Cicatrici
Saprei descrivere senza la
minima esitazione ogni maledetta volta che ci siamo ritrovati in questa stramaledetta
posizione: lei, pallida e spenta, su un letto d’ospedale e io qui, come
un idiota, al suo fianco.
Sakura mi ha fatto
prendere un colpo quando è arrivata a
prelevarmi dalla missione nella quale ero impegnato; il cuore mi è
sobbalzato in gola: notizie da ospedale, senz’ombra di dubbio.
E non era tempo,
dannazione, non era assolutamente ora.
Non ero pronto, ecco la
verità; ma forse, come mi ripeteva spesso mio padre, non lo sarei mai
stato. Perché l’incontrovertibile, ineluttabile realtà
è che non sei mai pronto quando accadono queste
cose, mai. Dannazione.
E così sono corso
qui, sporco e bagnato e sudato, per starle accanto, mentre lei neanche mi
sente. Avrei dovuto essere qui mentre succedeva, non
ora, o forse non avrei dovuto lasciarla affatto, forse avrei potuto fare
qualcosa, studiare una strategia o qualsiasi altra cosa…o forse non avrei
potuto niente, non lo so. Perché con lei non si può mai, nulla:
non la si può contraddire, non la si può
criticare, non la si può riprendere.
Stupida.
Stupida e testarda.
Bellissima, stupida e
testarda.
Trascinante, bellissima,
stupida, testarda. Potrei andare avanti per ore a trovare aggettivi che le si addicano, l’ho fatto per anni. Per una persona
rilassata come me non è facile trovare il
sonno, e per anni la mia ninna nanna personale è stata affibbiarle
aggettivi a raffica, dal primo che mi veniva in mente fino al più
improbabile, e poi cercare di ricordarli tutti. Duecentosessantatre, il mio record
personale e segreto. Perché stranamente, la prima cosa che mi venisse in
mente nell’oscurità, quando restavo solo con me stesso, era
sempre, immancabilmente lei.
Trascinante, bellissima,
stupida, testarda Ino.
E’ ironico come sia io, quella operata
da poco, quella che ha rischiato la vita, ad essere sveglia a osservare lui mentre
dorme.
E’ paradossale come nonostante tutto, mi senta bene, meglio di quanto non stessi da tempo.
E forse è solo perché c’è lui. Sorrido,
scostandogli una ciocca di capelli dal viso. Non è nemmeno passato da
casa a cambiarsi: l’uniforme è quella della squadra ANBU, e ha i
capelli sporchi di terra.
Si è precipitato qui Shikamaru, come la prima volta che sono
finita in ospedale. Era un nonnulla, davvero, eppure lui era lì, al mio
fianco, come ora.
Saprei descrivere senza la minima esitazione ogni benedetta volta che
ci siamo ritrovati in questa posizione: io su un anonimo letto d’ospedale
e lui, come un santo, al mio fianco.
Saprei recitare a memoria tutte le cicatrici
sul suo, di corpo: quella che ha sotto il mento, ad esempio.
Eravamo piccoli, e il ricordo è sfumato, riempito dai racconti
dei nostri genitori. Eravamo piccoli e fui proprio io a spingerlo e a farlo
cadere. Era il primo giorno di asilo e mentre io lo cercavo, quel bambino silenzioso
aveva deciso di ignorarmi. E io sarei morta pur di ottenere la sua attenzione.
Allora lo spinsi con tutte le mie forze, perché mi notasse,
perché si rendesse conto che c’ero, e che ero forte. Lui non mi
diede alcuna soddisfazione: neanche si curò di pararsi la caduta. O
forse, semplicemente, non se lo aspettava. Mi voltai dall’altra parte e
corsi via: potevo fare benissimo senza di lui. Almeno, questo era quello che
pensavo allora. Non sapevo quanto mi sbagliassi.
Corsi via a più non posso, verso altri amici, altri volti. Ma
poi lo sentii tirare su col naso, mi voltai e mi accorsi che aveva gli occhi
lucidi. Scoppiai a piangere, io, e
andai dalla maestra per farlo medicare. E ho continuato a piangere
perché mi sentivo inesorabilmente in colpa; ho continuato fin quando lui, con un buffo cerotto sotto il mento, non
è arrivato. Lui. A consolare me.
Ce n’è un’altra di cicatrice, una legata ai giorni
in cui eravamo Genin, sulla sua gamba destra. La
ricordo con affetto, quella. Eravamo andati in campeggio, pardon, esercitazione di sopravvivenza in preparazione per
l’esame di selezione Chuunin, naturalmente con
il team di Kurenai. Shikamaru aveva voluto mostrarci
come si pescava, visto che toccava a noi procurare il pranzo quel giorno. Ci
appostammo al fiume alle sette di mattina e la sua prima mossa fu quella di gettare
l’amo con pronunciata noia; mi sembrò di vederlo stringere gli
occhi come fa ancora quando prova dolore, ma non dissi
nulla. In fin dei conti, non ne sapevo niente di pesca. Poi lentamente Shikamaru
si chinò con fare noncurante, e tra le risate degli altri (sì,
anche di Shino) si tolse l’amo che gli si era
conficcato direttamente nella gamba. Non era un taglio largo, ma si rivelò
abbastanza profondo da lasciare un segno permanente.
Un’altra ancora, di cicatrice, si intravede anche ora sul suo
petto. Quella l’ho curata io. Per quanto ami il mio lavoro, in quel
momento l’ho detestato. Mi sono sentita totalmente incapace
quando ho visto Shikamaru senza sensi sul lettino d’ospedale. Mi
sono sentita gelare,
mentre lo medicavo, perché quando serve non ci sono mai
abbastanza ninja medici; e intercalavo ogni punto a
una preghiera. E’ stata la prima volta che ho creduto seriamente di perderlo.
E solo Dio sa quanto sia contenta di vederla ora
lì quella cicatrice, sapendo che appartiene al passato, che ha segnato
il passato e spianato il futuro.
Per quanto litighiamo, su tutto e per tutto, per quanto il nostro
punto di vista coincida raramente, quella cicatrice mi serve a ricordare il suo
valore: non quello di Jounin, il suo valore per me.
L’ultima cicatrice che ricordi è quella più
visibile, a cavallo del sopracciglio, che mi ritrovo a sfiorare con la mano. Mi
vergogno a dirlo, ma l’ho fatta io. Dio, quanto ero arrabbiata. E avevo
ragione, tutta la ragione di questo mondo, mentre lui…lui non mi voleva
stare a sentire. Dopo una scenata di un’ora intera, urla, lacrime e tutto
il resto, a rispondermi, il nulla. Ed è stato di nuovo come fossimo stati all’asilo: Dio, avrebbe potuto urlare,
avrebbe potuto andarsene, avrebbe potuto fare qualsiasi cosa…qualsiasi
cosa ma non ignorarmi. E così ho provato a scuoterlo a modo mio. Con un
vaso.
Shikamaru
sentiva qualcosa carezzargli il viso, qualcosa di piacevole e leggero come il
sole di prima mattina; poi lentamente avvertì un dolore, diffuso, alla
schiena: forse si era solamente addormentato per l’ennesima volta sulla sua
scrivania e stava semplicemente sognando un risveglio vero, con una donna al
suo fianco.
Dischiuse
piano gli occhi, controvoglia, mentre Ino continuava a sfiorargli il viso.
“Ciao” mormorò piano la ragazza.
“Ciao”
rispose lui stropicciandosi gli occhi.
“Come
stai?” domandò lei, mentre un’ombra d’apprensione passava
fugace sui suoi occhi azzurri.
Shikamaru
alzò un sopracciglio, contrariato: “Dovrei essere io a chiedertelo
no?”
“Un
po’ tagliata, lo sappiamo tutti.” Rispose lei con un altro sorriso “Tu,
come stai?” chiese di nuovo. “Non sei nemmeno passato da casa a
cambiarti” osservò poi candidamente.
“E
come facevo?” rispose lui le prendendole la mano e portandosela alla
bocca, quasi a sorseggiare da lei le energie di un ruscello di pace. “Comunque”
sorrise cercando di tranquillizzarla “mai stato meglio.”
Ci
fu una pausa, lenta e pregnante.
“Sono
passato a vederlo, sai?” sussurrò il ninja
più piano.
“Come
sta, lui?” si accertò Ino, e Shikamaru lesse preoccupazione, nei
suoi occhi.
“Benone” rispose allora il ragazzo “Tra poco ti
permetteranno di vederlo, tranquilla” mormorò poi pacato.
“Sai”
Ino si morse il labbro mentre lo diceva “stavo
contando le tue cicatrici: sono quattro.”
“Ora
ne hai una anche tu” sussurrò lui, ma il suo tono non era di
rimprovero. C’era qualcosa di caldo, e soffice in fondo a quella frase.
Poi
fu lei a sussurrare: “E’ stata la sofferenza più bella che
potessi provare”.
E
questo, per lui, fu troppo: si arrampicò sul letto, come faceva da
piccolo, quando erano in vacanza insieme e lei veniva
assalita da migliaia di mostri d’ombra. Il ragazzo non riuscì a
trattenersi dall’abbracciarla, stringerla a sé, aggrapparsi a lei carezzandole
i capelli, lunghi e bellissimi, come sempre, sperando ardentemente che lei non
lo rifiutasse, che gli permettesse di vivere quel momento, lì, accanto a
lei. Ino gli sfiorò la fronte con un bacio, lo strinse a sé e in un
istante lo privò del suo tocco.
Shikamaru
fece appena in tempo a voltarsi dalla sua posizione sul letto per vedere
emergere Sakura e capire verso chi erano protese, le braccia di Ino.
Chiuse gli occhi sospirando, poi avvertì vicino
al capo, che ancora era poggiato sul petto della compagna, qualcosa di caldo,
piccolo e vagamente rumoroso: Ino sorrise, posando un bacio sulla fronte del piccolo
fagotto come aveva fatto poco prima con lui, e guardandolo negli occhi sorrise:
“Asuma, saluta papà”.
Shikamaru
si sentì estremamente stupido nell’accarezzarlo piano, quasi
avesse paura di romperlo, mentre Ino si accoccolava tra le sue braccia col
piccolo stretto a lei, di modo che li abbracciasse entrambi, che li proteggesse
entrambi.
Dopo
qualche istante di pacata contemplazione, Shikamaru scostò con delicatezza
il ciuffo della moglie, sempre troppo lungo, per mormorarle all’orecchio:
“Ino?”
“Sì?”
“Assomiglia davvero ad Asuma. Più che a me”
Silenzio.
“Shika?”
“Sì?”
“Sei
fortunato che il vaso di fiori sia fuori dalla mia
portata”.
Per quanto mi sforzi non saprei minimamente descrivere, se non tra mille
esitazioni, quel sacro istante in cui ci siamo trovati per la prima volta in
quella posizione familiare, eppure nuova: lei, pallida e radiosa, su un letto
d’ospedale e io lì, come un ebete, sorridere al suo fianco, col
nostro piccolo miracolo fra le braccia.
Scritta purtroppo di fretta, ma
con parecchia dedizione!
Un bacio a tutti gli amanti di
questa coppia: ShikaIno rulez!