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Autore: Sylphs    22/06/2013    2 recensioni
E se Sméagol, prima di trovare l'anello e lasciarsi consumare da esso, avesse avuto una ragazza che amava e da cui era amato? E se questa ragazza, dopo l'uccisione di Déagol, avesse deciso di andare a cercarlo fin nelle profondità delle Montagne Nebbiose per capire cosa lo aveva spinto ad un tale gesto? E se lo avesse trovato, ridotto all'ombra di se stesso, e avesse provato a convincerlo a disfarsi del suo Tesoro? Se siete curiosi, aprite questa pagina e immergetevi nella mia shot un po' folle!
Genere: Fantasy, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Smeagol
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Il tesoro più importante
 

 
 
 
 
Gli abitanti del villaggio vicino al fiume Anduin trovarono il cadavere di Déagol due giorni dopo la sua scomparsa; gran parte di esso se lo erano già mangiato le mosche. Giaceva ai piedi di un albero maestoso, talmente ricoperto di fango secco e foglie che da lontano sembrava una bestia selvatica, e puzzava di un puzzo che non passa inosservato. Lo notò un anziano pescatore che si procacciava il pesce da quelle parti (sebbene fosse una zona del fiume scarsamente frequentata) e corse subito a dare la notizia ai parenti e agli amici del morto.
Ma gli hobbit non sono una razza famosa per la sua discrezione e il suo tatto, e inoltre al villaggio non succedeva mai nulla di strano o di insolito, così, appena si seppe che Déagol era stato ritrovato, e cadavere, per giunta, l’intera popolazione locale si precipitò in massa sulle sponde dell’Anduin, uomini, donne, vecchi e bambini, interrompendo bruscamente qualsiasi occupazione stessero svolgendo e sgomitando come dannati per riuscire a dare almeno un’occhiatina al corpo. Non avevano mai visto un morto, beh, un morto ammazzato, lì si conoscevano tutti ed era inutile sperare di tenere segreto un omicidio, così la curiosità e una sorta di morbosa eccitazione si erano impossessati in breve tempo della folla vociferante.
Gilly fu tra i primi a raggiungere il posto, ma certo non per assistere al “grande evento” o per soddisfare la sua sete di novità. Sméagol e Déagol erano spariti da quarant’otto ore ormai, dispersi mentre si recavano come al solito a pescare, ed erano stati, quelli, i due giorni peggiori di tutta la sua vita, in assoluto il momento che non avrebbe mai, mai, mai desiderato ripetere. Non era riuscita a fare praticamente nulla, se non stazionare in pianta fissa a casa di Sméagol, insieme alla madre in lacrime, al padre apatico e al resto della famiglia che non faceva altro che porre stupide domande, consumandosi in un’ansia e in un’orrenda angoscia che continuavano a crescere, inesorabili, facendola impazzire, dicendosi che lui stava bene, che non gli era accaduto nulla, che il fiume lo conosceva ed era un posto sicuro, che da un momento all’altro sarebbe entrato dalla porta e avrebbe rivolto loro il suo sorriso tanto particolare…
…ma non era stato così. Sméagol non si era fatto vedere, la sua mente tesa e disperata era stata lasciata libera di partorire le ipotesi peggiori e la voragine che le si era spalancata nel petto l’aveva divorata. Le era venuta voglia di urlare, frantumare tutti i cimeli di famiglia, scrollare la madre di Sméagol che non sembrava far altro che piangere come una vite tagliata e correre nei boschi scoccando frecce contro il nulla. Odiava sentirsi così impotente e inutile, odiava fissare il fuoco nel camino che consumava lemme le braci mentre gli uomini cercavano il suo promesso sposo, ma suo padre era stato irremovibile.
“Se provi a venire con noi sarà peggio per te, Gilly. Non è compito per donne, questo. Vedrai che quella testa calda sta bene, probabilmente la barca è stata spinta lontano dalla corrente e ha perso i remi, o qualcosa del genere, ancorandosi da qualche parte. Lo troveremo. Tu resta con sua madre e falle coraggio, avete bisogno l’una dell’altra”.
No, diavolo, lei non aveva bisogno di ascoltare i singhiozzi striduli e i lamenti di quella vecchia, di starsene lì in quella casupola soffocante a battersi il petto e a strapparsi i capelli, lei voleva ripescare Sméagol, accidenti a lui, percorrere l’intero corso dell’Anduin fino a raggiungerlo, ovunque si fosse andato a cacciare, e dargli una bella strigliata per come l’aveva fatta spaventare! Aveva una smodata passione per la pesca e lo sapeva bene, il suo cibo preferito era un bel branzino croccante col limone (gliene aveva cucinati così tanti dopo che li portava freschi freschi), ma finora non si era mai trattenuto al fiume più del necessario, era sempre tornato per la cena. Doveva essergli successo qualcosa, non c’era altra spiegazione. A lui e a quel sempliciotto di suo cugino Déagol, tutt’altro che un alleato degno. Glielo aveva detto tante volte di andare armato, di scegliersi un compagno forte che potesse sopperire ai limiti di Déagol, ma niente! I due cugini erano inseparabili e non intendevano ammettere altri nel loro sodalizio! Ah, se li avesse avuti tra le mani…
Forse li aveva rapiti un elfo dalle dita veloci, una di quelle creature infide e schive di cui si raccontavano storie inquietanti attorno al fuoco, la sera. I bardi dicevano che rapivano i bambini e lasciavano al loro posto un pezzo di legno e che erano rapidi come saette. Sméagol li aveva sempre temuti. E forse ora era prigioniero di uno di loro…
Finché, il pomeriggio del secondo giorno, l’anziano pescatore era irrotto in casa del suo promesso sposo gridando che sulla riva dell’Anduin aveva rinvenuto un cadavere, e a Gilly si era fermato il cuore. La pignatta che stava reggendo tra le mani (la madre di Sméagol era caduta in uno stato apatico e faceva ormai quasi tutto lei, pulire, ricevere gli ospiti, cucinare) era caduta e si era schiantata sul pavimento con un tonfo. Per una manciata di secondi, aveva smesso persino di respirare.
Sméagol…morto.
No, non poteva essere. Non era possibile. Lui non poteva, non doveva essere morto! Non…non era…lui…loro…
Era evidente che l’emozione era troppo forte e troppo insopportabile per permetterle di pensare, così aveva cessato di farlo. Tanto sarebbe stato inutile. Non aveva neppure cercato di elaborare fino in fondo le parole del vecchio pescatore. Era uscita dalla casupola correndo a rotta di collo, con il grembiule ancora indosso e le gonne dell’abito blu svolazzanti, e non aveva badato a niente e a nessuno, urtando tutti quelli che le intralciavano la strada, scacciando a calci polli, galline e gatti randagi, saltando staccionate e ascoltando solo il battito frenetico e singhiozzante del suo cuore e una voce nella sua testa che le urlava che Sméagol stava bene, che non era accaduto nulla e che quella che il pescatore aveva raccontato era una menzogna, solo una stupida, crudele menzogna.
Vedendola correre come se avesse il diavolo alle calcagna, parecchi tra i suoi compaesani le si erano accodati, intuendo che il mistero circa la scomparsa dei due cugini era in procinto di svelarsi.
Gilly era sempre stata dotata di un ottimo senso dell’orientamento, così le poche coordinate fornite dal vecchio le erano bastate per individuare il punto del fiume in cui era stato trovato il cadavere. Non ne aveva mai visto uno. Beh, non quello di un hobbit. Da bambina una volta aveva scorto un passerotto galleggiare sulla superficie dell’Anduin come un triste mucchietto di piume arruffate e lo aveva raccolto delicatamente tra le mani, sperando di poterlo salvare, accorgendosi poi che aveva il collo spezzato. Avrebbe desiderato seppellirlo con tutti gli onori, ma Sméagol lo aveva voluto per la sua collezione. Un mago girovago che era passato per il loro villaggio gli aveva regalato una pozione verdognola che impediva agli animali morti di decomporsi e lui la utilizzava senza risparmio: aveva raccolto di tutto, dalle bisce d’acqua, agli insetti, alle rane, ai vermi.
“Perché ti piacciono tanto?” gli aveva chiesto un giorno, in camera sua, mentre le mostrava un pezzo nuovo: “Io li trovo un po’ schifosi”.
“Non è vero!” lui aveva sollevato dal barattolo i suoi grandi occhi pallidi: “Guardali, Gilly. Sono bellissimi…e puoi ammirarli quanto ti pare senza che si nascondano. Guarda questo pesce, guardalo, guardalo!”
Lei lo aveva guardato, senza cambiare opinione, poi aveva tirato allo hobbit una gomitata: “Dai, facciamo una gara di indovinelli!”
Molte delle sue amiche non facevano che chiederle perché, tra tanti bei partiti, si fosse innamorata proprio di Sméagol. Sarebbe stata un’ipocrita se avesse negato di esserselo domandato lei stessa, alcune volte.
Era considerato all’unanimità un tipo strano. Non si univa mai ai gruppi dei coetanei (non che loro lo volessero, anzi, se si avvicinava ne approfittavano per prenderlo in giro senza pietà) ed era solito defilarsi a testa bassa e con una camminata furtiva e silenziosa in qualche macchia isolata o sulla sua barca a pescare, parlando spesso con se stesso e divertendosi con una serie di giochi bizzarri che i più avrebbero ritenuto “perversi”. L’unico con cui andava d’accordo era il cugino Déagol, un ragazzone tutto peso e niente cervello, sciocco e ingenuo, che lo seguiva come un cane fedele ed era deriso tanto quanto lui. Sméagol era strano, ma nient’affatto stupido, anzi, chi lo conosceva bene, come Gilly, sapeva quanto poteva essere scaltro e astuto, con quel pizzico di malevolenza che non rendeva la sua un’intelligenza apprezzata. Lì per lì se lo attaccavano si ritirava in se stesso e si rattrappiva come un ragno, quasi servile, ma poi inventava immancabilmente una tecnica ingegnosa per vendicarsi, agendo per vie subdole e trasverse e lasciando che fossero altri a fare il lavoro sporco al suo posto.
Gilly non avrebbe mai più dimenticato la volta in cui Tom e la sua banda erano penetrati nella caverna segreta sua e di Sméagol, distruggendo le canne da pesca, le esche e le loro preziose fionde, e come il suo amico gliel’aveva fatta pagare. Era andato a dire a Tom che Betty, la biondina che tutti desideravano, lo aspettava nel campo dietro all’orto del vecchio Bernie, e quando il ragazzo era arrivato sul posto aveva liberato, scardinando il cancello, il cane da caccia di quest’ultimo, correndo a nascondersi tra le frasche e godendosi la ferocia con cui la belva aveva aggredito il suo persecutore. Lei, che era andata con lui, non era riuscita a resistere neanche un attimo a quello spettacolo, ma Sméagol se lo era rimirato ben bene con gli occhi luccicanti e un sorriso maligno sul volto.
Eppure, malgrado la sua stranezza e la sua a tratti cattiveria, si era innamorata di lui. Era successo e basta, senza una ragione precisa. Da un giorno all’altro, l’amicizia che li aveva accomunati fin da bambini si era tramutata in qualcosa di più profondo.
Era stata lei a fare la prima mossa. Sméagol aveva ricambiato con gioia sincera. Metteva in tutto quanto una sorta di entusiasmo infantile che un po’ la divertiva e un po’ la esasperava. Però sapeva farla ridere come nessun altro con i suoi salti pindarici, i suoi indovinelli e il suo umorismo nero. Non si annoiava mai con lui. E a volte aveva la sensazione di essere l’unica che contasse davvero qualcosa per Sméagol: voleva bene al cugino, certo, ma era un affetto più distratto, più compassionevole, l’affetto di un fratello maggiore per quello piccolo e semplice di cervello. Gilly stava bene con lui, e al diavolo ciò che pensavano gli altri. Per giunta, era la sola a sapere come prenderlo: lo aveva dissuaso un sacco di volte dal fare qualcosa di sbagliato. Quando era con lei, la bontà di Sméagol veniva a galla. E appena si fossero sposati, avrebbe messo definitivamente la testa a posto.
Mentre correva come una forsennata verso il punto che il vecchio pescatore aveva indicato, con il sudore che le colava copioso dall’attaccatura dei capelli sulla nuca e in mezzo ai seni, l’egoismo predominava su ogni altro sentimento e non riusciva a smettere di pregare affinché il morto non fosse Sméagol ma Déagol, che non fosse toccato al suo fidanzato, il bizzarro e originale hobbit che si era accorta di amare…
C’era già un piccolo capannello di persone radunato intorno alla quercia sotto cui giaceva il cadavere, hobbit che il pescatore aveva incontrato mentre si precipitava al villaggio e messo a parte della sua scoperta. L’Anduin scrosciava tranquillo a qualche metro di distanza, le acque cristalline e limpidissime solcate da banchi di trote argentee. Faticando ad introdurre ossigeno nei polmoni bloccati, Gilly si fece largo a spintoni; una parte di lei non voleva guardare e un’altra non poteva farne a meno. Oh, se avesse posato lo sguardo sul viso pallido e assente di Sméagol, su due occhi vitrei che fissavano il nulla, non sapeva cosa avrebbe fatto…sicuramente qualcosa di impulsivo e di violento.
Sméagol, Sméagol, Sméagol…
Gli hobbit si aprirono per lasciarla passare, riconoscendola come una persona invischiata personalmente nella questione, lanciandole occhiate colme di biasimo e di severità che non seppe interpretare, e quando ebbe raggiunto il punto in cui era stato trovato il corpo abbassò gli occhi su di esso, trattenendo il respiro e conficcandosi le unghie nella carne…
…ma non era Sméagol. Era Déagol.
Ricominciò a respirare e aprì lentamente i pugni chiusi, rivelando due palmi costellati di piccoli segni a forma di mezzaluna.
Il cugino del suo promesso sposo offriva uno spettacolo pietoso e rivoltante insieme, e il fetore denso e penetrante di putrefazione la costrinse ad arretrare di qualche passo, premendosi una manica su naso e bocca per attenuarlo un poco. Aveva gli abiti e il volto imbrattati di fango secco, steli d’erba e terriccio, le unghie listate di nero e una serie di escoriazioni sulle braccia che testimoniavano una passata colluttazione, e la gola coperta da una vistosa chiazza violacea, un livido mostruosamente esteso che strappò a Gilly un brivido di repulsione e che la spinse a serrarsi le braccia al petto per difendersi da un moto di freddo che poco aveva a che fare con il clima. Il volto del ragazzone era esangue e solcato da un reticolo di vene in evidenza, gli occhi, già offuscati ad una patina lattiginosa, inchiodati al cielo e la lingua che penzolava da un lato della bocca in una grottesca smorfia di asfissia. Sembrava fissarla, con terrore e accusa, e gli girò impulsivamente le spalle, colta da un attacco di nausea. Barcollò fino all’albero più vicino e ci si appoggiò con una mano, piegandosi in due e fremendo per i conati sotto il vestito blu.
“Oh miei dèi” boccheggiò, senza trovare niente di più appropriato da dire: “Oh miei dèi…Déagol…”
Chiuse gli occhi, inspirò a fondo l’aria frizzante e refrigerante che spirava dal fiume per non vomitare lì davanti a tutti. Non conosceva Déagol intimamente, nessuno si prendeva la briga di passare del tempo con lui a parte Sméagol, ma lo aveva visto spesso a casa di quest’ultimo, intento ad ingozzarsi di nocciole o ad ascoltare a bocca aperta i discorsi del cugino, che da parte sua si pavoneggiava molto vedendosi tanto adorato, e in una o due occasioni ci aveva anche parlato.
“Sméagol è proprio fortunato a sposarti!” le aveva detto una delle ultime volte: “Voglio anch’io una ragazza!”
“La avrai, Déagol” aveva replicato, gentile: “Aspetta e vedrai”.
E adesso era morto. Strangolato, era evidente.
Mentre reagiva alla vista del cadavere, altri hobbit erano giunti sul posto e il capannello si era tramutato in una piccola folla. Déagol non aveva parenti stretti in vita, a parte un’anziana zia che si prendeva cura di lui senza troppo entusiasmo (non la madre di Sméagol) e nessuno piangeva o si strappava i capelli, si limitavano a fissarlo, bisbigliando e scuotendo la testa. Costringendosi ad emergere dal torpore dello shock, Gilly si avvicinò loro: “Chi…” bisbigliò; prese un bel respiro e alzò la voce: “Chi gli ha fatto questo?”
Sguardi palesemente ironici e contrariati si volsero su di lei, come se avesse posto una domanda ovvia. Aggrottò la fronte, stringendo tra le dita la gonna dell’abito e mettendosi sulla difensiva. Avvertiva un muro di ostilità crescere tra lei e i suoi compaesani, e non se ne spiegava, o forse non voleva spiegarsene il motivo: “Beh?!”
La panettiera arricciò le labbra: “La barca e lo strano sono scomparsi” gracchiò: “Lui è rimasto qua, invece”.
“Lo strano ha un nome, ed è Sméagol” Gilly assunse subito un fare battagliero. Una parte del suo cervello, quella meno scossa e sconvolta per la morte di Déagol, aveva capito dove la donna volesse andare a parare, ma era ben decisa a respingere con tutte le forze quell’orribile calunnia: “Inoltre, il fatto che il cugino sia finito così dovrebbe metterci tutti in all’erta! Probabilmente una belva…”
“Ma quale belva?” sbraitò il vecchio Bernie: “Li hai visti i segni sul collo oppure no, dolcezza? Lo scemo è stato ammazzato. Ed è chiaro a tutti chi lo ha fatto fuori”.
Una hobbit grassa e anziana assentì vigorosamente con il capo: “Lo dicevo io che Sméagol era mezzo matto”.
Mille voci si aggiunsero a darle man forte.
“Aveva gli occhi cattivi”.
“Il mio Tom giura e spergiura che l’attacco di quel cane da guardia è stato opera sua! Non ha le prove, ma questo è un fatto inequivocabile!”
“Rubava la mia frutta, quell’infido furetto dalla faccia di faina, è sempre stato un delinquente!”
“Certo, spingersi fino a questo punto…”
“Un povero scemo innocente che lo seguiva come uno schiavo devoto…che male gli ha fatto?”
“È cattivo e letale come un serpente, ecco la verità”.
“Meriterebbe l’impiccagione!”
“Ha avvelenato il villaggio con la sua crudeltà…”
“Ammazzare lo scemo e poi darsi alla macchia, un piano fin troppo ovvio!”
“Deve aver usato la barca, non…”
“SMETTETELA!!”
L’urlo di Gilly fendette l’aria come uno schiocco di frusta e mise a tacere, almeno al momento i commenti sempre più concitati e accusatori degli abitanti del fiume. La ragazza ansimò, rossa in volto, dardeggiando uno sguardo rabbioso e terribilmente disperato sugli astanti, e si sforzò affannosamente per recuperare una parvenza di autocontrollo, per limitare il tremito alle mani e il ritmo affannoso del respiro. Le prudevano le mani dalla voglia di colpirli. Si scostò dalla fronte un ricciolo sudato, respingendolo con un gesto brusco, e digrignò i denti: “State dicendo un mucchio di assurdità!” era sicura di ciò che affermava, voleva esserlo con tutta se stessa, perché amava Sméagol e insinuare ciò che tutti insinuavano avrebbe potuto condurla alla pazzia, e si sforzò di trasmettere la sua sicurezza anche a loro, di cancellare l’odio per il suo promesso sposo dal loro sguardo: “Sméagol non aveva nessun motivo di fare del male a Déagol, figurarsi ucciderlo…anzi, suo cugino era l’unico con cui fosse in rapporti di amicizia. Erano come pane e burro, io lo so bene, lo conosco meglio di chiunque altro. E l’altroieri, quando mi ha salutato per andare a pesca, Sméagol era perfettamente normale, nessun segnale di pericolo”.
“Forse” azzardò con un’ombra di malignità la hobbit grassa: “Non è andato a raccontare a te cosa gli passava per la testa, mia cara”.
Gilly arrossì, ma sostenne il suo sguardo: “Conosco Sméagol da quando era bambino. Sono cresciuta praticamente insieme a lui. Voi potete accusarmi quanto vi pare, o crocifiggerlo perché non vi è mai piaciuto, e io lo so bene, ma fidatevi, se avesse avuto intenzione di ammazzare qualcuno, addirittura suo cugino, me ne sarei accorta”.
Sì, se Sméagol avesse sviluppato un odio tanto grande per Déagol, se ne sarebbe resa conto, lo avrebbe capito. Avrebbe colto i segnali come aveva sempre fatto quando lui stava per compiere una delle sue malefatte o una vendetta personale, e lo avrebbe ricondotto alla ragione in tempo…invece non aveva notato assolutamente niente di insolito in lui, nessun particolare che la rendesse ansiosa. Anzi, Sméagol si era mostrato molto felice ed entusiasta di andare a pescare con il cugino, le aveva garantito che stavolta, grazie alle sue lezioni, Déagol ne avrebbe “preso uno” e gli occhi gli brillavano di affetto mentre lo diceva. No, non poteva averlo ucciso. Non era possibile. Sapeva che non era uno stinco di santo, non aveva gli occhi foderati di prosciutto come certe sue amiche infatuate, ed aveva sospettato certe volte che volesse fare del male a Tom o ad un altro dei giovani hobbit del villaggio…ma a Déagol? No, impossibile!
“Non vuoi vedere la verità perché tenevi a lui, bambina, ma lo ha ucciso” le disse il vecchio Bernie, quasi con dolcezza. Come in un incubo, Gilly lo osservò mentre si chinava sul cadavere di Déagol senza palesare alcun ribrezzo e gli apriva delicatamente il grosso pugno chiuso (l’altra mano al contrario era completamente aperta, come se gliel’avessero distesa a forza), sfilando dalle dita irrigidite un ciuffo di capelli aggrovigliati che le tese in un atteggiamento solenne: “Sono del tuo fidanzato. Lo scemo li ha strappati al tuo fidanzato. Il che significa che hanno lottato, che ha cercato di difendersi e che alla fine è uscito sconfitto dal combattimento”. 
Gilly prese la ciocca senza dire nulla. Era ruvida e un po’ unticcia al tatto, lunga diversi pollici, color castano-rossiccio. Non avrebbe mai potuto confonderla con un’altra. Apparteneva a Sméagol. Erano i capelli di Sméagol. Rimasti intrappolati nel pugno di Déagol. Strappati da Déagol, per chissà quale oscuro motivo. Forse quell’idiota aveva aggredito il suo promesso sposo e lui era stato costretto a difendersi, forse quel suo cervello bacato lo aveva portato a…
Ma perché arrivare ad ucciderlo? Perché scappare?
Le girò la testa e intorno a lei il verde, il marrone e l’azzurro dell’acqua vorticarono. Vacillò, serrando la presa intorno al ciuffo di capelli, la bocca invasa dal sapore dolceamaro dell’orrore, e l’ombra distorta e vacillante di Bernie le venne incontro allungando una mano.
“No!” strillò, respingendola con uno schiaffo. Tutti la fissavano. Tutti cospiravano contro di lei e contro Sméagol. All’improvviso, avvertì il peso insostenibile delle lacrime in agguato sulle ciglia, e non poté sopportare l’idea di scoppiare in pianto davanti a tutta quella gente curiosa e indiscreta a cui non importava niente di lei, di Sméagol e di Déagol.
Devo andar via di qui.
Si gettò in avanti a testa bassa, scostando malamente gli hobbit che trovò sul proprio cammino, e con la stessa foga con cui aveva fatto irruzione sulla sponda dell’Anduin scomparve nell’intrico della vegetazione.  
 
Partì il giorno dopo, senza dir niente a nessuno e senza lasciare nemmeno un biglietto. Del resto, se lo avesse fatto suo padre l’avrebbe chiusa a chiave in camera sua e sua madre, o le sue amiche, non avrebbero capito, avrebbero cercato con tutti i mezzi possibili di dissuaderla e trattenerla al villaggio, e lei invece era decisa più che mai a ritrovare Sméagol e a far luce sulla questione. Non era mai stata più decisa di così.
Tutti avevano decretato senza ombra di dubbio che il suo fidanzato si era macchiato di un orribile crimine, che aveva aggredito senza motivo lo sciocco e innocente cugino e lo aveva brutalmente strangolato, per poi fuggire a bordo della barca e scampare al giudizio. I muri delle case già iniziavano ad essere tappezzati di manifesti con disegnata sopra la sua faccia e la cifra che la guardia cittadina avrebbe offerto a chiunque lo avesse preso. Lo avevano ritratto al suo peggio, con le labbra sottili tese in un orrido ghigno da folle, i capelli arruffati e sparati in tutte le direzioni e gli occhi pieni di cattiveria. La gente scuoteva la testa con disgusto, quando guardava quell’immagine ingannevole.
Ingannevole, sì, perché Sméagol se voleva sapeva anche essere premuroso, e gentile, e buono, lei ne era sicura, custodiva una simile certezza in fondo al cuore, una certezza che i pregiudizi dei suoi simili non avrebbero deturpato. Una sera, quando l’aveva vista triste, era andato nei boschi di notte e aveva cacciato per lei due pernici, il suo piatto preferito, cucinandole con attenzione e presentandosi con la pietanza fumante tra le mani: “Guarda cos’ho trovato per te, Gilly!”
E un’altra volta, allorché si erano persi nella foresta a seguito di una gita audace fuori dai sentieri ed era calata la notte, una notte oscura e infida che li aveva colti al freddo e all’aperto, lei si era fatta prendere dal panico, una cosa che non le capitava spesso, mentre Sméagol aveva preso le redini della situazione, accendendo il fuoco, offrendole addirittura il suo mantello logoro per difendersi dal gelo e stringendole forte la mano: “Non avere paura, Gilly” le aveva bisbigliato con il suo sorriso particolare: “Forza, dì insieme a me la filastrocca del viaggiatore!”
La filastrocca del viaggiatore era una poesiola inquietante che i bambini del posto decantavano quando erano soli e senza genitori per scacciare gli spiriti e le presenze maligne nascoste nell’oscurità. Come se, rifugiandosi nell’orrido, l’orrido potesse essere domato. Alcuni sostenevano che si rifacesse all’Incantesimo dello Spettro dei Tumuli, ma nessuno voleva invischiarsi in certe faccende e non si era indagato più di tanto.
Tenendosi forte per mano, sebbene ormai quattordicenni e un po’ troppo grandi per certe cose, lei e Sméagol avevano attaccato a sciorinare, lui conciso e incoraggiante e lei un po’ esitante all’inizio, e sempre più convinta via via che i versi si susseguivano.
 
Fredda la mano, le ossa e il cuore,
freddo è il corpo del viaggiatore.
Non vede quel che il futuro gli porta
quando il sole è calato e la luna è morta.
Mai vi sarà risveglio sul letto di pietra,
mai prima che muoia il sole e la luna tetra.
Nel vento nero le stelle anch’esse moriranno,
ed essi qui sull’oro ancora giaceranno.
 
Si erano addormentati stretti l’uno all’altra per tenersi al caldo e, il mattino dopo, il gruppo inviato a cercarli li aveva trovati.
No, in Sméagol c’era qualcosa di buono, e quel qualcosa provava che non aveva ucciso Déagol, o perlomeno non a sangue freddo; Gilly era sicura che avesse avuto un motivo, che le cose fossero diverse da come apparivano e che il giovane hobbit si fosse dato alla macchia per il terrore di essersi ritrovato in quella situazione non voluta, che le circostanze si fossero intrecciate tra di loro in modo tale da portare alla morte di Déagol. Avrebbe trovato il fidanzato, si sarebbe fatta spiegare ogni cosa e a quel punto avrebbe deciso il da farsi. In cuor suo pregava che non fosse stato lui a strangolare il cugino, ma se anche fosse andata così…ecco, Sméagol doveva avere avuto una ragione più che plausibile. Nel caso, sarebbero scappati insieme in qualche villaggio lontano, dove nessuno li conosceva, magari unendosi ai Pelopiedi o ai Paloidi e acquisendo una nuova identità. Certo, sarebbero sempre stati riconosciuti come Sturoi, ma perché indagare sul conto di due profughi?
Nel cuore della notte, quando fu certa che i suoi genitori dormissero profondamente, radunò in un tascapane alcune mele, un pezzo di formaggio, una salsiccia, ortaggi vari e involti di carne secca, si mise a tracolla arco e faretra, indossò il mantello, calando il cappuccio sulla fronte, e uscì di casa in punta di piedi, lo stomaco stretto in una morsa di tensione ma la risolutezza ad incendiarle il cuore e gli occhi chiari. Era solo una hobbit giovane e inesperta, una classica Sturoi bassa di statura e con una figura morbida anche se molto aggraziata, con una marea di lentiggini sulla pelle bianca, un cespuglio di riccioli castano chiari e i lineamenti decisi, ma sapeva andare a caccia e tirare con l’arco piuttosto bene ed era abilissima a riconoscere le tracce. Sarebbe potuta partire dal luogo in cui era stato rinvenuto il cadavere di Déagol (che gli hobbit avevano spostato il giorno prima) e seguire il corso dell’Anduin fino a trovare il punto in cui Sméagol era sceso dalla barca. Sarebbe stata un’operazione lunga e faticosa, ma ne valeva la pena.
Perché tra Sméagol e la sua famiglia, avrebbe sempre scelto Sméagol.
E tra il suo villaggio natale e un luogo remoto in cui rifugiarsi con lui, avrebbe accettato volentieri di abbandonare le sue origini pur di stare al suo fianco.
Non c’era un motivo, dato che a ben pensarci si stava sacrificando per un assassino, ma era ciò che sentiva dentro. E poi, se davvero si era macchiato le mani del sangue del cugino, lui doveva avere un bisogno disperato di aiuto.
E se è impazzito come dicono e ammazza anche te?
No. Come poteva anche solo pensarlo?! Sméagol non avrebbe mai potuto farle del male…non a lei. La amava. Glielo aveva fatto capire tante volte, nel suo modo bizzarro e a tratti incomprensibile, e Gilly ne era consapevole.
Allora perché se n’è andato senza dirti nulla? Senza provare a spiegarsi almeno con te?
Si era spaventato, era ovvio! Aveva fatto una cosa più grande di lui, di sicuro in balia degli eventi, e non era riuscito a riflettere …aveva agito d’istinto. Tutto qua.
Non credo che sia così semplice.
Era inutile starci a pensare adesso, si sarebbe soltanto impigliata in una catena di congetture e ipotesi che l’avrebbe distratta e basta. Doveva trovare Sméagol, al momento era soltanto questo il suo obiettivo. Della morte di Déagol avrebbe discusso con lui, appena lo avesse rivisto.   
Impiegò sette anni nella sua ricerca.
 
A volte aveva avuto l’impressione di inseguire uno spettro, una presenza invisibile che riusciva ad attraversare luoghi e centri abitati senza esser vista né sentita da nessuno. Solo per arrivare al punto in cui aveva attraccato la barca aveva camminato sulla sponda dell’Anduin una settimana intera, e quella era stata la parte più facile del suo viaggio: finalmente, al tramonto del settimo giorno, esausta, spossata e scoraggiata, aveva scorto l’imbarcazione oscillare lugubremente sulle acque calme e immobili, abbandonata a se stessa come un triste relitto che puzzava di legno marcio. Il cuore le era balzato in gola e per un fantastico attimo aveva sperato che Sméagol fosse lì, ma era risultato chiaro, appena era entrata con le gambe nel fiume, inzuppandosi l’orlo della gonna ormai logora, che lui se n’era andato già da un po’, lasciando a bordo la sua preziosa canna da pesca, l’attrezzatura e le esche.
Gilly aveva sfiorato quegli oggetti con una sorta di muta reverenza, gli ultimi che lo hobbit aveva toccato, percependoli freddi e umidi e morti, e si era sentita disperatamente sola nella notte che calava rapida sull’acqua, inondandola degli argentei riflessi lunari. Aveva dormito a bordo della barca, avvolta nel mantello e con il cappuccio calato fino agli occhi, ed era piombata nel sonno con un pensiero fisso in testa, disperato.
Dove sei?
Le tracce del passaggio di Sméagol per fortuna c’erano, anche se cancellate in parte dal tempo trascorso, e le aveva seguite scrupolosamente, ritrovandosi però a vagare come un’anima in pena da un villaggio all’altro e da un campo all’altro senza arrivare ad alcun risultato. Per giunta era molto più lenta di lui, che a giudicare dalla frequenza delle marce doveva aver acquisito un’insospettata e soprannaturale energia, e ben presto le impronte scomparvero, la pista risultò totalmente rimossa; e dovette affidarsi al mondo instabile e insicuro delle ipotesi e delle informazioni altrui. Informazioni che, spesso e volentieri, venivano a mancare.
Gilly si sentiva più frustrata che mai quando domandava ai contadini, ai pastori e agli abitanti di un villaggio se avessero visto uno Sturoi dall’aspetto insolito e peculiare, con gli occhi azzurri e i capelli castani e lunghi, e otteneva da loro sempre la stessa, dannata risposta: no, nessuno che corrispondeva a quella descrizione era passato di lì. Ma, diavolo, se prima di interrompersi le tracce l’avevano condotta da quelle parti, qualcuno doveva pure averlo visto!! Com’era possibile che non se lo ricordasse neanche una persona? Eppure aveva un aspetto che rimaneva impresso! Era forse diventato invisibile, per gli dèi?
Sì, a quanto pare, perché la ragazza continuava a macinare miglia su miglia, allontanandosi sempre di più dalla sua terra natale e immergendosi in paesaggi sconosciuti e pericolosi, popolati perlopiù da umani che la facevano sentire terribilmente piccola e indifesa, e nessuno sapeva dirle alcunché di Sméagol, nessuno lo aveva notato anche solo di sfuggita. E a volte l’idea di arrendersi, di lasciar perdere, di fare ritorno al villaggio e cercare di rifarsi una vita le accarezzava la mente, quando si coricava nella stanza sudicia e invasa di topi di una locanda di terz’ordine, o dormiva sotto un ponte e ai piedi di un albero, tremante di freddo l’inverno e ardente di caldo l’estate, ma ormai era troppo tardi per abbandonare la ricerca, troppo tempo era passato, e se avesse rinunciato, tutta quella fatica e quegli sforzi non sarebbero serviti a nulla, e le sarebbe rimasto per tutta la vita un forte rimpianto. No, avrebbe continuato fino in fondo, anche a costo di morire.
Il ricordo di Sméagol svaniva sempre di più dalla sua memoria, e faceva fatica a rammentare l’esatta sfumatura azzurro pallido delle sue iridi, i suoi zigomi affilati, il suo ghigno…era come uno spettro, un fantasma inconsistente che le sfuggiva. Era come se quello Sméagol, lo Sméagol che aveva conosciuto da piccola e con cui era cresciuta, non esistesse più, come se la morte di Déagol glielo avesse strappato, cancellandolo dalla faccia della Terra di Mezzo. Forse era morto, per gli stenti o altro, forse giaceva putrido e dimenticato in una palude o nella terra fredda e inospitale, un triste mucchietto d’ossa, e lei stava inseguendo un fantasma, un niente…
….eppure, sentiva che era vivo. Che da qualche parte, esisteva ancora. Ed era proprio questa percezione il suo talismano contro l’angoscia, la stanchezza e lo scoraggiamento crescenti. Prima o poi, ogni cosa avrebbe avuto senso. Prima o poi, avrebbe scoperto perché.
I suoi piedi si riempirono di vesciche, che scoppiarono, si riformarono, si trasformarono in croste e poi lasciarono il posto ad uno strato di pelle molto più duro, coriaceo e resistente del precedente, una lastra callosa capace di sopportare ogni superficie senza soffrirne troppo. Lo stesso successe alle mani. Perse peso e divenne magra, quasi ossuta, con gli zigomi pronunciati e gli occhi più grandi e più vigili. I suoi capelli presero ancora di più l’aspetto di un cespuglio. E affinò la sua abilità con l’arco fino a rasentare la perfezione: era capace di procurarsi un cerbiatto, cosa che non aveva mai saputo fare prima, di impalare i pesci che guizzavano velocissimi nei torrenti o nei fiumi e di uccidere anche gli uccelli più piccoli e invisibili. Se fosse tornata a casa, dubitava che avrebbero riconosciuto la vivace e morbida diciottenne che era stata nella venticinquenne scarna e provata che era divenuta grazie alla sua ricerca.
Quattro anni dopo l’inizio del suo viaggio, trovò finalmente il primo indizio promettente sul suo fidanzato disperso.
Era tornata indietro, nella regione dei Campi Gaggioli, in preda ad uno strano e potente istinto, ripercorrendo i propri passi e raggiungendo la zona in cui le tracce di Sméagol erano svanite. Per puro caso, aveva trascorso la notte in un villaggio Sturoi nelle vicinanze e lì, quando aveva domandato per inerzia, con tono spento e assente, se avessero per caso notato lo hobbit, sorprendentemente aveva ottenuto un sì.
A quanto pare, dopo aver lasciato passare un po’ di tempo in cui aveva condotto la vita di macchia, Sméagol si era stabilito in quel villaggio. In realtà, fin dal principio la sua convivenza con gli hobbit che lo abitavano non era stata delle migliori: non si fidavano dei forestieri e lui poi aveva un’aria particolarmente inquietante e poco raccomandabile, passava tutto il suo tempo da solo, borbottando tra sé e ridacchiando senza alcuna ragione, e spesso spariva letteralmente, sembrava volatilizzarsi nel nulla.
“Ma non era solo lui a sparire” aveva bofonchiato uno degli avventori: “Sparivano anche cibo e oggetti preziosi, maledizione! Li rubava, sapevamo tutti che era lui il colpevole, ma non riuscivamo mai a beccarlo…nessuno lo vedeva mentre compiva le sue malefatte!”
Per farla breve, alla fine avevano perquisito la sua casa e avevano trovato, nascosto sotto un’asse del pavimento, il suo bottino. Era stato bandito dal villaggio, e non se n’era saputo più nulla.
“Levarcelo dai piedi è stata una benedizione” aveva rincarato la dose un altro hobbit: “Quello era un mezzo matto, parola mia! Quando è arrivato, si è intabarrato in una cappa, coprendosi fino ai capelli, ed è andato in un villaggio poco lontano a chiedere di una certa Gilly…la prima e unica volta che lo abbia visto interessarsi a qualcuno. Non deve averla trovata, perché è tornato solo”.
Gilly, grata al cappuccio del mantello che occultava i suoi occhi lucenti in modo quasi soprannaturale e il rossore violento sulle sue guance incavate, aveva domandato, con la voce che le tremava un poco: “Vi ha detto dove si sarebbe recato?”
“Diavolo, no. Non volevamo averci più niente a che fare. Metteva i brividi”.
“In che direzione è andato?”
“Mi pare a nord. Sì, a nord”.
A nord. Finalmente, una pista, dopo quattro anni di vagabondaggio inutile. Finalmente una speranza. Le rifiorì in petto con prepotenza, colmandola di un calore che da troppo tempo non le riscaldava le ossa, e non riuscì a chiudere occhio: pagò per la cena e si rimise immediatamente in cammino, con nuove energie e una rinnovata determinazione. Non se lo sarebbe lasciato sfuggire, stavolta. Aveva chiesto di lei! Una sola volta, in effetti, e non l’aveva cercata, ma significava che non l’aveva dimenticata…che forse la amava ancora. Certo, si era messo a rubare. Ed era un mistero come facesse a non essere scoperto e a scomparire nel nulla. Ma avrebbe fatto luce sulla questione.
Tre anni esatti dopo, a seguito di una ricerca più che mai accurata e faticosa e di una vita di stenti e di elemosina, Gilly raggiunse le Montagne Nebbiose.
E sentì che il suo incontro, forse ultimo incontro con Sméagol, era vicino.
 
Lo aveva incontrato la prima volta quando aveva otto anni.
Naturalmente, aveva già sentito parlare di lui, e lo aveva visto qualche volta durante i giorni di mercato, ma non si erano mai parlati. Era ritenuto strano già allora, un bambino perso in se stesso e con una certa scaltrezza malevola negli occhi che spingeva gli altri a stargli alla larga, e capitava a volte che i gruppi di coetanei lo prendessero di mira e ne facessero la vittima di scherzi e tiri mancini. Il cugino Déagol, sbeffeggiato quanto lui, non era in grado di capire fino in fondo la malignità di cui veniva fatto oggetto e la prendeva con una risata, Sméagol supplicava e si genufletteva, ma aveva le pupille che brillavano di odio e quando si allontanava parlava tra sé e ridacchiava.
“Gliela farò pagare, sì sì…sarà un gioco da ragazzi…basta solo che sistemo tutto quanto a puntino e…ma se mi scoprono? No, no, non possono mica scoprirmi…non hanno le prove…potrebbero sospettare di me…beh, non è abbastanza per denunciarmi!”
Gilly gli stava lontana, come tutti, del resto. In una sola occasione era rimasta colpita da lui: mentre passava davanti alla sua casa, lo aveva visto in giardino in compagnia della nonna, seduto accanto a lei su un muracciolo, con un uovo tra le mani. La nonna gli stava mostrando come succhiarne il contenuto, e lui lo aveva fatto con troppo entusiasmo, spruzzandosi la faccia del bianco gommoso della chiara e dell’arancione del tuorlo. Avevano riso entrambi, divertiti, e Gilly si era soffermata ad osservarli qualche istante, desiderando, chissà perché, di potersi unire a loro.
Sméagol aveva incrociato il suo sguardo curioso ed era avvampato, cercando di pulirsi alla meno peggio dalla poltiglia. Lei aveva fatto una risatina e poi aveva tirato dritto.
Questo era accaduto sei mesi prima che si parlassero.
Gilly aveva sempre amato la caccia, fin da piccolissima. Suo padre, che aveva tanto desiderato un figlio maschio ma si era dovuto accontentare di lei e delle sue tre sorelle, l’aveva portata, lei che era la maggiore, nei boschi e le aveva insegnato a tirare con l’arco, ad appostarsi, a costruire alcune semplici trappole e a seguire le tracce. Gilly aveva assorbito tutto come una spugna e lo aveva messo in pratica dapprima con lui e poi sola, tornando a casa con lo sguardo lucente e il sorriso trionfante, brandendo una lepre o un uccelletto nella mano destra. Sua madre la accoglieva con disapprovazione, convinta che la caccia non fosse un’occupazione adatta per una fanciulla, ma suo padre rideva, compiaciuto, e le scompigliava i riccioli: “Bravo il mio piccolo garofano!”
Il giorno in cui aveva conosciuto Sméagol, si era per l’appunto recata nel bosco per una battuta, armata del suo fedele arco in legno di ontano, fatto su misura per lei, e delle sue frecce, e aveva mirato su uno stormo di fagiani selvatici, salendo su un albero per avere una prospettiva migliore. Quando aveva scoccato un dardo, però, ne era partito un altro da poco lontano, pressoché nello stesso momento, ed aveva perso di vista il proprio, giacché entrambi erano diretti agli uccelli. Uno dei fagiani era stato colpito all’ala destra ed era precipitato tra le fronde in spirali disperate, così Gilly, anche se non era sicura di averlo abbattuto lei, era corsa a riscuotere la preda. Si era infilata tra le frasche intricate e i cespugli di fiori, respirando il familiare odore di erba, muschio e aghi di pino, ed aveva trovato l’uccello ai piedi di un faggio, morto, con le piume macchiate di rosso e la freccia conficcata nel corpo.
Mentre allungava una mano per prenderlo, una voce stridula e indignata l’aveva interrotta: “Quello è mio!”
Aveva alzato subito lo sguardo, irrigidendosi e preparandosi a battersela (i cacciatori da quelle parti erano quasi sempre irascibili e non era il caso di contrariarli), ma tutto il suo timore era scomparso quando aveva visto emergere dalle felci un bambino che poteva avere più o meno la sua età, ossuto e nervoso; e non un bambino qualunque, ma Sméagol, lo strano.
Ansimava per la fatica della corsa e aveva i capelli arruffati e le nocche livide strette su un arco molto simile al suo. L’aveva guardata, e il rapido moto di sorpresa che gli aveva attraversato i tratti aveva fatto capire a Gilly che era stupito quanto lei di trovarsi di fronte un coetaneo. Un attimo dopo, però, si era ripreso, e aveva scoperto leggermente i denti in una smorfia minacciosa: “Quell’uccello è mio, l’ho colpito io!”
“Non è mica vero!” si era messa subito sul piede di guerra, ben determinata a non farsi portar via la preda senza protestare: “Non hai le prove!”
“Ma sono bravissimo con l’arco” aveva replicato lui, posando sul fagiano uno sguardo pieno di cupidigia: “E poi quello alla nonna e a me piace tantissimo. È squisito, è succulento, è croccante…oh, lo voglio!”
Aveva fatto un passo in direzione dell’uccello e Gilly si era avvicinata a sua volta, in atteggiamento bellicoso: “Anch’io lo voglio, ce lo dobbiamo mangiare per cena”.
Lui aveva arricciato le labbra in una smorfia scontenta e l’aveva squadrata da capo a piedi come se non avesse mai visto una bambina prima d’ora: “Chi saresti tu?” le aveva chiesto piano, contrariato dalla sua opposizione, e poi lo aveva ripetuto in tono più aggressivo, serrando le mascelle, come se una parte di lui lo avesse spronato ad aggredirla: “Chi saresti?!”
Lei si era impettita un poco, gettando indietro i capelli e piantandosi le mani sui fianchi: “Sono Gilly. Sta per Gillyflower. Tu sei Sméagol, vero?”
“Garofano?” aveva borbottato lui, accigliandosi: “Perché un garofano dovrebbe volere il mio uccellino?”
“Non è il tuo uccellino, secondo me la freccia è la mia”.
“Oh, ti sbagli” le aveva sibilato con malignità: “Ti sbagli eccome, garofano. E poi” aveva sfoderato un sorriso soddisfatto e aveva tirato fuori la scusa che con Déagol, il quale non aveva il senso del tempo, funzionava sempre (anche se, prima o poi, in un giorno lontano e infausto, il cugino non ci sarebbe più cascato): “Oggi è il mio compleanno. E lo voglio”.
Gilly non ci aveva creduto neanche un attimo: “Mi prendi per stupida? Tua nonna ti ha fatto la festa due mesi fa”.
I grandi occhi azzurri di lui si erano stretti a fessura e aveva pestato letteralmente i piedi, con un grugnito di frustrazione: “Io voglio l’uccellino!” aveva ringhiato: “Voglio l’uccellino!”
La bambina aveva alzato gli occhi al cielo. Quel guastafeste si comportava come un poppante di tre anni. E aveva capito che di questo passo non si sarebbe approdati da nessuna parte. Forse era il caso di giocarsela in modo diverso…
Aspetta un attimo…giocarsela??
Si era risollevata, illuminandosi, e un barlume di trionfo le aveva attraversato le pupille: “Senti che facciamo” aveva detto in tono pratico: “Non sappiamo di chi è la freccia, giusto? Il fagiano potrebbe essere tanto mio quanto tuo. Dato che non possiamo stabilirlo, la risolveremo lealmente, con una gara di indovinelli. Chi vince se lo potrà tenere. Che ne pensi?”
Era sicura al cento per cento di avere la vittoria in tasca. Nessuno le stava alla pari per capacità di risolvere gli indovinelli. Erano la sua passione. Addirittura si scriveva quelli di cui non riusciva a trovare la soluzione sul momento per rifletterci in solitudine. Lui non avrebbe mai potuto batterla. Il fagiano era suo.
Si era aspettata che Sméagol non accettasse subito, o che quantomeno si mostrasse smarrito, ma lui la sorprese. Appena pronunciò la parola magica, indovinelli, tutta la rabbia e l’insoddisfazione abbandonarono i suoi tratti e la smorfia si tramutò in un sorriso sorpreso ed eccitato insieme: “Una gara di indovinelli?” le aveva fatto eco, con voce di gran lunga più lieta e felice di prima: “Oh, io adoro gli indovinelli! Ne conosco tantissimi, la nonna me ne ha insegnati un sacco! Sì, sì, facciamo una gara!”
La sicurezza di Gilly si incrinò un poco. Dall’entusiasmo con cui Sméagol aveva accettato la sua idea, si poteva dedurre che si sentisse inattaccabile su quel campo e che anzi, la contesa lo avrebbe persino divertito…e non era abituata ad incontrare qualcuno che condividesse con lei la passione per gli enigmi. Osservò il piccolo hobbit più attentamente, ignorando gli occhi troppo grandi, il faccino strano e un po’ sgradevole e gli zigomi affilati: “A te quindi…piacciono gli indovinelli?”
“Li adoro!!” ribadì lui, quasi urlando: “Con Déagol non c’è mai gusto perché non li capisce…oh, sì, garofano, giochiamo agli indovinelli!” sembrava aver perso interesse per il fagiano, era tutto preso dalla gara: “Se perdi, mi mangio l’uccellino”.
Gilly incrociò le braccia sul petto, la fronte aggrottata: “Ma se vinco me lo mangio io”.
Lui annuì più volte, senza palesare alcun apparente fastidio: “Sì, sì. Coraggio, chiedimi, prima le signore”.
La bambina passò attentamente in rassegna il suo repertorio di indovinelli, che aveva perlopiù imparato dai vecchi libri che tenevano in casa. Se Sméagol era un esperto, occorreva trovarne uno veramente difficile, uno che le aveva dato parecchio filo da torcere.
“Sono piccola e snella…vado a cavallo senza sella…passo il mare senza nave…entro nelle case senza chiave…presiedo alla tavola dei re…dimmi, sono più di te?”
Andarono avanti per ore dopo che Sméagol, a seguito di una riflessione costellata di borbottii a mezza voce, grugniti, pestate di piedi e pugni contro i tronchi degli alberi, trovò la soluzione: la mosca. Si vendicò con un indovinello non meno arduo e vago, che le sciorinò con un ghigno malevolo che svanì come una pioggia estiva allorché Gilly gli sbatté sotto al naso la risposta. Via via che si ponevano enigmi sempre più intricati e fantasiosi, l’ammirazione e la simpatia per l’altro cresceva nel loro sguardo, e ad un certo punto si ritrovarono così accaldati e sudati che Sméagol si tolse il gilet e Gilly si arrotolò le maniche del vestito fino ai gomiti.
Al tramonto, per evitare che i loro genitori si infuriassero, stabilirono la parità e si divisero equamente il fagiano (cosa che avrebbero potuto fare prima, ma che entrambi si erano ben guardati dal proporre). Mentre Gilly inforcava il sentiero per tornare a casa, lui la richiamò: “Garofano!”
Si volse, con un involontario sorriso che le sbocciava sulle labbra: “Sì?”
Sméagol, i capelli sudati appiccicati al cranio e le guance chiazzate di rosso, immobile al centro della radura in cui si era svolta la gara, attese qualche istante prima di rispondere, incassando la testa nelle spalle in un atteggiamento intimidito e vergognoso. Alla fine le domandò, flebilmente: “Domani ti va di rivederci qui per un’altra gara? Volevo…” si diede un tono, o almeno ci provò: “Volevo vincere”.
Gilly si scoprì sinceramente felice che lui lo avesse proposto, eccitata come non mai all’idea di rivederlo. Sapeva già che avrebbe divorato da cima a fondo il suo libro di indovinelli per memorizzarne di nuovi, ancora più difficili.
Assentì con il capo, levando la mano in un gesto di saluto: “D’accordo! A domani!”
Lui si illuminò tutto quanto: “A domani!”
E così era cominciata.
 
E adesso, forse, stava per finire, la storia di una vita annegata nell’oscurità, nel gelo e nella morte. La sua lunga e logorante ricerca aveva finito per condurla in un luogo dimenticato dagli dèi, l’ultimo luogo in cui sarebbe mai andata ad abitare, quei picchi frastagliati ed altissimi dove a regnare erano solo le rocce umide e appuntite, il granito nero e gli strapiombi vertiginosi, e sentiva di essere finalmente giunta al termine del suo viaggio, di aver raggiunto Sméagol, dopo sette anni, sette terribili anni in cui era cambiata radicalmente.
E se sono tanto cambiata…fino a che punto è cambiato lui?
Era strano, da una parte aveva una paura paralizzante di ciò che avrebbe potuto trovare, tanto intensa che quasi avrebbe girato sui tacchi e avrebbe mandato a monte tutto, e dall’altra non desiderava altro che rompere gli indugi e, finalmente, capire, era una smania divorante che finì per prevalere e spingerla incontro alle Montagne Nebbiose, una figurina incappucciata e curva, minuscola tra quelle gigantesche alture. Al di là di tutto, forse non aveva altra scelta. Forse aveva decretato il suo destino nell’esatto momento in cui aveva abbandonato la sua casa nel cuore della notte. Sméagol sarebbe potuto essere morto, o in fin di vita, o malato…ma doveva andare a vedere, doveva scoprire la verità. Avrebbe scontato qualsiasi sofferenza pur di comprendere se ne era valsa la pena.
Avesse affrontato un percorso tanto ripido e scosceso all’inizio del suo viaggio, sarebbe rimasta certamente uccisa. Ma per sette anni aveva marciato giorno e notte, infaticabile, in posti uno diverso dall’altro e uno più inospitale e lugubre dell’altro, riempiendosi di calli e temprando il suo esile fisico, e si lanciò alla scoperta delle Montagne Nebbiose serrando i denti e armandosi di un lungo e nodoso bastone a cui sostenersi. Non riusciva a capire perché Sméagol avesse scelto di stabilirsi proprio lì. Non era un luogo vivibile, questo era poco ma sicuro, e brulicava di orchi e goblin, nessuna persona sana di mente si sarebbe offerta loro su un piatto d’argento a quel modo. Inoltre, non c’erano abitazioni nei dintorni, neanche qualche capanna di cacciatori, la natura regnava incontaminata e feroce per miglia e miglia. Il che voleva dire isolamento. Solitudine. E cattivo presagio.
Dopo svariati giorni di cammino, durante i quali si era inerpicata su vette sempre più aspre e frastagliate, rischiando di precipitare in un crepaccio ad ogni piè sospinto e ferendosi spesso le gambe sulle pietre appuntite, trovò tracce del passaggio di un bipede dai piedi lunghi proprio come quelli di un hobbit. Impronte, licheni calpestati, un lembo di stoffa sudicia rimasto intrappolato su un ramo ritorto, un mucchio di escrementi. Si srotolavano incuneandosi in una fenditura rocciosa incisa nella montagna, una spaccatura obliqua e larga abbastanza per passarci dal cui interno spiravano buio, freddo e silenzio. Gilly deglutì, aggrappandosi al suo bastone come se fosse l’ancora di una nave, e fissò l’oscurità che permeava quel complesso di caverne e cunicoli sotterranei, un labirintico mondo di ombre in cui forse, anzi, sicuramente avevano costruito le loro case orchi, goblin, troll di montagna e tutte quelle razze terrificanti che non tolleravano la luce del sole.
Eppure le impronte non appartenevano né a un orco, né a un goblin, né tantomeno ad un troll.
A Sméagol la luce non era mai piaciuta, ricordò. Amava trovare angoli ombrosi e piccole grotte in cui ammucchiava la sua attrezzatura da pesca e la sua collezione di animali morti e se ne stava lì ad assorbire il fresco e l’umidità, beato. Ma arrivare a vivere nelle profondità delle montagne, come un nano o uno di quei mostri di cui si raccontavano storie spaventose? Si era spinto fino a questo punto pur di evitare contatti con la gente? E poi, perché voleva evitare contatti con la gente? Non era la persona più socievole del mondo, ma neanche un eremita!
Si accostò alla spaccatura ricurva, simile ad una ferita inflitta da un colpo d’artiglio, con i due lembi frastagliati e lo strato di carne viva in mezzo, pulsante di un’oscurità malata, il suolo roccioso infestato da piante biancastre e atrofizzate, simili a braccia di cadaveri semisepolti, e il soffitto costellato di stalattiti taglienti come pugnali. Posò una mano sulla roccia ruvida e pungente ed ebbe un brivido: sembrava la bocca della montagna, provvista di fauci e cavo orofaringeo, che l’avrebbe condotta dritta nel suo ventre, laddove fuggire era impossibile. Chiuse gli occhi, colta da un’indicibile, repentina spossatezza, e lasciò che il vento freddo le sferzasse le guance e scagliasse indietro il cappuccio, scompigliandole i capelli.
Sono pronta a spingermi a tanto?
Sì. Preferiva sapere che vivere. Non avrebbe sopportato di rimanere nell’ignoranza, ora che era arrivata così vicina alla verità. Riaprì gli occhi grigio-blu, scintillanti del fuoco della risolutezza, e si armò del suo nome, quello che l’aveva sostenuta durante quei sette anni.
Sméagol, Sméagol, Sméagol.
Sollevò l’orlo consunto e macchiato di fango del suo mantello e ne strappò un filo, che depositò dolcemente a terra. Sarebbe stato la sua salvezza, avrebbe tracciato il suo percorso, permettendole di non smarrirsi. E se il mantello fosse finito, avrebbe sacrificato l’abito, non le importava. Dalla gonna prelevò un quadrato di stoffa che avvolse all’estremità di un robusto pezzo di ramo trovato per terra, e con esca e acciarino gli diede fuoco, un fuoco vivo, caldo, rassicurante che gettò riflessi scarlatti nel buio inospitale.
Un buio che la inghiottì, vorace, appena varcò l’entrata della caverna.
Tutto sommato, l’atmosfera non era così soffocante e claustrofobica come aveva creduto. Il cunicolo era molto più ampio di quelli che aveva visitato in passato, con il soffitto ben alto sopra la sua testa, il pavimento ruvido abbastanza da non farla scivolare e le pareti, costituite da un ammasso roccioso, che non le si stringevano addosso, ma rassomigliavano a quelle di una casa. Il buio era profondo e insondabile, ferito dal fuoco della torcia che proiettava intorno a lei un quadrato rossastro, e alle narici le giungeva odore di umidità, putrefazione e una certa puzza di orco che le fece accapponare la pelle. Non era densa, quindi poteva dedurne che quei mostri non fossero passati di lì recentemente, ma forte abbastanza da metterla sull’avviso. Era armata soltanto del suo arco e quello non era assolutamente l’ambiente adatto per tirare, con quel dannato buio la sua mira sarebbe calata in modo drastico. Se avesse incontrato delle creature ostili, sarebbe stata spacciata.
Non farti prendere dal panico, Gilly. L’importante è rimanere calmi.
Quel labirinto si diramava in mille direzioni diverse; alcune portavano ad ulteriori aperture verso l’esterno, lo intuiva dal debole chiarore che filtrava a stento nelle tenebre e dall’aria più respirabile e asettica, altre si immergevano nel cuore dell’ombra, penetrando nelle viscere delle Montagne Nebbiose. Guidata dall’istinto e dalle impronte che, purtroppo per lei, parevano aver esplorato ogni singolo angolo di quel complesso sotterraneo, Gilly vagò nei cunicoli con il mantello che si sfilacciava sempre di più e le pupille dilatate e semicieche, procedendo con cautela sul terreno roccioso e sventolando la torcia di qua e di là per notare eventuali pericoli. Faceva freddo, un freddo umido e malsano, tanto che le uscivano nuvolette di condensa dalle labbra, ma sudava copiosamente, un appiccicoso e gelido sudore che le incollava i riccioli alle guance e le ghiacciava la nuca.
Avrebbe voluto invocare Sméagol, gridare a squarciagola per distruggere il tombale e lugubre silenzio che le si chiudeva addosso come una trappola e per sentirsi, ma a giudicare da come i suoi passi rimbombavano, l’eco avrebbe propagato ovunque la sua voce e aveva troppo timore che potesse udirla la persona sbagliata, e che a quel punto avrebbe rivelato la sua posizione a tutte le cose che abitavano quell’universo di tenebra. E quelle cose invisibili la terrorizzavano più del buio, della solitudine e del luogo sconosciuto. Forse la stavano spiando, nascoste nell’oscurità, con i loro occhietti piccoli e cattivi, e aspettavano il momento giusto per assalirla. Forse si spostavano rapide da un nascondiglio all’altro e le si avvicinavano sempre di più. Forse le leggende su ragni giganti e creature infernali erano vere, e sarebbe presto divenuta il loro pasto.
Inciampò all’improvviso contro una forma morbida e cadde in avanti con un urlo strozzato, un suono stridulo e affannoso che spaccò il silenzio quasi con violenza, riverberandole intorno. Ebbe la prontezza di levare la torcia sopra la testa per salvarla e di far leva con la mano libera sulla cosa contro cui era andata a sbattere per non atterrare di faccia, e il filo con cui aveva tracciato il proprio percorso le sfuggì dalle dita, perdendosi nelle tenebre.
Ansimò affannosamente, appoggiandosi contro la cosa per tirarsi su, e ad essa uscì un suono gorgogliante e grottesco, mentre uno spruzzo caldo e viscoso le colpiva la palpebre.
Le si fermò il cuore, allorché toccò quel liquido e lo vide rosso.
Sangue…
Gridò di nuovo, senza poterne fare a meno, e strisciò freneticamente all’indietro per allontanarsi da quello che si era rivelato essere una creatura vivente, un individuo moribondo; appoggiandogli la mano sul petto e facendo leva per alzarsi, gli aveva torturato il polmone danneggiato e dalla bocca era fuoriuscito un fiotto di sangue che le era schizzato dritto in faccia. Tremando in modo incontrollabile, diresse la torcia verso di lui per comprendere cosa fosse e trattenne bruscamente il respiro.
Un goblin. Era un goblin.
Il muso rincagnato, il petto rachitico e le membra abbozzate e mostruose le strapparono un brivido di repulsione, ma più di tutto la spaventarono i suoi contorcimenti disperati, i suoi rantoli, e i rivoli scarlatti che gli scorrevano come torrenti dalla bocca zannuta. Aveva una larga ferita al petto e agonizzava, in preda alle convulsioni, probabilmente risvegliatosi dallo svenimento quando aveva urtato contro di lui. Gilly rilasciò un gemito strozzato, arretrando in preda all’orrore.
Dèi, non posso sopportarlo…
All’improvviso, come se i rumori, le grida e i rantoli che lei e il goblin avevano emesso avessero risvegliato le caverne e i loro abitanti, un verso che non avrebbe saputo come definire, una specie di tosse stridula, dall’accento vagamente umano, risuonò da un cunicolo non troppo lontano.
“Gollum, gollum!”
Gilly trasalì, strappandosi brutalmente al corso dei suoi pensieri, e distolse lo sguardo dall’essere patetico, puntandolo in direzione del verso; naturalmente, non riuscì a scorgere nulla: “Chi c’è?!” sibilò, con una nota isterica. Quel suono aveva trasmesso un brivido alla sua colonna vertebrale, l’aveva spaventata nel profondo, anche se non ne capiva la ragione. Attese qualche istante, la fronte imperlata di sudore, poi si disse che tanto valeva attaccare per prima ed estrasse l’arco, stringendolo convulsamente con le mani tremanti: “CHI SEI?!” ripeté, urlando.
Le rispose nuovamente quel verso assurdo: “Gollum, gollum!”
In circostanze normali non si sarebbe mai avvicinata, ma ora sentiva di doverlo fare, era un ordine al quale non poteva disobbedire, come se un mago le avesse fatto un incantesimo o quel verso l’avesse incatenata a sé, avviluppandola con una corda e tirandola in avanti. Avanzò, il più silenziosamente possibile, tirando fuori una freccia dalla faretra e incoccandola, e cercò di non ascoltare i battiti assordanti del suo cuore, il sangue che le rimbombava nelle orecchie e le tempie che pulsavano, riempiendole il cervello di dolore. Era tesa come una corda di violino, pronta a tirare appena avesse subìto un’aggressione, ma anche tremendamente ansiosa, la bocca invasa dall’amaro sapore di bile.
Cosa aveva potuto emettere un suono simile, per gli dèi?
La torcia finì abbandonata in una pozza d’acqua putrida, il filo non venne recuperato, ma ormai i suoi occhi si erano abituati all’oscurità e distinse una figura più o meno della sua stessa altezza e corporatura curva contro una grossa roccia, in preda ad un tremito incontrollabile, che dondolava su se stessa con lugubre continuità e si lamentava come se fosse preda di un dolore atroce. Gilly strinse gli occhi, cercando di metterla a fuoco, senza provarne spavento (era forse diventata pazza?) e sussurrò: “Chi…chi sei?”  
La figura si irrigidì, trasalendo al suono della sua voce, e si girò faticosamente verso di lei, appoggiandosi sui gomiti appuntiti per tirarsi su.
L’azzurro pallido e lattescente dei suoi grandi occhi lampeggiò nel buio.
Le si mozzò il fiato in gola: “Sméagol?”
 
Ebbe un mancamento. Le pareti rocciose della caverna e il soffitto irto di pugnali di ghiaccio le girarono attorno vorticosamente, in una mescolanza vertiginosa di grigio, nero e bianco, poi si chiusero su di lei come la bocca di un titano vorace, facendole mancare il respiro. Barcollò, sostenendosi ad un masso appuntito che spuntava tra i sassi e i ciottoli di cui era disseminato il suolo, e boccheggiò come un pesce, alla ricerca disperata di ossigeno, stringendo la pietra tanto forte da ferirsi il palmo. Il groviglio di sentimenti contrastanti che le si agitava dentro era troppo intricato perché potesse dargli un nome.
Sméagol la fissò, artigliandosi la gola con entrambe le mani, e aprì le labbra violacee e livide come se volesse dire qualcosa; invece si piegò in due, squassato da un brivido violento, e vomitò un’orrida bile nerastra dal fetore pestilenziale, gemendo. Sembrava non finire mai, sgorgava come un fiume dalla sua bocca, a schizzi.
Gilly si portò una mano al viso, quasi inconsapevolmente: “Sméagol” ripeté in un fioco, rauco sussurro.
Era ridotto all’ombra di se stesso. Anzi, no: era consumato, letteralmente, come se non fosse un vivente ma un cadavere lasciato in quella tomba sotterranea ad imputridirsi, e come un cadavere puzzava, un puzzo così intenso e abietto da prenderla alla gola. Sembrava…in fin di vita. Sembrava… il risultato dell’esperimento di un folle negromante. Qualsiasi cosa gli avessero fatto, lo stava uccidendo, pur lasciandolo in vita.
Era spaventosamente magro, con le costole che sporgevano in modo grottesco dal torace, le ginocchia più sode delle gambe, le mani enormi e nodose a confronto delle braccia smilze e il collo pieno di solchi. Il volto assomigliava ad un teschio, con la fronte sporgente, le guance inesistenti, il mento appuntito. Alcuni ciuffi di capelli erano caduti e ciò che restava si era aggrovigliato in un garbuglio così incrostato di sporcizia che non se ne distingueva più il colore, e la dentatura era stata defraudata di qualche membro. I lineamenti erano sfigurati da una sorta di oscura malattia, di potere maligno che lo rodeva dall’interno. Aveva ancora l’aspetto di un hobbit, ma bastava guardarlo per rendersi conto che un processo terribile se lo stava mangiando brano a brano, e che quello non era che l’inizio. Addosso portava stracci luridi e cascanti che un tempo erano stati vestiti e che adesso lo coprivano a stento. Gli occhi azzurri, enormi nel viso scheletrico, luccicavano di una smania febbrile.
Gilly esalò un rantolo strangolato in gola, sconvolta, e lui sbatté le palpebre varie volte, tossendo e rigettando ancora qualche fiotto di quella rivoltante bile nera, fissandola come se non la riconoscesse: “G-Gilly?” gracchiò, con una voce stridula e sibilante che non sembrava nemmeno la sua. Subito dopo si afferrò di nuovo la gola, contraendo il volto in una smorfia, e arricciò le labbra esangui, sputando quel verso terribile come se lottasse per trattenerlo: “Gollum, gollum!”
Qualcosa, dentro la ragazza, si liberò, e gli corse incontro con le lacrime che iniziavano a scorrerle sulle gote: “Sméagol!” urlò, le corde vocali frantumate dal dolore e dall’angoscia: “Miei dèi, Sméagol, cosa ti hanno fatto?!”
Si lasciò cadere in ginocchio accanto a lui, incurante del fetore che emanava, delle sue spaventevoli condizioni, delle presenze ostili nascoste nell’oscurità, e lo strinse freneticamente al proprio seno, in preda ai singhiozzi, abbracciandolo come se bastasse questo a guarirlo, ad allontanare il male che lo consumava, ripetendo il suo nome in una cantilena continua e scuotendo meccanicamente la testa: “Ti ho trovato, ti ho trovato…”
Lui ansimava contro il suo petto, rilasciando respiri rochi e sibilanti tra le labbra dischiuse, e tremava come una foglia. Gilly si levò subito il mantello mezzo sfilacciato e glielo avvolse sulle spalle per tenerlo al caldo, scostandogli dal viso ciocche di capelli secchi e sfibrati e sorridendogli tra le lacrime: “Shh, andrà tutto bene, tutto bene, ci sono io adesso, sta tranquillo” si chinò in avanti e appoggiò la bocca morbida su quella screpolata e gelida di lui. Sapeva di pesce crudo e di sale, eppure non interruppe il bacio, bevve quel fiato putrido e lo mescolò con il proprio, caldo e confortante, sperando di scacciare dallo hobbit il freddo che sembrava attanagliarlo.
Poi si staccò, respirando affannosamente, e lo guardò negli occhi grandi e allucinati, cercando di darsi un contegno: “Cosa ti è successo? Perché sei finito qui? Oh, Sméagol, io…credevo di non rivederti più…”
Lui la fissò di rimando, indecifrabile, le pupille dilatate ed enormi nel buio che li circondava. Sollevò una mano ossuta, piegando il capo di lato in una strana posa animale, e le toccò una guancia con le punte delle dita, lasciandole scorrere fino alla folta massa di capelli, di cui saggiò qualche ricciolo. Sembrava una scimmia che vedeva per la prima volta una femmina della sua razza. Le asciugò le lacrime, raccogliendole con l’indice, e Gilly abbandonò il volto nella sua mano, stringendogli delicatamente il braccio scarno. Era indubbiamente molto malato ed era stato vittima di qualcosa di orribile che continuava ad agire in lui, ma era vivo, era lì con lei, era…l’aveva trovato! Lo sfinimento e il sollievo erano tali che quasi ne sarebbe morta.
“Gilly” gracchiò Sméagol: “Cosa ci fai qui, Gilly? Non è un posto per una giovane innocente hobbit…brutte cose si nascondono nel buio, davvero brutte! Ma noi conosciamo la strada, sì…possiamo mostrarti sentieri sicuri nell’oscurità per uscire”.
Gilly ebbe un brivido; c’era qualcosa di diverso nel modo di parlare di Sméagol, oltre a quell’insensato plurale che utilizzava per indicare se stesso, una sorta di cadenza stridula e malsana che la riempì di paura e orrore. Per un attimo, stringendolo a sé, aveva creduto che finalmente se ne sarebbero potuti andare insieme, al sicuro, lontano da quell’orribile posto. Ma adesso sentiva che il compagno le scivolava tra le dita, che le sfuggiva, ed era una sensazione tremenda, come se tutto quello che li aveva legati in passato fosse stato cancellato dal presente, e quegli Sméagol e Gilly fossero morti, per sempre, sostituiti da qualcosa di diverso, marcio e corrotto, che ancora non riusciva a definire.
“Sméagol” mormorò, scostandosi leggermente da lui e mordendosi forte il labbro inferiore: “Sméagol, ti ho cercato per sette anni. Sette anni! Ho attraversato metà della Terra di Mezzo per trovarti. Eri…scomparso, e io… non sapevo dove fossi, cosa ti era successo, perché avevi…” si bloccò, le parole che le turbinavano in gola, e alla fine concluse, in un soffio: “…perché avevi ucciso Déagol”.
Lui si accovacciò come un cane, appoggiandosi sulle dita dei piedi e sulle nocche delle mani, e piegò di nuovo la testa, quasi il discorso di lei non avesse il minimo senso, o riguardasse fatti che non avevano niente a che fare con lui. Un breve e fugace bagliore gli attraversò le pupille, ma quando la fanciulla tacque, scoprì i denti gialli in un largo sorriso: “Siamo felici di rivederti, tesoro mio, molto felici. Non ce lo aspettavamo. Come stai, Gilly? Hai visto il goblinses laggiù? Lo abbiamo ucciso noi, ssì, sì!” scoppiò in una risata acuta e di gola da agghiacciare il sangue: “Non è buono come i pesci, ma sempre meglio di niente, no? Lo vuoi? Te lo regaliamo!”
Gilly lo fissò con gli occhi spalancati, senza rispondere, mentre delirava. Era pallida, immobile. Attonita.
“Questo è un ottimo posto per mangiare, tessoro” proseguì l’essere che aveva preso il posto di Sméagol, sempre più eccitato: “Un sacco di goblinses, pipistrelli e pesci…li prendiamo senza che se ne accorgono, perché abbiamo il Tesoro” di colpo, si accigliò, il sorriso festoso sostituito da un’espressione arcigna e sospettosa, e ringhiò, invelenito: “Sta zitto, idiota!”
Poi, con voce lamentosa e contrita: “Ma a lei lo possiamo dire…”
Di nuovo arcigno, sibilando: “No. È una piccola, avida hobbittes che lo vorrebbe per sé”.
“No. Non è vero. Gilly è la nostra fidanzata”.
“Oh, non più mio caro, non più…” ghignò malignamente la personalità grifagna e astiosa: “Perché quando saprà che ladro bugiardo sei diventato ti abbandonerà, ti ferirà, ti rifiuterà…a nessuno piace un assassino!”
Il sé contrito si rattrappì, incassando la testa nelle spalle, apparentemente inconsapevole di Gilly che lo fissava lì accanto, pietrificata: “Ti sbagli. Gilly ci aiuterà, si prenderà cura di noi”.
“Povero ingenuo” ridacchiò l’arcigno: “Io lo so cosa è venuta a fare. La hobbittes ti porterà via il Tessoro. Gollum, gollum!”
“No!” strillò il contrito, pieno di panico, stringendosi la faccia tra le mani: “No, è una bugia!”
“BASTA!” urlò Gilly, straziata, il volto sfigurato dall’orrore, dal disgusto, dalla sofferenza. L’eco proiettò ovunque il suo grido e alcuni sassi si staccarono dalle pareti, una o due stalattiti piombarono a terra ed esplosero in una corona di schegge di ghiaccio.
Sméagol interruppe il suo monologo delirante e la guardò, prestandole finalmente attenzione. Lei ansimava, il petto che si abbassava e alzava ripetutamente, i pugni tanto stretti che le nocche erano sbiancate: “Basta…” ribadì in un bisbiglio strozzato, indietreggiando: “Basta, basta, ti prego!”
Lui le sorrise, un po’ imbarazzato, ma poi fece, subito dopo, una smorfia carica di astio e di sospetto, scoprendo i denti in un ringhio e sprizzando dagli occhi un bagliore verdastro.
“Cosa sei diventato?” proseguì la ragazza, a tratti strillando istericamente e a tratti sussurrando: “Perché…chi…cosa ti ha fatto questo?!” conosceva Sméagol meglio di chiunque altro, e sapeva che aveva aspetti tanto di una personalità quanto dell’altra, ma adesso parevano essersi scissi, separati in due identità distinte, smembrate da un intervento soprannaturale, e lo hobbit che amava si era trasformato in una creatura caotica e insana, una creatura che le ispirava pietà, sì, ma anche repulsione. E non riusciva ad accettarlo, non dopo le fatiche affrontate per trovarlo…trovare quella cosa!
“Hai ucciso Déagol, non è così?” disse piano. Chissà perché, adesso le appariva come una deduzione ovvia, un fatto così lampante che si domandò come potesse averne dubitato: “L’hai ucciso e non ti aveva fatto niente di male”.
Lui sogghignò e le si avvicinò di diversi passi, con un’andatura incurvata e  oscillante, i fini capelli sfibrati in avanti sopra alla faccia pervasa dalla malizia e dalla malvagità: “Molto astuta, piccola hobbittes, molto astuta…”
Gilly arretrò, avvertendo improvvisamente un senso di pericolo, di minaccia incombente, e il ricordo di ciò che aveva pensato sette anni prima, all’inizio del viaggio, le squarciò la mente come un colpo di coltello.
E se ammazza anche te?
Fino ad un’ora prima, avrebbe giurato su tutti gli dèi che Sméagol non le avrebbe mai fatto del male. Ma si trattava del vecchio Sméagol, quello in cui convivevano bene e male mescolati insieme, e non solidificatesi in due entità che prendevano il sopravvento a turno. E di questa non si fidava, affatto. D’istinto, posò una mano sull’arco, ma si trattenne dallo sfoderarlo. Nonostante tutto, in quella creatura esisteva ancora una traccia del mezz’uomo che aveva amato, e questo non poteva ignorarlo.
Improvvisamente, Sméagol smise di avanzare e sgranò gli occhi, accucciandosi a terra e prendendo a gemere e a lamentarsi: “No, non farcelo fare, ti prego, no…vai via! Vai a dormire!”
Quindi, torcendo la bocca viola in un orrido ghigno: “Saresti morto di stenti da un bel pezzo senza di me. Gollum, gollum! Io ho trovato questo posto, io ti ho mostrato come scuoiare ossuti, sporchi goblinses, io ho preso per noi il Tesoro dalle mani di quell’imbecille, grasso hobbit! Io, io, io! Tu non sei niente, tesoro mio, niente!”
“Non vogliamo farle del male…non vogliamo…”
Mentre farneticava e si contorceva a questo modo, Gilly lo aveva raggiunto, a piccoli passi, senza fare rumore, vincendo l’esitazione e il ribrezzo, e lo aveva guardato dall’alto, invasa da una compassione quasi dolorosa. Soffriva, lo vedeva che soffriva, e l’amore per lui, in un certo modo, lo provava ancora, perciò non sopportava assistere alla sua tortura. Gli appoggiò delicatamente una mano sulla spalla madida e lui si irrigidì, drizzando il capo di scatto. Gilly lo guardò fisso negli occhi, che si volsero altrove fuggendo il suo sguardo: “Sméagol” mormorò: “Sméagol, che cos’è il tesoro?”
Le iridi dello hobbit, luccicanti nel buio, risplendettero di un brillio insano e febbrile, l’ombra di un’ossessione che lo consumava e non gli dava mai tregua: “Il Tessoro è tutto, Gilly, tutto” biascicò reverente: “Lo abbiamo preso allo hobbit grasso e ci siamo presi cura di lui. Lo abbiamo portato qui dove nessuno può vederlo e fargli del male. È bellissimo, Gilly, bellissimo…ed è nostro!”
Lei contrasse le mascelle: “È colpa sua, non è vero?” masticò tra i denti: “È lui che ti ha rovinato”.
Sméagol parve attonito: “Colpa sua?” ripeté, smarrito.
“Guarda che cosa ti ha fatto!” esclamò Gilly, furiosa: “Guarda come ti ha ridotto! Qualunque cosa sia, Sméagol, ti sta consumando, non lo capisci?! Devi liberartene!”
Lui sbatté le palpebre sugli occhi enormi e spalancati, ritraendosi leggermente e tremando nei suoi sordidi stracci.
Gilly strinse i pugni: “Dovevamo sposarci. Non lo ricordi? Tu avevi una vita al villaggio, e hai permesso a questo tesoro di distruggerla, di cancellare ciò che eri…miei dèi, Sméagol, non ne vale la pena! Non vedi dove sei finito, dove ti ha portato tutto questo? Eppure…” gli si fece incontro, deglutendo a fatica, e gli prese le mani sudicie e nodose, pelle fredda contro pelle calda, accarezzandogli le nocche con i pollici: “Eppure sei ancora in tempo per tornare indietro! Io lo so, lo vedo!”
Non stava mentendo. L’anima di Sméagol era lacerata e a brandelli, ma sapeva che con la buona volontà e la collaborazione di lui avrebbe potuto ricucirla, rimetterla insieme, che non era tutto perduto, e che nello hobbit persisteva ancora abbastanza umanità da permetterle di guarirlo. Le cicatrici sarebbero ovviamente rimaste, ma avrebbe potuto ritrovare la via, la giusta strada da seguire…e lei…sì, forse lei avrebbe potuto passare sopra a ciò che era successo, all’omicidio di cui si era macchiato, per salvarlo. In fondo, aveva messo in conto fin da subito quella possibilità. Non le era ben chiaro cosa fosse esattamente il “tesoro”, ma aveva capito che aveva, in qualche modo, traviato Sméagol, impossessandosi di lui e accentuando il suo lato malvagio…ma insieme potevano sconfiggerlo, maledizione! Insieme avevano la capacità di rimettere tutto a posto!
“Io posso salvarti, Sméagol” ringhiò, stringendo le mani che lui tentava di sottrarre, spaventato da lei, o da ciò che proponeva, o forse, chissà, proprio dal tesoro: “Lascia quella cosa e vieni via con me! Non…non ne vale la pena, te l’assicuro. Lo vedo nei tuoi occhi, cosa diventerai, e…non troverai ciò che cerchi. Ti prego, fidati di me!” gli sorrise, un sorriso disperato: “Gettalo via, disfatene…esiste un altro modo. Esiste sempre un altro modo. Quello che hai fatto a Déagol…basta pentirsene. E io lo so che sei pentito”.
No, non lo sapeva, non poteva saperlo. Ma lo sperava. Dèi, lo sperava con tutta se stessa.
Sméagol guardò il vuoto, assente, come se fosse precipitato in un limbo torbido, il bagliore verdastro svanito dai suoi occhi, i lineamenti più distesi, più umani: “Déagol…” bisbigliò a fatica, quasi non ripensasse a quel nome da tantissimo tempo: “Déagol” un sorriso gli attraversò le labbra per un attimo, un’ombra di affetto.
Gilly ci si aggrappò con le mani e con i piedi: “Tu non volevi ucciderlo, non volevi!” forse, se avesse convinto entrambi di questo, si sarebbero salvati, sarebbe andato tutto bene: “È stato il tesoro a fartelo fare, ma non eri tu!”
Lui però ha accettato i suoi consigli. Ha permesso al male di entrare.
Scosse brutalmente la testa: “Guarirai. Ti aiuterò io. Te lo giuro, Sméagol, farò di tutto…non hai bisogno di quell’orrore, qualsiasi cosa sia. Non hai bisogno di consumarti. Ricordi le nostre gare di indovinelli? E quella volta che hai cacciato per me le pernici? Ricordi tua nonna che ti insegnava a succhiare le uova? È di questo che hai bisogno!”
Lui la fissò, a metà tra il terrore e la consapevolezza, e levò un dito tremante a tracciare il contorno della sua mandibola. Mormorò, con la sua voce di un tempo: “Gilly…” e finalmente la ragazza scorse nei suoi occhi l’ombra dello hobbit buono e onesto che sarebbe potuto diventare, lo vide ritornare all’antica forma e cancellare le orribili tracce che il tesoro aveva iniziato a lasciargli addosso, tornare sano e intero, recuperare ciò che l’aveva fatta innamorare di lui.
“Sì, Sméagol, sì!” in preda alla gioia, gli buttò le braccia al collo, sicura che sarebbe riuscita a ricondurlo alla ragione, che stava tirando fuori il suo Sméagol, e le braccia ossute di lui si mossero a circondarla goffamente a loro volta.
Ma poi accadde.
Allorché si abbracciarono, Sméagol cadde all’indietro e da una tasca dei pantaloni sbrindellati uscì, ammiccando nell’oscurità, un semplice anello d’oro, un cerchietto privo di intarsi e pietre preziose che si infranse a terra tintinnando e girò più volte su se stesso, fino a fermarsi.
Gilly si distrasse, sebbene, fino ad un attimo prima, non desiderasse altro che stringersi forte a Sméagol e dimenticare quei sette anni, e si girò a guardarlo, aggrottando la fronte: “Che cos’è?”
L’anello scintillava debolmente nel buio e contrastava, con i suoi bagliori, con le pietre fredde e scivolose della caverna e con il putrido ambiente circostante come una cascata in un deserto. Si sorprese a fissarlo con intensità, suo malgrado ammirata, e le sembrò che una voce insinuante le sussurrasse all’orecchio una cantilena sconosciuta, una melodia che la spinse a scrollare il capo come se volesse scacciare una mosca fastidiosa. Si sentì insoddisfatta. Aveva atteso sette anni di godersi quell’incontro e niente era andato come si era aspettata. Anzi, a dirla proprio tutta forse non valeva la pena di fare quella fatica…per cosa? Era ancora giovane, bella e piena di energia. Cosa accidenti ci faceva in un maleodorante sotterraneo? Ma soprattutto, cosa ci faceva lì un anello così bello, così delicato e fine? Non era un posto adatto in cui custodire una simile reliquia…sarebbe stato molto più al sicuro a casa sua, lontano dalle manacce di orchi, goblin e troll.
“È bellissimo…” mormorò, trasognata, allungando una mano per raccoglierlo: “Dove l’hai…”
“NON LO TOCCARE!”
Trasalì violentemente a quell’urlo stridulo e inumano, così pieno di rabbia, avidità e possesso da terrorizzarla a morte. Il volto scarno di Sméagol si era trasfigurato in una grottesca smorfia ferale e gli occhi mandavano bagliori assassini, i denti gialli erano scoperti e baluginanti in un ringhio da belva furiosa: “Tu, sudicia, piccola hobbit…” sibilò: “Vuoi rubarci il Tessoro, maledetta ladra!”
Ogni traccia dell’umanità che aveva dimostrato per un istante poco prima era scomparsa.
La cantilena che le risuonava nell’orecchio si dissolse e Gilly batté le palpebre, frastornata, senza capire: “S-Sméagol?” balbettò: “Sméagol, io…”
“Ladra!” ruggì lui, velenoso: “Maledetta ladra! Ci hai ingannati, ci hai traditi! Volevi il Tessoro, meschina, infida, falssa hobbit!”
“No!” gemette, confusa, straziata dall’accusa che gli leggeva nella voce: “No, non è vero! Io ti amo! Volevo solo…”
Le fu addosso. Non se ne rese neanche conto, tanto egli fu veloce e fulmineo, come un serpente. Delle lunghe braccia e gambe la avvinghiarono, impedendola totalmente nei movimenti e stringendola in una morsa molle ma tremendamente forte, come se delle corde la stritolassero pian piano; dita viscide brancolarono in cerca della sua gola. Gilly boccheggiò, privata dell’ossigeno, e si dimenò come una forsennata in quella stretta letale, ma non poteva nulla contro di lui, e sentiva la pressione delle sue mani intorno al collo aumentare, il suo fiato gelido sulle guance.
No, no, no…
Provò a divincolarsi, ad affondargli il gomito nello stomaco piatto, a sfuggirgli, ma era tutto inutile.
Il Tesoro era l’anello…era l’anello… 
“Smé…agol…” rantolò: “Ti…pre…go…”
Poi, all’improvviso, l’abbraccio fatale si allentò, la morsa sulla sua gola si dissolse, e fu libera. Divorò l’aria a pieni polmoni, tossendo e contorcendosi sul suolo umido e scivoloso, gli occhi pieni di lacrime, e distinse a fatica Sméagol che, agguantando l’anello con mossa possessiva, arretrava, fissandola con un’espressione stranamente tormentata.
“Va…via…” gemette, roco.
“Và via?!” si fece eco un istante dopo, sprezzante, sferzandola con uno sguardo velenoso e omicida: “Finiscila, imbecille!”
Scosse convulsamente la testa e se la afferrò tra le mani, dimenandosi come un’anguilla, patetico e spaventoso insieme nella sua lacerante battaglia interiore: “Non ce lo farai fare, tesoro, non questo!”
“Invece lo farai, mio caro, lo farai!”
“No, no!”
“Ce lo voleva togliere, rubare! Te l’avevo detto che era falsa…te l’avevo detto che ingannava!”
“Lasciaci in pace, non sono affari tuoi!”
“Torcile quel lurido, piccolo collo…lo hai fatto una volta, puoi farlo di nuovo”.
Gilly lo fissava, agghiacciata, una mano premuta sulla gola violacea, le membra tremanti. Lui ricambiò lo sguardo, gli occhi improvvisamente limpidi e chiari, ma pieni di un terrore cieco e atavico: “Va via, Gilly!” strillò: “Va via!”
Lo fece. Il corpo agì per lei. Si alzò in piedi, ignorando le varie stilettate di dolore, e gli voltò le spalle, correndo nel buio come se avesse un demone alle calcagna, e forse era davvero così. Mentre correva, piangeva, ma non si girò indietro neanche una volta. Sapeva che non avrebbe mai più rivisto Sméagol, ma quella creatura…Gollum. La creatura che l’anello aveva soggiogato per sempre. Lo hobbit che amava, forse, era morto da tempo, fin da quando Déagol aveva smesso di respirare. E non poteva fare nulla per salvarlo. Perché lui non voleva essere salvato. Si era consegnato al suo Tesoro. E avrebbe ucciso, per tenerselo.
Scappò nella luce del sole e lo lasciò ad abitare il buio e al suo lento e inesorabile consumarsi, insieme al gioiello che chiamava Tesoro.
E che sarebbe sempre stato, per lui, il tesoro più importante.
 
Angolo autrice: Sì, ehm…qui credo di aver raggiunto la follia pura :’) mi vergogno profondamente, ma…ecco, adoro il personaggio di Gollum, il mio preferito in assoluto de “Il Signore degli Anelli” , e quest’idea mi ronzava in testa già da un po’…quando era ancora un normale hobbit, amava qualcuno e qualcuno amava lui? E questo qualcuno ha provato a ravvederlo? Così è nata questa delirante one shot che più che una one shot è un poema (ma era un tema piuttosto difficile e se glissavo troppo mi sa che veniva anche peggio di così!) che ho faticosamente scritto…ammetto di essermi affezionata molto a Gilly (a proposito, il suo nome si rifà a quello di un personaggio di Trono di spade, altra meravigliosa saga fantasy, un piccolo omaggio) e di essere terrorizzata all’idea di come mi sia venuto Gollum…è parecchio complesso e contraddittorio, spero di non averlo stravolto troppo : ) per quanto riguarda le informazioni sulla sua vita, ho cercato di rifarmi il più possibile alla versione tolkeniana, ma per esigenze artistiche ho cambiato una cosa: si dice che dopo aver ucciso Déagol, Sméagol sia tornato al suo villaggio e abbia rubato lì, per poi essere bandito e aver raggiunto, sette anni dopo, le Montagne Nebbiose… ma mi pareva un po’ strano che gli abitanti non si fossero fatti domande e poi la mia shot non avrebbe avuto senso, così ho stravolto un po’ le carte : D  
se mi fate sapere cosa ne pensate, mi fareste davvero piacere!
Intanto, un bacione a tutti!
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