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Autore: Shallation    23/06/2013    2 recensioni
Dall’Inno a Iside:
“Io sono Colei che dà alla luce e Colei che non ha mai partorito,
Io sono colei che consola dei dolori del parto.”
Genere: Drammatico, Introspettivo, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
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“Seconde Madri” è pensato come una serie di racconti incentrati sulla figura dell’ostetrica nelle diverse epoche storiche. E’ un viaggio fatto di storie di donne: donne ribelli, indipendenti, oltraggiate, uccise, rispettate o disprezzate, ma comunque sempre donne che lottano e sostengono le altre donne.
Vi chiedo di aprire il cuore a queste storie e lasciarvi coinvolgere da questi fugaci sprazzi di vita.
Buona lettura!
Glo

 
 
 
Alessandria d’Egitto,  2954 a.C.

 
Il vento del deserto soffiava leggero nella notte afosa, l’aria pesante come una coltre rendeva difficoltoso il respiro di chiunque avesse deciso di sfidare le tenebre avventurandosi per le strade della città addormentata.
 
Niobe chiuse leggermente la porta di casa dietro le sue spalle e si strinse addosso lo scialle scuro che le copriva i capelli e le spalle, nonostante il caldo il suo corpo fragile era scosso da leggeri brividi mentre avanzava lungo la strada impolverata.
Alzò il viso solcato da una sottile ragnatela di rughe verso il cielo notturno da dove la luna, ormai piena, spandeva la sua pallida luce sulla terra dei faraoni.
 
“Stanotte il dio Thoth rischiara il sentiero delle serve di Heket”penso tra se Niobe “in notti come questa il confine tra la vita e la morte è labile come il destino degli uomini”
 
Zoppicando leggermente con la gamba destra si diresse verso un’abitazione bianca e bassa dall’altra parte della strada di terra battuta, che tagliava a metà le case come una cicatrice sulla pelle altrimenti integra.
Dalle finestre scavate nella parete giungeva il debole chiarore delle lampade ad olio e i suoni soffocati di passi che percorrevano su e giù le piccole stanze.
 
Nell’avvicinarsi alla porta d’ingresso Niobe rivolse una preghiera a Heket, sua dea e guida, come faceva sempre prima di entrare nella casa di una partoriente.
 
“Divina Heket, giuda i miei passi lungo il cammino della vita, sorreggi la mia mano e rischiara la mia mente. Ogni mio gesto sarà una preghiera a te Divina Ostetrica.”
 
E tratto un respiro profondo entro socchiudendo piano la porta. Dentro stava una donna di qualche anno più giovane di lei con i capelli scuri coperti da uno scialle aranciato, la  veste spiegazzata e sul viso un’espressione preoccupata, che si aprì in un ampio sorriso non appena vide l’anziana donna:
 
“Niobe, grazie alla dea sei arrivata! Presto, Ima è in camera, sta soffrendo e io non so cosa fare, mi distrugge vedere la mia bambina in quello stato”
 
Senza proferire parola Niobe posò velocemente una mano sulla spalla della donna di fronte a lei e la strinse con energia mentre la superava per recarsi al capezzale della giovane nell’altra stanza.
La trovò con la schiena appoggiata contro il muro, la testa abbandonata pesantemente all’indietro, il viso arrossato e sconvolto dal dolore.
Accanto alla partoriente era accovacciata Hamida, una neofita tra le figlie di Heket, che Niobe aveva preso sotto la propria ala protettrice, per insegnarle l’arte dell’ostetricia.
 
Mentre osservava la giovane che inumidiva il viso sudato di Ima con una pezza intrisa d’acqua Niobe rivide per un attimo se stessa a quell’età, un ricordo lontanissimo, un’altra vita, un’altra se, prima che la sua esistenza cambiasse per sempre…
 
 

Niobe correva a perdifiato attraverso le dune di sabbia finissima che le ustionava la pianta dei piedi scalzi, correva e il Ghibli scompigliava i suoi lunghi capelli scuri, strattonava la veste bianca accecandola.
La sensazione del proprio corpo libero di muoversi nel sole, della forza che sprizzava da ogni muscolo le dava un’euforia immotivata ed eccitante, tanto che le venne voglia di urlare al cielo.
E lo fece, Niobe urlò a squarciagola con il viso rivolto verso le nuvole bianche che macchiavano l’altrimenti azzurrissimo cielo egizio.
 
Era felice Niobe, giovane e spensierata… innamorata.
 
Correndo raggiunse una palma solitaria ai confini dell’oasi dove abitava la sua famiglia insieme con altri nuclei famigliari che avevano eletto quel piccolo paradiso in mezzo al deserto loro dimora.
Niobe sapeva che disteso sotto quella palma, la schiena appoggiata al tronco ruvido e le gambe mollemente allungate nella sabbia la aspettava l’uomo che un giorno sarebbe diventato il suo sposo, il giovane che le aveva rubato il cuore, Amir.
 
Man mano che si avvicinava all’albero il cuore della giovane cominciò a battere sempre più forte, un brivido di anticipazione le chiuse la bocca dello stomaco mentre rallentava il passo per non essere sentita.
 
Come spesso accadeva Amir si era addormentato mentre l’aspettava, perciò Niobe potè godere per un attimo della visione inebriante del volto dell’amato disteso nel sonno, i ricci scuri gli sfioravano le guance, mentre le ciglia lunghissime e nere gettavano ombre sugli zigomi pronunciati dalla pelle ambrata e perfetta.
 
Silenziosamente si accovaccio nella sabbia avvicinando il suo viso a quello del giovane, ma prima che potesse sfiorarlo Amir aprì di scatto gli occhi trapassandola con in suo sguardo ambrato:
 
“Baxiss” la salutò con un sorriso carico di promesse mentre allungava la sua mano per avvicinare i loro visi in un casto bacio.
 
“Baxiss a te” risposte la ragazza puntando gli occhi d’ossidiana in quelle iridi screziate e catturando nuovamente le sue labbra per un nuovo bacio, più profondo e denso di desiderio.
 
Niobe seguì il profilo delle labbra del giovane con la punta della lingua per saggiarne il sapore e portarlo ad aprirle leggermente permettendo così alla sua lingua di venire a contatto con quella di Amir. La danza delle loro lingue intrecciate diventò sempre più frenetica mentre le mani cominciarono ad accarezzare i corpi dei due amanti cercando un contatto più intimo.
 
Niobe amava mordere leggermente il labbro inferiore del giovane per strappargli un gemito roco che la faceva sempre sentire potente e desiderata, e così fece anche quella volta come innumerevoli altre volte.
 
La risposta di Amir non si fece attendere, gemette nella sua bocca risucchiandole l’aria nei polmoni e annebbiandole il cervello.
Fu lui a interrompere il bacio scostando le labbra dalle sue, ma tenendo comunque la fronte premuta contro quella della ragazza, una mano stretta tra le lunghe ciocche corvine, nelle narici il leggero sentore di mirra di lei.
 
“Mi sei mancata Sheryt” Piccola, era così che la chiamava. Niobe sorrise nell’udire quella confessione, mentre il vuoto alla bocca dello stomaco minacciava di inghiottirla.
 
Incapace di rispondere si distese nella sabbia appoggiando il viso contro il suo petto mentre le sue braccia la circondavano e finalmente la giovane potè rilassarsi.
 
Era giunta a casa.
 


 
 
 
“Venerabile, credo che manchi poco” la voce di Hamida la riscosse dai suoi pensieri.
 
Con un gesto stizzito l’anziana donna interruppe il discorso della giovane:
 
 “Ti ho ripetuto più volte di non chiamarmi Venerabile, quel titolo spetta solo alla divina Heket, io sono Niobe, semplicemente Niobe” e sottolineò l’avvertimento con uno sguardo duro.
 
“Mi scusi Ven… Niobe, dicevo che credo stia per nascere, i dolori si fanno più intensi e la voglia di spingere aumenta” riprese la giovane imbarazzata sfuggendo lo sguardo della maestra.
 
“Credere non ha alcuna importanza, ci sono dei segni che possono dirtelo con certezza ed è tuo dovere ricercarli” la voce era dolce ma ferma, tipica di una donna abituata ad essere obbedita.
 
Sollecitata dalla donna Hamida si mise all’opera, si alzò in piedi e tendendo la mano alla Ina le sussurò gentilmente:
 
“Forza cara, proviamo a metterci in piedi, in quella posizione il dolore si farà sempre più insopportabile, mentre se provi a camminare o ad accovacciarti potrebbe andar meglio” il suo sorriso dolce aveva il chiaro intento di tranquillizzare la giovane ormai in preda al panico.
 
“Non posso farcela Hanida, non ci riesco sono troppo debole” il terrore velava chiaramente la sua voce “questo bambino non vuole uscire!”
 
“Ma certo che vuol nascere, il dolore che senti ti dice chiaramente questo: tra poco avrai tra le braccia la tua creatura e il dolore sarà solo un ricordo lontano”
 
Ascoltando i sussurri delle due giovani donne Niobe ritornò nuovamente con la mente al passato, ultimamente le capitava sempre più spesso, soprattutto nelle notti di luna piena come quella.
 
 
“Assistere le donne nel momento del parto è un’arte antica giovane Niobe” la voce della Sua maestra era sempre solenne e profonda, era la voce di una donna saggia come il deserto stesso.
 
“Noi, serve di Heket, mettiamo la nostra esistenza al servizio della Vita, la guidiamo nel suo manifestarsi terreno, la culliamo non appena l’impatto con questo mondo le spezza il fiato, per poi affidarla alle cure di coloro che l’hanno generata.” parole cariche di infiniti echi e significati giungevano alle orecchie vigili della giovane.
 
“Assistendo le madri nel mettere al mondo i loro figli diventiamo noi stesse madri”
 
Niobe conosceva già le parole che sarebbero seguite perché le ripeteva sempre dentro di se come un mantra
 
“Seconde Madri”
 

 
Hamida ora stava toccando con entrambi i palmi delle mani il ventre teso della partoriente e mentalmente contava.

 
“Quando il momento si avvicina i dolori diventano più forti e regolari, bisogna contarli per capire” la Maestra sapeva insegnare con pazienza e forza.
 
“Se osservi la natura della donna potrai vedere come appare rigonfia, chiaramente spinta dall’interno” e nel parlare indicava.
 

Hamida si era inginocchiata davanti a Ina che ora stava seduto su un basso sgabello a gambe divaricate e le osservava i genitali.
 
“Forza Ina ci siamo quasi”
 
 

“Toccando con la punta dell’indice e del medio potrai sentire la testa del bambino, allora sarà il momento di aiutare la donna a spingere”

 
 
“Cara, sento i capelli del tuo piccolo, ora è importante che ti impegni con tutte le forze a spingere, cerca di ascoltare il tuo corpo e il tuo bambino, fatti guidare da lui, lasciagli dettare il ritmo”
 
“Mi sento così inutile Hamida, non riesco a far nulla di buono, sono un fallimento”
 
 
Inutile.
 
 
Quella parola scuscitò un nuovo flusso di ricordi nella mente di Niobe.
 
 
 

“Sei una donna inutile!” Amir le urlava contro in preda a una furia omicida, Niobe lo guardava a bocca aperta incapace di riconoscere il volto che amava in quei lineamenti sconvolti dall’ira.
 
“Sei una completa delusione!” ogni parola si abbatteva su di lei come un macigno scagliato dall’alto, le spaccava le ossa, lacerava la carne, toglieva il respiro.
“Cosa dovrei farne di te? Rispondimi!”
 
“Non.. non” le parole faticavano a lasciare le labbra tremanti di Niobe in preda al terrore “io non posso farci nulla. Non è colpa mia!”
 
La giovane lottava contro le lacrime che minacciavano di sgorgarle come il Nilo dagli angoli degli occhi.
Non voleva dargli la soddisfazione di vederla piangere, non voleva umiliarsi ulteriormente davanti a lui, questo sconosciuto furioso in cui si era trasformato il suo sposo.
 
“E’ colpa tua! Gli dei ti puniscono per come ti comporti, ti puniscono perché sei una donna ribelle, incapace di capire quale sia il tuo posto nel mondo, incapace di ubbidire… incapace di servire!” Amir parlava con astio, gli occhi fuori dalle orbite, lo sguardo di un folle albergava nelle iridi ambra che Niobe aveva imparato ad amare.
 
“Perché parli così? Amore mi, perché?” la giovane fece un ultimo disperato tentativo, allungò una mano tremante per sfiorare il viso del suo uomo.
Prima che le loro pelli venissero a contatto il giovane le afferò il polso in una morsa ferrea.
“Non osare toccarmi, Maledetta!” la voce rotta dalla rabbia mal repressa “non mi trascinerai con te, non sprecherò il mio seme in un campo arido!”
 
Dicendo questo la spinse con forza finchè la donna non cadde a terra con un tonfo.
Dal basso Niobe fissava con gli occhi sbarrati il suo aguzzino, un topolino del deserto braccato dal falco predatore.
Per sfuggirli indietreggiò con le braccia e le gambe, trascinandosi sul pavimento di terra battuta, con uno scatto fulmineo cercò di rimettersi in piedi per scappare, ma il suo slancio venne fermato a metà strada.
Amir l’aveva afferrata per i capelli e ora la trascinava per terra mantenendo la presa, Niobe poteva sentire le ciocche di capelli strapparsi dolorosamente dalla cute.
Con un gesto disperato si aggrappò al braccio che la torturava, conficcò le unghie nella carne, graffiò ogni centimetro di pelle con cui riusciva a venire a contatto nel vano tentativo di liberarsi.
 
“Cerchi di ribellarti ancora cagna?” parole come lame affilate le piovevano nuovamente addosso “Ora ti insegnerò l’obbedienza”
 
L’intero mondo di Niobe si frantumò in mille schegge insanguinate mentre Amir si accaniva sul suo corpo con calci e pugni come grandine.
 
Sangue, il mondo di Niobe ora aveva il colore del sangue mentre si rannicchiava in posizione fetale sul pavimento cercando di proteggersi la testa e il ventre dalla furia di colpi dell’uomo.
 
Niobe sentì distintamente lo schiocco di un osso che si rompeva, poi l’oscurità la inghiottì sottraendola dal dolore.
 
 

 
 
“Non così Ina, spingi solo quando ne senti il bisogno e cerca di riprendere fiato mentre il dolore svanisce. Il tuo corpo si deve prendere il tempo di distendersi e prepararsi, la pazienza sarà la tua migliore compagna stanotte”
Niobe si era avvicinata alla sua allieva ed ora la sosteneva nell’assistenza compiendo gesti antichi che le serve di Heket si tramandavano di generazione in generazione fin dalla notte dei tempi.
Ora lei cercava di trasmetterli alla giovane Hamida, come la sua Maestra li aveva donati a lei tantissimo tempo prima.
 
La Maestra, era stata lei a salvarla ed accoglierla quando suo marito l’aveva ripudiata.
L’aveva trovata gettata per terra non lontano dalla palma che aveva vegliato la nascita dell’amore tra lei ed Amir, il volto una maschera di sangue rappreso, lividi scuri che sbocciavano su tutto il corpo e la gamba destra piegata in una posa innaturale sotto il corpo.
 
La Maestra l’aveva accolta in casa sua incurante delle sue proteste:

 
“Lasciami qui, lasciami morire, sono inutile, una donna finita, una vita sprecata, un guscio vuoto, inservibile!”
 
“Non temere She..”
 
“Non chiamarmi così, da oggi sarò Niobe, solo e per sempre Niobe, ogni altro appellativo mi sarà sconosciuto, non sono più sposa, non sarò mai… madre.”
 
“Va bene.” assentì la donna con un cenno del capo “Come preferisci, Niobe.”
 
“Se vorrai potremo ridare un senso alla tua vita, rinascerai, troverai una nuova ragione per vivere, non per te stessa, chi vive solo per se stesso dispiace agli dei.” le parole della Maestra sembravano lenire il corpo e l’anima di Niobe come un balsamo.
“No, tu vivrai per aiutare gli altri, vivrai per le donne che soffrono”
 
 

E Niobe era rinata davvero, si era unita alle figlie di Heket, aveva consacrato la propria esistenza al servizio della Vita ed ora perpetuava la memoria della Maestra in ogni gesto quotidiano.
 
Un urlo squarciò la notte serena di Alessandria D’Egitto, Ina urlava la propria sofferenza mentre sui figlio veniva al mondo sotto gli occhi del dio Thoth, della divina Heket e delle sue serve.
Niobe afferrò il coltello d’ossidiana per recidere il funicolo che univa la madre e il piccolo, la prova tangente di quando due destini potessero essere legati.
 
“Vuoi farlo tu Hamida?” chiese con dolcezza guardando la giovane ancora inginocchiata di fronte alla donna.
“Si Niobe, te ne prego” e dicendo questo afferò la lama che l’anziana le tendeva.
“Ora sei anche tu una seconda madre”
 
 
 
Mentre Niobe imboccava la strada di casa il cielo cominciava a tingersi di viola, mentre il sole riprendeva gradualmente il proprio posto nel cielo ponendo fine a quella lunga notte.
Camminando la donna se strinse brevemente la gamba destra, che sempre prima dell’alba doleva ricordandole inesorabilmente il proprio passato.
Ripensando agli eventi di poco prima un sorriso leggero si aprì in quel volto grinzoso in cui  brillavano ancora occhi d’ossidiana.
 
Un pensiero fugace le si disegnò nella mente:
 
Niobe non aveva potuto avere figli.
 
Niobe era madre di centinai di bambini.
 
 
 
 
 
Dall’Inno a Iside:
 
“Io sono Colei che dà alla luce e Colei che non ha mai partorito,
Io sono colei che consola dei dolori del parto.”
 
 

 

 
 
  
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