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Autore: Scattered Dream    22/06/2013    5 recensioni
Tratto dalla storia:
"Dodici rose. Ognuna per ogni momento importante. Ciascuna per scusarsi di ogni giorno che aveva passato ignorando la sua presenza, rifiutando la sua compagnia. Sarebbero bastate? No, avrebbe potuto vivere altre cento vite e ancora non si sarebbe meritato il suo perdono."
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Bryce Whitingale/Suzuno Fuusuke, Claude Beacons/Nagumo Haruya
Note: Nonsense, OOC | Avvertimenti: nessuno
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 [Non posso chiedere perdono. Non ora. Non adesso.
Non in questa vita.]
 

 

Dodici rose. Ognuna per ogni momento importante. Ciascuna per scusarsi di  ogni giorno che aveva passato ignorando la sua presenza, rifiutando la sua compagnia. Sarebbero bastate? No, avrebbe potuto vivere altre cento vite e ancora non si sarebbe meritato il suo perdono.
Anche dopo cinquantotto anni, si ricordava il suo nome. Una parola che le sue labbra amavano pronunciare, ma che erano rimaste serrate troppe volte. Per orgoglio, per stupidità, e chi l’avrebbe mai saputo?
Si sedette sull’erba ancora umida a causa dei residui di rugiada, nonostante le sue ginocchia, per quanto allenate, fossero pur sempre quelle di un’ottantenne, e reclamavano ad ogni movimento. Stette a fissare la fredda pietra che gli stava davanti, mentre un’altra nebbiosa giornata autunnale stava iniziando, e i tiepidi raggi del sole illuminavano timidi quel posto desolato. L’inverno era alle porte, e gli uccelli avevano smesso da qualche settimana di cantare, rendendo ancor più silenzioso quel luogo che pareva dimenticato dagli uomini e dal cielo. Perché ci era andato? Forse per parlare un po’. Già, per parlare, per implorare, per pregare. Ma a chi avrebbe rivolto le sue parole? Alla fredda pietra? Alle nuvole? Le avrebbe urlate al vento nella speranza che giungessero, prima o poi, alle sue orecchie? Non ne aveva proprio idea, sapeva solo che aveva tante cose da dire,troppe. A pensarci bene, doveva colmare il vuoto di una vita passata  in silenzio.
Era strano però, come gli fosse venuta quella voglia improvvisa di aprire il suo cuore dopo tutto quel tempo. Dopo anni e anni passati ad innalzare muri intorno al suo cuore, convinto che quello fosse il modo giusto di reagire alle ferite della sua anima. Vivere chiusi in se stessi è come non vivere affatto. Era stato un egoista a pensare di essere l’unico al mondo che soffriva.
-Mi è venuta voglia di stringerti la mano, di sentire il calore della tua pelle riscaldare le mie mani congelate- sussurrò, notando che, nonostante gli anni, la sua voce era rimasta calma e fredda come un tempo. Non ci aveva mai veramente fatto caso, nonostante quella fosse la sua voce. Notò anche, rassegnato, che pronunciare frasi sdolcinate gli riusciva ancora difficile, e quindi convenne che, se non voleva farsi venire le carie ai denti, era meglio se limitava al minimo indispensabile le smancerie.
 

-Hai le mani di un morto, Fuu-chan-
-Sei tu che sei troppo caldo, Tullinuvoletta-
 

 
 

-Sai, ora che sei così lontano, mi riesce difficile prenderti per il culo, non so veramente come fare, sarebbe più comodo se tu tornassi anche solo per cinque minuti- già, avrebbe dato tutto il mondo pur di riaverlo vicino per qualche minuto ma, naturalmente, dirlo così schiettamente gli avrebbe fatto venire il colesterolo, e quindi aveva deciso di dirglielo in quel modo, sicuro che, ovunque lui si trovasse, avrebbe capito lo stesso il vero significato di quelle parole.
 

-Lo sai che quando si spengono le candeline bisogna esprimere un desiderio, perché non l’hai fatto?-
-Non mi andava-
-Sei il solito noioso-
-Vorrei che tu sparissi, sai, così il mondo avrà una rottura di scatole in meno-

 

 

Guardò il suo riflesso tremolante in una pozzanghera li vicino. Vide un povero vecchio scemo che parlava ad una tomba. Osservò la rete di rughe che circondava gli occhi azzurri, inespressivi per natura, e la pelle candida come la neve che presto sarebbe scesa dal cielo. Il riflesso si iniziò a trasformare, diventando via via più giovane, e lui rivide se stesso a cinquanta, quaranta, trent’anni, rivide l’attaccante della nazionale della Corea del Sud, il capitano insensibile della Diamond Dust, il bambino seduto in un angolo dell’orfanotrofio, e poi si rivide di nuovo vecchio e stanco, seduto sull’erba a guardare assorto il proprio riflesso nella pozzanghera.

-Le scelte che ho fatto sono state tante, ma erano quasi sempre sbagliate, e pago ancora adesso le conseguenze che ne derivano. Sono stanco, Nagumo, tanto stanco- disse sospirando, mentre si stropicciava gli occhi con una mano rugosa, cercando di scacciar via il sonno improvviso che lo aveva assalito. Un po’, del resto, se lo aspettava, visto che non aveva chiuso occhio tutta la notte pensando se gli convenisse o meno andare a trovare il suo vecchio, caro, amico. Improvvisamente, si ricordò di una cosa, e dalla busta bianca posata alla sua destra tirò fuori un pallone da calcio. Vecchio, sgangherato, pieno di ricordi.
-Avevo in mente di regalartelo per il tuo compleanno, ma poi ci siamo lasciati, o meglio, me ne sono andato, e non ho più avuto occasione per dartelo. Te lo ricordi? E’ proprio il primo pallone con cui abbiamo giocato a calcio, quello che mi hai tirato in faccia per sbaglio- si rigirò la palla tra le mani, ripensando a quanto si fosse incavolato quando gli era arrivata dritta sul naso, e a come aveva tentato di uccidere Haruya. La tenne ancora un po’ tra le mani, poi allungò le braccia e la posò ai piedi della lapide.
 

-Se ti prendo!-
-Non l’ho fatta apposta, è stato un incidente!-
-Uno scoiattolo avrebbe una mira migliore della tua-
-Stai zitto che tu hai le manie omicide! E poi gli scoiattoli sono teneri!-
 

 -Essermene andato, questa è stata sicuramente la scelta più sbagliata della mia vita- sussurrò piano, quasi temesse ci fosse qualcuno che stava origliando dietro  un albero. Cinquantotto anni prima, aveva lasciato Nagumo perché era geloso. Già, lui, Suzuno Fuusuke, geloso. Aveva paura che il tulipano lo stesse tradendo con Maki, e quindi, una bella mattina, se ne era andato, e non era più tornato, tagliando tutti i ponti con il rosso. Naturalmente, quest’ultimo non venne mai a sapere la vera ragione del perché lui avesse deciso di escluderlo dalla sua vita.

-Fuusuke, si può sapere che ti è preso? Andarsene via così..-
-Non abbiamo più niente da dirci, se me ne sono andato ho le mie buone ragioni-
-Dimmene una, allora-

-No-
-Ho il diritto di saperlo, Suzuno-
-Io….Non ti amo più-

 

 

-Ti chiedo scusa- disse, questa volta parlando a voce alta, quasi urlando. Lo aveva lasciato basandosi solo su un suo dubbio, per giunta assolutamente infondato, gli aveva detto di non amarlo quando era stata l’unica persone a cui avesse voluto veramente bene, anche a distanza di cinquantotto anni, lo aveva ferito, lo aveva fatto stare male, ma aveva bisogno del suo perdono, lo desiderava, lo voleva con tutte le sue forze.
Improvvisamente, le energie gli vennero a mancare, e sentì che la stanchezza prendeva il sopravvento. Prima di addormentarsi vide i raggi del sole che trapassavano i nuvoloni grigi, illuminando il cielo, e sentì il profumo intenso delle rose posate sulla tomba. Quella, fu l’ultima volta che vide la luce.
 
 

Ti perdono.
 

 

Una voce, impercettibile, risuonò nella stanza bianca in cui si trovava. Un leggero sorriso gli increspò le labbra. Avrebbe riconosciuto quella voce tra mille.

Ti perdono.

 
-Perché?- domandò, lasciando che la sua voce rimbombasse forte tra le pareti della camera.

 
 

Perché finché si ama, si perdona.

 
 

-Ti amo- disse, stavolta più piano, per paura che quel sogno straordinario finisse improvvisamente, così com’era iniziato. Le pareti intorno a lui iniziarono a brillare sempre di più, e poi, dal nulla, comparve la figura giovane e atletica di Nagumo che, sorridendogli, gli tendeva la mano.
-Sei giovane- constatò, leggermente confuso. Haruya scoppiò in una fragorosa risata, e gli fece un cenno con la testa, invitandolo a specchiarsi in uno specchio apparso dal nulla. Suzuno si avvicinò e, con sua grande sorpresa, notò che anche lui era ridiventato il quindicenne  di molti anni prima, lo stesso che correva  felice dietro ad un pallone. In quel momento, capì che non si trattava di un sogno. Era giunto alla fine del suo viaggio e, stranamente, era contento, si sentiva il cuore leggero. Afferrò con sicurezza la mano ancora tesa del rosso poi, insieme, sparirono oltre uno dei muri luminosi, mano nella mano, lasciando che l’eco delle loro risate riempisse la stanza ormai vuota.
 

 

[Amare non significa trovare la perfezione,
ma perdonare terribili difetti.
Cit. Rosamunde Pilcher]

  
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