regali un ranuncolo alla piccola e poi dai uno sguardo d'intesa al padre. E lui che altro può fare se non comprare il resto del mazzo per la moglie? No, non è uno sciocco e in fondo nemmeno uno sfortunato. Solo un po' disattento, ecco, al punto da dimenticarsi la propria vita con la stessa facilità con cui ci scordiamo le chiavi di casa nell'altro cappotto o non sappiamo più se abbiamo chiuso o meno il rubinetto del gas uscendo di casa. In fondo, sono cose che capitano.

Guardo ancora per un po' Marcel e la famigliola che adesso si allontana. Nel seguire il loro cammino verso Rue de Printemps, ora che scompaiono tra il chiasso del ristorante del signor Langier e le luci della tabaccheria della vecchia Adéline, alzo gli occhi e come spesso mi capita incontro le stelle. No, non fraintendetemi, non credete che io ami guardarle. Io la bellezza la voglio scoprire, non mi piace quando lei mi si getta davanti con la stessa sguaiatezza della prostituta di un bordello. Tutte quelle luci se ne stanno lassù, a creare disegni incantati, incapaci di rischiarare le notti degli uomini, buone solo ad ingannarli, fargli credere di poter sopravvivere a tutta quella oscurità. Loro rimangono piantate in tutto quel buio, fredde e noncuranti, ignorano i dolori, gli affanni, gli incubi... no, peggio, se ne fanno beffa regalando la falsa speranza di un giorno lontano a chi abbia la sventura di guardarle troppo a lungo, e se possono lo conducono alla rovina magari facendogli l'occhiolino da una pozzanghera o da un piccolo lago. E quanti poveri uomini e donne a loro hanno rivolto il proprio ultimo sguardo, dedicato i propri ultimi rimpianti, prima di farla finita lasciando questa terra?

Oh, ma loro non sono il peggio. Il peggio è lei. Sì, proprio lei. Quella Luna di cui parlano tanto.

Sì, non fare la furba, che ti conosco bene. So che stasera ci sei, che ti nascondi dietro quelle nuvole. Al tuo confronto, tu che sei solo una pallida imitazione del sole, perfino le stelle più crudeli non sono che vaghe chimere. Tu reggi le fila di questo spettacolo, tu dai le carte di questo gioco oscuro che è la notte, tu ospiti e nutri i sogni più astrusi, tu complotti contro gli esseri umani e i loro desideri. Oh, eccoti, finalmente! Ti fai vedere, rischiari con la tua luce sinistra quel po' che serve agli uomini per ricordarsi l'orrore della notte! Altro che dolce aria, Marcel, eccola la donna che ti ha rovinato, molto peggio di quella moglie che per le sue brutture, fisiche o morali che siano, non ha più colpa del blocco di bronzo ai caduti. Se i tuoi fiori li avessi visti più di giorno, all'onesta luce diurna, piuttosto che debolmente imbiancati da quell'ingannatrice celeste! Se tu avessi vissuto di più il giorno, quanto più felici sarebbero ora le tue notti!

Ma no, non mi sono dimenticato di te, Luna. Ti guardo, come guardo tutto, io. Come guardo la piazza che si svuota, nella quale rimangono sempre meno persone. Le famiglie lasciano il posto ai giovani, i giovani agli uomini soli, gli uomini soli ad altri con il proprio cane al guinzaglio per l'obbligatoria passeggiata notturna (e, a giudicare dai loro sguardi persi e annoiati, non so chi tra loro abbia avuto il destino peggiore). Lontani, sulla mia destra, una ragazza e un ragazzo si rubano a vicenda un bacio sotto il porticato, davanti alle insegne spente del bar della famiglia Houdert, e non so se stanno facendo i primi passi verso la loro felicità o verso la loro rovina. Una macchina passa, di fretta, con un faro acceso e l'altro rimasto spento.

E tu, Luna, sei lì, e come me vedi tutto questo. Tu, nel buio, tu nella notte, tu nel cielo freddo! Tu che - l'ho capito bene! - stai complottando anche contro Annette! La mia dolce, ingenua amica Annette, con i suoi scalpelli, i suoi occhiali troppo grandi per quel nasino e il bianco camice continuamente sporco e sdrucito. Lei che tiene i lunghi capelli rossi legati dietro la nuca con la scusa che le darebbero fastidio mentre lavora, ma in realtà solo per non apparire troppo, per non attirare lo sguardo degli altri. Soprattutto, per non attirare lo sguardo di lui, l'unico sguardo che conta. Annette che ti cerca sempre anche di giorno, Annette che stai per rovinare!

No, mi calmo. Devo farlo. 

Annette, povera Annette... Sto diventando vecchio. Sì, sono sempre stato vecchio, fin dai miei primi giorni. Troppo vecchio, troppo sciocco per non riconoscere il valore di un'amicizia e per non accettare il dolore che questa porta con sè. Perché Annette è mia amica, su questo non ci sono dubbi, e sono preoccupato per lei, preoccupato che faccia la stessa fine di quel disgraziato di Marcel. E Annette mi vuole bene, lo vedo da come mi guarda ogni volta che se ne va, dopo aver terminato la sua giornata di lavoro per pulire le statue del frontone della chiesa (niente di che, robetta di campagna, arte semplice per gente semplice che non si monta troppo la testa). La vedo da quando era bambina, da quando i genitori venivano per la messa. E oggi, dopo tanti anni, da quelle impalcature mi fa un cenno di saluto e talvolta, quando è da sola, mi parla alla ricerca di qualcuno con cui confidarsi. Confidarsi... con me, poi...

Ma non appena finisce, se ne va tra le braccia di quel buco nero, di quel gorgo inghiottitore del suo futuro che è il fidanzato. E io, che di lavoro faccio il guardiano, non riesco a proteggere una delle persone alle quali sono legato dall'affetto più vero. Ripenso ad Annette e mi chiedo come mi sentirei se al posto suo ci fosse la mia colomba. Tremo, tremo come le prime notti del mio lavoro, per contemplare a lungo una tale idea.

Ma il problema, come tutti i problemi più gravi, è semplice. Annette è fidanzata. Con... mi ricordassi mai qual nome... Antoine, o Simon o roba così. Non è che lui sia un cattivo ragazzo, solo che, beh, non è. Non è particolarmente intelligente, non è particolarmente bello, non è particolarmente simpatico e non ha nemmeno l'apprezzabile peculiarità di essere particolarmente ricco. Non è particolarmente un bel nulla. Ha una sola qualità, agli occhi di Annette: si conoscono da anni. Lei apprezza questa cosa, apprezza la sicurezza di sapere che quell'uomo c'è sempre stato. Forse, ecco, è questo che l'ha intrappolata, l'idea di proiettare nel futuro una sicurezza del passato, trasformandola in un eterno presente.

Povera ragazza, cosa ti stai facendo! Lo so bene, ne ho viste tante sia durante i miei turni di guardia che nei mille e mille giorni della mia vita. Apprezzare e amare sono due cose ben diverse e ce ne vuole tanto di amore per commettere uno degli atti più contrari al naturale egoismo dell'essere umano: dedicare la propria vita ad un altro, estirparla dal proprio petto e consegnargliela in mano. Anche lei, dannazione, è innamorata di questa luna, di questi sogni. E proprio per questo troppo amore, l'ho capito, sta per rinunciarvi per sempre, perché non potrebbe mai accettare la possibilità di non vederli realizzati e allora, come le madri che uccidono i propri figli per non farli morire di fame, li soffoca prima ancora che abbiano una speranza.

Che poi, la speranza ci sarebbe. André. 

Oh, questo nome me lo ricordo. Un intreccio talmente banale che nemmeno il più squallido degli scribacchini potrebbe mai accettare. Un suo collega, è ovvio. Arrivato da pochi mesi per collaborare al restauro, è ovvio. Bello, brillante, intelligente. E' ovvio. Se li vedeste insieme quei due... non sembra nemmeno che lavorino, appollaiati su quelle astruse impalcature di legno che coprono metà della facciata della chiesa, paiono due ragazzi che si siano appena incontrati in un bar del centro. Ecco, loro due sembrano sempre al primo incontro, hanno quella sorta di inesauribile e insuperabile imbarazzo reciproco del primo fortuito appuntamento, uno stato d'animo così dolce da poter sostenere da solo un'intera esistenza in comune. Annette arrossisce sempre un po' sulle guance, commette per l'emozione qualche piccolo errore di pulitura dei marmi che André rettifica senza nemmeno dirglielo, intervenendo solo quando non c'è o è di spalle. E parlano, e ridono, e si tirano le gomitate o si rimbrottano l'uno con l'altra quando arrivano in ritardo a quello che non è altro ormai più che un lavoro è diventato un incontro continuo.

Ma no, quel coso che le va appresso può stare tranquillo (sempre ammettendo che abbia l'intelligenza necessaria per essere geloso...). Annette non seguirà quello che i suoi occhi già sanno, non lo lascerà. No, Andrè è troppo, non può essere vero, non può funzionare. Non deve funzionare, andrebbe contro tutta la sua esistenza, il suo modo di vivere, l'assoluta propensione alla malinconia sulla quale si fonda il suo carattere. Quella dolce droga sinuosa le avvilupperà il cuore, la Luna farà il suo incanto facendole dimenticare la verità e i lunghi capelli rossi rimarranno legati, poi coperti da un pallido velo di sposa e poi ingrigeranno, inutili e sfatti. Non si scioglieranno mai, non assomiglieranno mai alle onde del mare, non sentiranno mai la brezza della vita. Moriranno.

Pessimista? Non mi serve saper scrutare nel buio per vedere questo futuro, perché i primi segni sono già qui, sotto gli occhi di tutta una città che ancora una volta non muoverà un dito per salvare un'altra aspirante fioraia notturna. Quante, quante volte ho provato io a dirglielo, a farglielo capire ma ovviamente invano. Non io, semplice amico, dovrei parlarle, ma altri! E la tragedia arriverà: gli occhi di Annette già sanno, ve l'ho detto. Quando parleranno, quando sovrasteranno la voce della Luna, sarà inevitabilmente troppo tardi. Che Dio aiuti quella povera anima quel giorno!

Oh, accidenti, di nuovo... L'orologio batte le ore col suo suono sgraziato e senz'anima. Lo fa sempre, ogni notte. 

In città lo chiamano Roger, perché quello che l'ha montato era un americano con la fissazione di rispondere sempre «roger, roger» invece di un semplice sì. Pensava di darsi chissà quali arie, così, ma era solo un idiota chiamato dal nuovo parroco per montare uno strampalato sistema automatico. Invece di affidarsi ad un campanaro (il vecchio signor Bélivier ci ha lasciato un anno fa... quello che non hanno potuto le tre pallottole tedesche che si portava in corpo, ha potuto il diabete...), questo giovinastro venuto dalla città ho pensato di - com'è che dice? - computerizzare il tutto. E così, per tutta la notte, là dove fino a qualche mese fa non c'era che quiete, ci ritroviamo a dover sopportare questo baccano infernale. La vecchia Martine, una delle campane più intonate di tutta la Normandia, ovviamente non ama questo trattamento e sospetto che abbia finito con il creparsi per dispetto. Insomma, non ha mai suonato così male e così svogliata! E poi io, col mio lavoro di guardia di notte, mi ritrovo ormai con i timpani quasi sfondati dal frastuono. Bah, alle volte penso che la chiesa sia troppo importante per essere lasciata nelle mani di certi pretucoli.

Eh, la chiesa, già. Questo blocco di pietra e di vetro che fa parte del paesaggio notturno così caro a Marcel e alla quale Annette dedica così tanto di sè stessa. Quando si dice che una città nasce e cresce attorno alla sua chiesa si dice una grande sciocchezza. Di solito, le chiese arrivano dopo, quando le quattro case dei contadini e dei pastori di una zona decidono di darsi un tono e di cominciare a chiamarsi paese. Allora, per prima cosa mettono a posto gli affari del mondo costruendo un municipio, e poi si concedono il lusso di pensare all'anima costruendo per l'appunto una chiesa. Ma più che costruirla la mettono al mondo, la nutrono con le loro vite, i loro sogni, i loro drammi. Come Marcel o Annette. Come Jeanne.

E nel suo caso la chiesa è stata nutrita col sangue.

No, qui ovviamente non parlo di cose che so per esperienza personale. Sarò anche vecchio ma non così tanto, quando accadde tutto io non c'ero ancora. Non c'era nemmeno Martine, che arrivò qualche secolo dopo. Perché questa storia è vecchia, molto vecchia, e le guide che ogni tanto accompagnano qui un gruppetto di turisti annoiati o peggio ancora quelli che scrivono i libretti turistici che non mancano mai tra le mani di giovani in sandali da passeggio armati di zaino e macchina fotografica sbagliano. E anche di grosso. Vabbè, diciamo che non sanno perché non possono sapere. 

Giù, in fondo alla piazza ormai quasi deserta (eccezion fatta per Marcel, la cui testa già ciondola pericolosamente in avanti prima di cadere nel suo solito sonno profondo) vedo un grosso cane scuro che alza la gamba e annaffia uno degli alberi vicini al muro di cinta del giardino. Lo guardo e penso che non deve essere cambiato molto da allora. C'erano meno case, meno strade, meno persone. Ma la terra quella no, era la stessa, come le stesse erano le prime pietre con cui la chiesa mandava i suoi primi vagiti al mondo. Perfino le impalcature di legno non dovevano essere molto diverse da quelle di Annette, solo che in quel caso servivano per costruire l'edificio, non per evitare che cadesse a pezzi.

I commerci erano fiorenti e l'incrocio delle strade attorno a cui il paese era cresciuto aveva convinto i buoni paesani, come dicevamo, a darsi un tono regalandosi una cattedrale che avrebbe attratto fedeli - e portamonete - da tutta la regione. I lavori erano cominciati in primavera - perché è difficile mettere pietra su pietra quando il freddo ti entra nelle ossa e ti rende le dita più dure del marmo - e ormai si protraevano già da parecchi mesi. Il che, per i meno svegli, significa che ci trovavamo già in piena estate, quando il sole illuminava le miserie del popolo e teneva le suddette miserie al riparo dalla pioggia... il che era un invito perfetto per la compagna delle vite di quei contadini: la siccità. Alla quale, come dicevano tutti, sarebbe seguita una bella carestia, magari con una cortese ed equanime pestilenza successiva. Insomma, eccezion fatta per tutti quegli scavi, gli scalpellini venuti da fuori e le assi di legno che fiorivano in mezzo alle quattro case, la vita procedeva come sempre nella nostra amata cittadina.

Il problema maggiore per gli abitanti era il rumore. Oh, niente se paragonato alle urla delle automobili moderne o al frastuono degli aerei che deturpano l'azzurro dei cieli sopra le nostre teste, ma per quell'epoca in cui i suoni più violenti erano quelli di un temporale (eccezion fatta per il rumore del tetto della tua spelanoca scalcagnata che ti crollava in testa per colpa di quello stesso temporale...) il continuo battere degli attrezzi sulla pietra, il rotolare incessante dei carri carichi di pietre, il lamento delle gru che sollevavano le pietre erano insopportabili. Tempi più ingenui e felici quelli...

Beh, felici non più di tanto.

Il cantiere era grande, più grande di qualsiasi cosa i cittadini avessero visto prima. Un cantiere così importante non poteva certo accontentarsi di un solo architetto o di un capomastro, e così diversi erano coloro che si affaccendavano sotto l'ombra delle prime pietre a tracciare disegni su carte in grado di coprire da capo a terra un uomo. Uno di questi costruttori si chiamava - nome quanto mai appropriato - Pierre. E Jeanne - è quasi inutile dirvelo - era sua moglie.

La donna aveva seguito quel grosso bestione del marito da una città all'altra, ovunque ci fosse bisogno della sua perizia con le pietre, la quale va detto era notevole. Di sicuro maggiore della sua capacità di provare un qualsiasi legame affettivo che andasse al di là del puro e semplice possesso.

Per come la vedo io, insomma, agli occhi di Pierre la moglie non era poi così diversa da uno dei suoi martelli o da uno scalpello ben affilato: doveva essere sempre pronta, a portata di mano e disposta ad essere utilizzata quando e come lo aggradava.

Pensereste che Jeanne lo avesse sposato contro la propria volontà, ma le cose non stavano affatto così. Meglio, non proprio. Quando sei l'ultima femmina di una figliolata di sei bambini urlanti e i tuoi genitori, contadini più abbrutiti delle zolle di terra che rivoltavano da mattina a sera, stanno seriamente pensando di abbandonarti da qualche parte o di venderti per una semplice questione di sopravvivenza, anche uno come Pierre può sembrare un buon partito. Che poi non è tanto diverso da quello che succede oggi, laddove alle necessità economiche potete sostituire quelle emotive: in altre parole, quando si ha fame - di cibo o di affetto che sia - anche un pezzo di pane raffermo è un pasto allettante.

Il problema è che dopo aver buttato giù chili e chili di quel pane guasto, la peggiore sventura che vi possa capitare è trovarvi improvvisamente di fronte un bello stufato, caldo e sugoso, ma non poterlo avere. Nel nostro caso lo stufato portava il nome di Stéphane, uno dei tanti abitanti del paese assunti come manovali per il cantiere.

Sarebbe facile adesso raccontare la solita storiella che piace tanto ai turisti. Gli incontri fortuiti, gli sguardi, l'appuntamento notturno, la Luna e le stelle, poi Pierre mezzo ubriaco che li scopre... e il martello. Sarebbe facile, ma non sarebbe sincero.

Vedete, in un certo senso Pierre non era neanche un uomo cattivo. Questo l'ho sempre pensato. Considerate un attimo lo standard medio dell'uomo dei suoi tempi e vi accorgerete che qualche cinghiata o un paio di sganassoni alla propria moglie rappresentavano davvero quello che oggi si potrebbe definire... il minimo sindacale. E che non vi passi nemmeno per un istante per la mente che Stéphane fosse chissà quale bravo ragazzo, magari biondo e riccioluto. Ah, ci scommetto quello che volete che di lì a pochi anni la cara e dolce Jeanne non avrebbe fatto altro che cambiare cinghia con la quale essere colpita e cambiare marito bruto e manesco. In un certo senso, quel colpo di martello fu anche un gesto pietoso, che la liberò dalle false speranze di aver trovato un uomo onesto. No, anche con Stéphane sarebbe finita allo stesso modo prima o poi.

E i risvolti esoterici della storia, poi! Già all'epoca dei fatti non poteva stare in piedi la frottola di Pierre che scopre il ragazzo a rovistare nelle sue carte aiutato dalla moglie infedele e che, accecato dalla furia, abbia compiuto un gesto riparatore al fine di salvaguardare i segreti della sua corporazione. Questa balla fu accettata solo grazie all'oro di Pierre e dei suoi amici, anche perché il vero mistero sarebbe stato come aveva fatto quello zotico analfabeta di Stéphane ad imparare a leggere in una sola notte. Eppure, ancora adesso i quanti si ostinano a cercarci chissà quali risonanze simboliche, quali significati nascosti, quali accenni ad antiche leggende! E quanto ci sghignazzo sopra quando li sento blaterare a questo modo!

Certo, poi mi fermo. Ripenso a Jeanne. Quasi li posso vedere i suoi capelli ramati chiusi sul capo dalla cuffietta azzurra. Il suo viso, certo di rado sorridente ma sempre sereno e i suoi occhi che già intravedevano nel montarozzo di terra che si andava formando la sagoma della nuova chiesa. Certo a lei dei segreti del marito non gliene importava un bel nulla. Lei voleva solo la Luna e pensava di averla trovata negli occhi di Stéphane. E la Luna l'ha uccisa.

Hanno un bel dire quelli che parlano di questa storia un po' come di una leggenda e ricordano che altri morirono durante la costruzione della chiesa, quasi che le loro morti per un'impalcatura montata in maniera maldestra o una pietra caduta dall'alto fossero più vere di quella di Jeanne. Come se il loro sangue fosse più rosso o le loro vite fossero più preziose. Non mi metto certo a dissertare sull'importanza di una morte rispetto ad un'altra (qualsiasi morte è parimenti inutile... semplicemente succede). Rammento solo - e in questo mi aiutano i brividi che mi sento dentro ogni volta che ci ritorno sopra - che la morte di Jeanne fu la prima dovuta a questa chiesa, che le sue furono le prime gocce di sangue a bagnare queste pietre e la sua la prima anima della nuova parrocchia a chiedere conto a Dio della propria dipartita.

Di nuovo i rintocchi. Martine si muove ancora. Colpi, suoni. Come quel martello. Pierre... e il corpo che cade. La testa, il rosso. Che dicano quello che vogliono, ma il rosso del cielo all'alba non mi è mai piaciuto. E' la fine della mia guardia, certo. La notte, oscura e piena di terrori, cede il passo al giorno. Quel giorno in cui io non ho più scopo, in cui non servo più. Quante notti. Quanti anni.

Striscia la luce sull'asfalto della strada e le pietre della piazza. Ecco, raggiunge Marcel, addormentato sulla panchina. Il vecchio, riverso, con un libro sulla pancia e la bocca semiapaerta scuote un po' la testa e ritorna a questo mondo. Lo vedo e già so che un giorno quella testa non si muoverà, già me lo vedo, fermo e immobile accanto ai suoi fiori, costretto dal sonno senza fine a lasciare a metà uno dei romanzi che ama tanto.

Ancora, un soffio di vento muove gli alberi, vicino alla casa della mia colomba, e arriva a lambire le assi delle impalcature. Un refolo più forte degli altri fa vibrare le sezioni più alte, quelle dove si arrampicherà Annette. Lei, così appassionata delle vecchie leggende dei luoghi che incontra, conosce molto bene la storia di Jeanne ma non capisce che non solo i corpi possono cadere sotto il martello del nulla. Lei conosce tutto, ma sa ben poco.

Una, due persone. Escono dai portoni, dai vicoli. Tre, quattro. Oh, un'automobile. E poi due, tre, dieci. Le serrande si alzano, la vita riprende. Sì, la mia guardia è proprio finita ed è ora di...

Oh, la mia colomba! Eccola, è uscita di casa! Lei è sempre così mattiniera, più delle sue amiche. Credo che ami l'aria delle prime ore, che le piaccia muoversi leggera in questo vento. E come è aggraziato il suo incedere, lei così bianca e snella. Si è allontanata del boschetto davanti alla sua casa, si dirige verso la fontana. Oh, si bagna un po', accarezzando l'acqua della vasca come per giocarci. E adesso... viene da me?

No, no. Io sono così sgraziato, fredde le mie braccia e il mio viso, goffa la mia figura! Non... non penso che mi abbia mai guardato davvero, non si è mai avvicinata, e certo non deve cominciare oggi! Dove posso andare? Dove fuggire? Se solo potessi... ma nulla, eccola qui, ormai a pochi metri da me. Mi osserva con quei suoi begli occhi sottili, la testa minuta lievemente reclinata, quasi un sorriso sul volto. Cosa vorrà? In che modo dovrò comportarmi con lei?

Mi si accosta, dunque. E' vicino a me, accanto a me. Ma ancora non parla. Con le sue bianche ali si adagia al mio fianco. E non dice nulla, e io impazzisco nel chiedermi cosa stia per succedere, come io debba interpretare il suo comportamento!

Ma forse... sì, è così. Non può che essere così. Non può che non esserci nulla da interpretare. Il silenzio della mia colomba mi fa comprendere e mi libera dall'obbligo di infrangere il mio. Muto sono nato e muto morirò. Ma va bene così. Va così.

Tutto va così.

Marcel, Annette e perfino Jeanne hanno le loro vite. La vecchia campana e il suo accrocco modernizzato, André, Pierre, la terribile signora Ferrault e perfino quei poveri diavoli dei tedeschi. Ma sì, Luna e stelle, anche voi. Esistete, andate avanti e attendete la vostra fine. Le ore suonano di nuovo, suonano anche per le ore stesse e il tempo finisce con l'ingannarsi da solo.

Con la mia colomba al fianco, capisco. Capisco che mi sbagliavo quando ho pensato che la mia guardia non avesse senso poiché non aveva mai fine. E' vero il contrario, la mia guardia non avrà mai fine proprio perché non ha senso. Nulla ce l'ha. Sulla bilancia dell'esistenza le sofferenze, gli affanni, le speranze tradite hanno lo stesso peso delle gioie, dei piaceri e delle grandi vittorie. Quello di un granello di sabbia, uguale a miliardi di altri granelli di sabbia. Ne cambia il colore, ma non il peso.

E allora sono felice. Felice per la prima volta del mio essere, del mio non avere senso. Felice della mia guardia senza fine contro un male che non verrà, felice della derisione che il mio aspetto suscita negli uomini, felice della mia condanna al silenzio eterno, felice di ciò che ho avuto e anche di ciò che non avrò.

La mia colomba è con me, il suo becco aguzzo accarezza la mia ala. La mia guardia per questa notte è finita, ma so già che tra poche ore il buio tornerà. E io guarderò in quel buio, guarderò nel nulla e vi troverò il tutto.

Questo è quello che sono. Il guardiano della chiesa, scolpito da mani assassine e sacrileghe nella pietra consacrata. Gargolla mi chiamano gli uomini. Io mi definisco solo come me stesso e vado avanti.

E continuo a guardare.


Nota dell'Autore: Come prima cosa, vorrei ringraziare l'utente Gaea per aver organizzato questo contest al quale il racconto che avete letto è arrivato secondo. Ho deciso di pubblicarlo senza le correzioni suggeritemi da Gaea non certo perché non le condividessi, ma per mantenerne l'assetto originale e per sentire anche le vostre opinioni. Le critiche che ho ricevuto sono state tutte molto costruttive e cercherò di farne buon uso allo scopo di migliorare il mio stile. D'altronde, con questo racconto ho "rischiato" un po', avventurandomi in quell'ambiguo ed affascinante mondo del "flusso di coscienza" che ho ritrovato in opere come Mrs. Dalloway di Virginia Woolf. Le sfide però sono sempre positive, aiutano e crescere e spero che questo sia stato il mio caso. Spero anche che il racconto vi piaccia. Alla prossima storia!

   
 
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