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Autore: MartixHedgehog    23/06/2013    2 recensioni
In questa storia Sonic è un giovane riccio di dodici anni che corre per cercare libertà e solitudine: libertà da un mondo crudele e opprimente in cui regna la legge del più forte; solitudine da uno zio un po' strampalato e soprattutto da dei coetanei che lo maltrattano e con cui non è mai entrato in sintonia. Ma la sua vita cambia quando nella valle dove abita arriva un altro riccio che potrebbe essere suo fratello da tanto gli somiglia, con quel pelo turchese e i suoi luminosi occhi azzurri... che però, a differenza sua, è costretto su una sedia a rotelle. Un riccio che non può correre, che non potrà mai assaporare quel vento di libertà che tanto gli piace inseguire. Un riccio così diverso da lui che non potranno mai intendersi, pensa Sonic. E invece ben presto tra i due nasce qualcosa: un'amicizia profonda, che saprà insegnargli che esistono tanti modi di correre, e che anche chi non ci riesce può imparare a sognare, a vivere, a trovare la felicità.
Genere: Angst, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro Personaggio, Sonic the Hedgehog
Note: Otherverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 1
In cui un giovane riccio riprende la scuola


Incontrare un dodicenne che detesti andare scuola, si sa, è una cosa tutt’altro che rara. Il giovane Sonic, però, sapeva che il suo ribrezzo per la scuola non era una semplice antipatia dovuta alla poca voglia di studiare: lui odiava la scuola dal punto più profondo del suo cuore; o meglio: odiava chi ci stava dentro.
Non tanto i professori: quelli erano snervanti e fastidiosi finché voleva, chi più e chi meno, ma tutto sommato erano sopportabili. Il problema erano i suoi compagni, quegli odiosi, maleducati e irritanti venticinque studenti di seconda media con cui, con suo immenso disappunto, ormai da un anno era costretto a convivere per cinque ore al giorno.

«Coraggio, nipote, stai dritto con la schiena! Non sei contento di ritornare a scuola?»

«Devo proprio risponderti, zio Chuck?»

Sonic camminava a testa bassa, rimuginando su pensieri non propriamente felici: pensava a quello strumento di tortura che era la sua sveglia, e che quella mattina lo aveva buttato giù dal letto controvoglia. Pensava a quanto sarebbe stato faticoso alzarsi a quell’ora tutte le mattine da quel giorno di inizio settembre fino a metà giugno. Ma soprattutto pensava a cosa gli sarebbe toccato una volta varcato il cancello. E inevitabilmente, come gli accadeva all’inizio di ogni anno scolastico fin dall’alba dei tempi, si chiedeva chi mai, in tutta Mobius, si fosse svegliato una bella mattina e avesse deciso che “I bambini devono andare a scuola”… e soprattutto a chi avesse decretato che bastavano soltanto tredici settimane per riprendersi da quell’incubo.
I tre mesi precedenti, manco a dirlo, erano stati a dir poco meravigliosi: niente compiti, niente compagni, niente insegnanti. Solo prati verdi su cui consumare le scarpe farsi venire i calli a furia di correre, e pacchia assoluta e totale. Peccato che, come tutte le cose belle, sembrassero fatti apposta per durare troppo poco.

«Io alla tua età non vedevo l’ora! Sprizzavo sempre felicità da tutti i pori… sembravo una cavalletta impazzita!»

Nel giro di un nanosecondo, la mente di Sonic elaborò una rispostaccia che suonava circa: Se fossi una cavalletta, almeno potrei rinchiuderti in un vaso, oppure schiacciarti direttamente: così non dovrei sopportare i tuoi stupidi commenti. Però poi si morse la lingua e optò per un più educato:
«Non stento a crederlo.»

Non gli sembrava carino trattare suo zio con gli stessi metodi che riservava ai suoi compagni: in fondo era pur sempre il fratello del suo defunto padre, ovvero l’unico legame con la sua famiglia. Ricacciò indietro le lacrime, mentre i volti dei suoi genitori gli comparivano davanti agli occhi ogni volta che abbassava le palpebre.
Mamma non avrebbe mai permesso che mi trattassero così, quei… quei…, si ritrovò a pensare, come gli capitava tutte le volte che si dirigeva verso l’edificio che più odiava al mondo. Sentiva di disprezzarli così tanto che nell’intero dizionario non era riuscito a trovare una parola sufficientemente brutta per descriverli appieno.

Chissà se faccio ancora in tempo a svignarmela…, pensò guardandosi attorno con aria disperata. No, suo zio non gliel’avrebbe mai lasciato fare, e purtroppo era tardi per fingersi ammalato e rimanere al sicuro sotto le sue coperte: il cancello che racchiudeva il cortile della scuola, già pieno delle più svariate specie di cuccioli insieme ai rispettivi genitori, nonni, zii, cugini e chi più ne ha più ne metta, si stagliava proprio davanti a loro.
Ora o maipiù, si disse, arrancando sotto il peso dello zaino.

«Ehm, zio Chuck… mi sono appena accorto che ho lasciato la merenda a casa! Se mi lasci andare a prenderla torno qui in un nanosecondo, giuro!», buttò lì, facendo per liberarsi dalla mano dello zio, saldamente ancorata alla sua (forse per paura di una sua fuga?), e tornare sui suoi passi.

«Hahaha, figliolo, stai tranquillo! Conoscendoti, di sicuro avevi così tanta fretta di ritornare a scuola che sei uscito di casa senza ricordartene!», ridacchiò lo zio Chuck, stringendogli con maggior forza il braccio per evitare che il suo energico nipotino sfuggisse dalla sua presa e corresse via a tutta velocità come sua abitudine.

«Ma non preoccuparti! Eccoti qua un panino di riserva: così potrai saziare il tuo appetito stimolato dalle eccitanti nozioni che apprenderai quest’oggi!»
Così dicendo, tirò fuori da chissà dove un involucro di carta stagnola lungo e sottile e glielo infilò nello zainetto. Poi continuò a parlare a vanvera a un imbronciato Sonic, che non aveva nessuna voglia di starlo ad ascoltare.

«Ah, nipote, se non ci fossi io a pensare a te, adesso chissà dove saresti finito! Probabilmente vivresti sotto un ponte e addestreresti una troupe di scarabei stercorari ginnasti per passare il tempo e guadagnare qualche soldo!»

Sarebbe comunque meglio della scuola, rifletté Sonic, chiedendosi però al contempo che diavolo contenessero i libri che suo zio leggeva per inventarsi cose tanto assurde – e stomachevoli.
Chuck, però, si accorse che Sonic, riluttante a farsi trascinare all’interno del cancello, tendeva a rimanere indietro.

«Ehi, nipote, che succede? Non sarà mica ansia da primo giorno, eh?», gli domandò, mentre lo spingeva in avanti controvoglia.

«Ansia da primo giorno? Macchè…», rispose Sonic, ridacchiando nervosamente. «È solo che non sto tanto bene, mi sento debole… Chissà, magari sto prendendo l’influenza… Etciù!»

Per sembrare più convincente, finse uno starnuto, ma Chuck non si lasciò ingannare da quella blanda recitazione.
«Se sei così debole, come mai non riesco quasi a trascinarti con me?», sogghignò, accennando al fatto che il giovane riccio avesse puntato a terra i piedi e che lui riuscisse a malapena a smuoverlo dalla sua postazione.

«Be’, ecco…», mormorò Sonic, sforzandosi di elaborare una scusa convincente, ma a quanto pareva suo zio era convintissimo a mandarlo al patibolo.

«Coraggio, figliolo, vedrai che andrà bene», cercò di tranquillizzarlo Chuck, e Sonic fremette appena vedendo quanto il suo sorriso gli ricordasse quello di suo padre. «Cosa vuoi che sia una mattinata di scuola per un giovanotto in gamba come te?»

Gli tirò un affettuoso buffetto su una guancia, che lo fece sorridere appena, anche se in modo poco convinto.

«E poi non dimenticare che sei mio nipote! Avanti, fatti forza e stendili tutti!»
È facile dirlo!, rabbrividì Sonic.
Suo zio era riuscito a farlo entrare all’interno del cortile… o della prigione, come era solito chiamarla: ormai era tardi per tornare indietro, si disse. Poteva solo avanzare, e sperare di uscirne vivo.
La campanella che segnava l’inizio d’anno suonò proprio in quel momento, e Chuck gli lasciò la mano e lo spinse in avanti con dolcezza.

«È ora di andare, ragazzo», lo incoraggiò, mentre Sonic si guardava intorno spaesato. Una massa informe composta da studenti dagli undici ai tredici anni si incolonnò verso la porta d’ingresso della scuola, e il riccio notò che erano quasi tutte facce nuove. Probabilmente si trattava dei primini che, incuranti di quello che li avrebbe attesi al di là di quelle mura, si erano precipitati in prima fila forse per sperimentare fin da subito tutte le novità della scuola media.

Poverini, non sanno cosa li aspetta, pensò tremando. Si ricordava bene di quanto, appena un anno prima, era passato anche lui in prima media, e che una volta tanto era tornato a scuola dopo le vacanze con almeno un pizzico di voglia di scoprire che cosa le medie avevano di diverso rispetto alle elementari. Una volta che aveva scoperto quale inferno si celasse dentro a quell’edificio, però, aveva cambiato opinione. Radicalmente.
Ti prego, non farmi tornare lì dentro!
Non sapeva nemmeno lui a chi era rivolta quella preghiera silenziosa. Sperava soltanto che qualcuno l’ascoltasse. Doveva pur esserci qualcuno in ascolto, no?

«Coraggio, nipote», ripeté Chuck, con somma delusione di Sonic: evidentemente quel qualcuno non era suo zio. «Ricorda quel che ti ho detto: puoi stenderli tutti, se vuoi!»
Sonic annuì. Presto o tardi gli sarebbe toccato.
Si stacco definitivamente dalla mano dello zio senza voltarsi indietro, come un eroe che sta per entrare nella caverna maledetta da cui nessuno è uscito vivo, e si accodò alla colonna di studenti che stava avanzando lentamente verso l’antro oscuro… pardon, verso l’entrata della scuola.

Stenderli tutti. Poteva farcela, sì.
Chissà, magari durante l’estate i suoi compagni avevano messo giudizio e avevano capito che nessuno maltratta Sonic Hedgehog senza subirne conseguenze… Chissà? Del resto, peggio dell’anno precedente non sarebbe potuta andare… forse.
 
Come avrebbe realizzato meno di tre minuti dopo, ovviamente la sua era una speranza vana.

*      *      *

Prese un bel respiro ed entrò nell’aula che recava sullo stipite la scritta “2^B”, preparandosi alla calorosa accoglienza che gli sarebbe inevitabilmente toccata dopo aver varcato quella soglia.
Si accorse che, come al solito, Jack il camaleonte era appostato sullo stipite della porta, perfettamente mimetizzato, tanto che si riusciva a distinguere la sua silhouette solo grazie alla pupilla color verde evidenziatore che si muoveva ogni tanto, tradendo la sua presenza. Il palo perfetto, rifletté Sonic: silente, immobile e soprattutto invisibile, tanto che in un intero anno scolastico i professori non si erano mai accorti dell’animaletto appostato sulla porta per avvisare i compagni di un eventuale pericolo.

«Ehi, guardate chi è arrivato! Ma è il nostro puntaspilli!», esclamò una voce, prima ancora che riuscisse a posare la suola all’interno della classe. Questa volta non si era sbagliato, e per giunta si trattava di una voce che, per sua sfortuna, ben conosceva.

Faticando a contenere la stizza per quel soprannome che tanto odiava, oltrepassò la porta, evitò con agilità un
bombardamento in miniatura di palline di carta e zigzagò tra i banchi fino ad arrivare all’unico posto libero. Quello nell’angolo in fondo alla stanza, in terza fila, proprio sotto la finestra. Rimase commosso dalla premura dimostratagli dai suoi compagni, che gli avevano riservato il medesimo posto dell’anno prima: l’angolino dei pezzenti, come lo avevano amorevolmente soprannominato. Altrimenti detto, l’unico punto in tutta l’aula che –
secondo una complessa serie di calcoli aritmetici – avrebbe garantito all’intera classe la possibilità di bombardare il suo occupante con gli oggetti più disparati senza che l’insegnante se ne accorgesse. Per non parlare, naturalmente, delle provocazioni e delle offese.
Notò che qualcuno (non erano tante le ipotesi possibili) gli aveva inciso con delle forbici un simpatico «Ciao, sfigato!» che attraversava il banco lungo l’intera diagonale. Sempre cordiali, i suoi compagni: ci mancava proprio, un bel regalo di “bentornato all’inferno”.

«Ehilà, pezzente!», lo salutò un grosso gatto arancione, sfoggiando un sorriso a trentadue denti (e Sonic non poté fare a meno di notare, con profondo disgusto, dei residui di cibo non meglio identificato rimastigli incastrati tra le gengive).

«Non credevo che ti saresti ripresentato anche quest’anno, sai? Sei una costante sorpresa!»

E si parlava di offese. E di inferno.
Sonic si impose di mantenere la calma, o sapeva che presto i resti del suo pranzo sarebbero spariti insieme a tutti i denti, e si sforzò di apparire signorile:

«Anch’io sono felice di rivederti, Arnold», sibilò di rimando.

«Sempre con la battuta pronta, eh? Vedremo se alla fine di quest’anno avrai ancora voglia di scherzare!»

Una voce profonda, seguita da un rumoroso quanto inquietante scrocchiare di nocche, attirò l’attenzione del riccio: un grosso leone dal pelo color miele sedeva sul davanzale della finestra e lo guardava con aria sprezzante, come a volerlo trapassare con i suoi occhi ambrati.

«Salute anche a te, Francis!», disse, mentre con tutta la calma possibile sistemava il suo zaino dietro la sedia e tirava fuori l’astuccio, posandolo sul banco. Sussultò in modo appena percettibile quando se lo ritrovò proprio davanti, ovviamente spalleggiato dall’onnipresente amico Cedric Tiger, un tigrotto non tanto alto (ma in ogni caso più alto di lui, che era sempre stato piccolo e mingherlino) con dei muscoli da far paura.

«Cosa hai fatto durante le vacanze, nanerottolo? Hai fatto le gare di corsa contro una lumaca con l’artrite?», gli domandò beffardo, piazzando il suo grosso fondoschiena sul suo banco, a pochi centimetri dal suo astuccio. Sonic gli rivolse un’occhiata di disgusto misto a compatimento: «Niente che ti interessi, Francis», replicò. «Però perlomeno ho imparato a pulirmi il sottocoda, a differenza di qualcun altro…»

Come era accaduto già tante altre volte in passato, fu come se non avesse aperto bocca: né Francis, né tantomeno quella faccia di granito che era Cedric, diedero segno di aver accolto la provocazione. Piuttosto, il leone sembrò interessarsi al suo astuccio posato di fianco a lui.

«Ma che bell’astuccino, piccolo Sonic! Dove l’hai preso?»

«Non sono affari che ti riguardano!», scattò Sonic, afferrandolo subito e portandoselo al petto, come per proteggerlo. Sarebbero dovuti camminare sul suo cadavere prima di rovinarglielo, o peggio, di rubarglielo: era stato il regalo che gli aveva fatto zio Chuck quando aveva compiuto dodici anni, quella stessa estate, e al momento teneva a lui più di ogni altra cosa al mondo. Non era niente di speciale in realtà: una semplice busta di stoffa di varie sfumature di azzurro, cucita su tre estremità e chiusa con una cerniera su uno dei lati più lunghi… ma l’aveva confezionata suo zio con le proprie mani, scrivendoci persino il suo nome sopra, e tanto bastava per rendere quell’astuccio unico, speciale… in una parola, suo: di Sonic Hedgehog e di nessun altro.

«Dicci almeno dove l’hai preso!» Cedric si inserì nel discorso, lanciando a Francis uno sguardo d’intesa.

Tipico dei coraggiosi e degli indipendenti, notò Sonic, cercare di continuo l’approvazione del proprio “capo”, non c’è che dire.

«Allora, riccio? Durante l’estate ti sei ingoiato la lingua?», proseguì Francis.

Sonic si sforzò di apparire sicuro di sé: «È... un regalo», ammise controvoglia.
Dentro di sé, però, si malediceva: perché, perché aveva deciso di portarlo a scuola quel giorno? Avrebbe dovuto saperlo che Francis e la sua dannata gang ci avrebbero messo gli occhi sopra, solo per il puro gusto di farlo andare in bestia.

«Un regalo, ma davvero?» Francis si mostrò meravigliato. «E di chi era? L’hai per caso ritrovato nel baule dei reperti archeologici di famiglia del tuo paparino?»

Quelle parole fecero scattare qualcosa dentro di lui: «Come osi nominare mio padre?!», esclamò indignato, balzando su dalla sedia. Come si permetteva quel micetto mascherato da gradasso di parlare così?

«Ehi, ehi, datti una calmata, nanerottolo!», lo prese in giro Francis. «Stavo solo scherzando!»

Già, era comodo, tremendamente comodo avvicinarsi troppo al fuoco per poi tornare al riparo quando la faccenda si fa pericolosa.

«Eddai, mollalo!», lo incitò Cedric, accennando all’astuccio che Sonic teneva ancora stretto al petto. «Non te lo mangiamo mica!» Seguirono altri sghignazzi.

«Non lo avrete», pronunciò Sonic, più deciso che mai.

«Ne sei così sicuro? Hai dimenticato che noi siamo cinque e siamo tutti più alti e più grossi di te, scricciolo?», replicò Francis con tono canzonatorio.

«Non mi importa. Non lo avrete.» Che solo ci provassero a toccarlo! Avrebbero sperimentato uno per uno cosa si prova a ricevere una palla di aculei lanciata a tutta velocità nel fondoschiena!

La bocca di Francis si piegò in un sorriso di scherno. Oh, cosa avrebbe dato per avere trenta centimetri di altezza e qualche muscolo in più per saltargli addosso e rovinargli quel bel facciano a suon di pugni senza rimetterci come minimo un braccio!

«Vedremo, scricciolo, vedremo...», disse infine Francis con tono misterioso.

Come se avesse appena pronunciato la battuta del secolo, Francis, Cedric, Arnold e persino Mike Leopard e Raphael Lynx – altri due membri della combriccola che erano rimasti zitti fini a quel momento – scoppiarono a ridere. E poi dicevano a lui di non avere senso dell’umorismo!
In quel momento si chiese con serietà come avrebbe fatto a sopportare i suoi compagni per cinque interminabili ore al giorno, di lì alla fine dell’anno. O peggio, per sei giorni. O infinitamente peggio: fino all’ultimo minuto dell’ultimo giorno di scuola dell’intero corso scolastico.

Guardò istintivamente nella direzione della finestra. Chissà se quei dieci metri che separavano il primo piano dal cortile sottostanti sarebbero bastati per garantirgli una morte veloce e indolore…
Prima che le sue ipotesi relative a un possibile suicidio potessero concretizzarsi, però, i suoi compagni decisero che era decisamente troppo presto perché la pacchia finisse e lui avesse al fine un po’ di pace.

«Ehi, palla di spine! La sai la novità?», miagolò Arnold, sfacciato come al solito.

«Che durante l’estate, per una serie di circostanze eccezionali, il tuo neurone ha deciso finalmente di risvegliarsi dal coma?», azzardò Sonic con tono conciliante. Oh no, sarebbe stato statisticamente impossibile che accadesse un tale miracolo.

Il gattone sembrò non aver nemmeno udito la sua risposta (come se, con somma soddisfazione di Sonic, non avesse capito quel che intendeva), e continuò imperterrito: «Da oggi abbiamo un nuovo compagno!»

«No! Non dirmi che il tuo singolo neurone si è svegliato davvero e si è unito a noi!», sghignazzò Sonic.
Le pupille verticali del felino luccicarono di irritazione. Il suo tono sprezzante, tuttavia, non mutò di una virgola.

«Molto divertente, sai?», rispose. «Comunque no, è un nuovo compagno di classe... E sai il bello? Mi hanno detto che è un lurido porcospino come te! Non sei contento? Presto avrai un amichetto da cui andare a piangere quando Cedric ti fa la bua!»
Sonic avrebbe voluto replicare a tono, ma era troppo stupito per farlo.

«Un altro... riccio?», chiese, incapace di credere a quel che aveva appena udito. Non sarebbe stato più l’unico riccio in tutta la classe? Veramente? In tal caso sarebbe stata la prima (e forse l’unica), notizia bella della giornata.

«Proprio così! E pensa un po’? Mi hanno detto anche che è uno sfigato... proprio come te!»

Sonic non rispose nemmeno a quella provocazione: la notizia lo aveva del tutto scombussolato.
Com’era possibile... Proprio un riccio... Proprio lì, nella sua classe che tanto detestava! Forse, i giorni di “povero porcospino maltrattato” erano destinati a finire...?
Calmo, stai correndo troppo, si frenò, prima che la sua mente cominciasse troppo a fantasticare. Prima di passare alle conclusioni, bisognerà conoscere il nuovo arrivato...

Mentre ancora era immerso nei suoi pensieri, Jack Chamaleon, appostato accanto alla porta, diede il segnale convenuto, e tutti in classe smisero di occuparsi del più e del meno (che andava dall’infastidire un povero riccio blu al rifarsi lo smalto alle unghie - naturalmente per quanto riguardava le ragazze) e si sedettero composti nei rispettivi banchi.
Quel pensiero non fece che irritarlo maggiormente, e tuttavia era così ovvio: perché rischiare la sospensione tormentando lo sventurato porcospino in presenza dei professori, laddove era molto più semplice e sicuro farlo mentre non c’erano, per poi tramutarsi magicamente in studenti modello quando il “palo” di turno dava il segnale di pericolo? Semplice, lineare, sicuro al 100%, anche contando sulle enormi fette di prosciutto che certi insegnanti parevano avere sugli occhi.

Proprio tipico di quei maledetti bulli da quattro soldi, pensò Sonic. Il problema, però, riguardava naturalmente anche i professori: poteva capire se un gruppo di adolescenti sfogava le sue frustrazioni su una preda scelta con precisione, ma che un intera squadra di adulti lasciasse che tutto ciò accadesse senza fiatare era al di fuori della sua comprensione. In fondo, lui non sarebbe stato né il primo né l’ultimo a essere preso di mira dai bulli... ma allora perché nessuno faceva nulla per risolvere quel problema?
All’inizio pensava che non se ne accorgessero perché lo reputavano troppo al di fuori del loro mondo perfetto, ma col tempo aveva compreso che i problemi li notavano eccome... Solo che era maledettamente più semplice fare finta di niente che rischiare di avere lagne per il bene degli alunni. E poi non c’è peggior talpa di chi non vuole vedere.

L’insegnante era ormai arrivata sulla soglia dell’aula. Arnold, tuttavia, non rinunciò al suo ultimo avvertimento: «Vedremo chi, tra te e il novellino, vincerà il premio per il più sfigato!», gli bisbigliò in un orecchio, pochi secondi prima che la professoressa facesse il suo ingresso in classe… e solo allora Sonic poté abbandonarsi sulla sedia con un sospiro di sollievo: con un adulto presente in aula, le possibilità che Francis e compagnia bella ne combinassero un’altra delle due non sparivano, ma perlomeno diminuivano drasticamente.

«Buongiorno, ragazzi!», pronunciò una farfalla dal fisico slanciato e dalle ali multicolore.

«Buongiorno, signora Choochoo!», rispose in coro l’intera classe. A Sonic venne la nausea al pensare a quanto quel saluto suonasse ipocrita, se pronunciato da dei ragazzi che, fino a dieci secondi prima, avevano fatto i diavoli a quattro, ma i pensieri cattivi lasciarono ben presto spazio all’ammirazione.

Era stata una fortuna che la prima professoressa dell’anno fosse proprio lei: insegnava lettere, materia che a Sonic non andava propriamente a genio, ma da quando l’aveva conosciuta tra lui e le lettere le cose erano molto migliorate. E poi bisognava dire che la Choochoo incuteva un certo fascino in gran parte degli animali di sesso maschile in cui si imbatteva – alunni dodicenni compresi –, soprattutto per via di quelle sue ali sottili come fogli di carta velina ma colorate come un campo di fiori a primavera: se paragonata, per esempio, a quell’orrenda civetta grassa e vecchia che era la professoressa Aegolius, era di sicuro un sollievo avere un’insegnante dall’aspetto gradevole agli occhi.
Certo, doveva riconoscere che le cose non erano sempre facili con lei: nonostante l’aspetto gentile e i modi raffinati, sapeva essere severa come quelle che capitano di rado, ma perlomeno lei non aveva la mania di sbraitare alla classe cose poco carine come «Siete una mandria di caproni ignoranti!» e si sforzava di trattare lui e i suoi compagni come creature dotate di cervello. Non la migliore professoressa che si sarebbe potuto sognare, forse, ma data la sua situazione non poteva certo lamentarsi.
 
«Bene, ragazzi. Come forse alcuni di voi già sapranno, da ogni avrete un nuovo compagno di classe. Vorrei presentarvelo, se permettete...», esordì la Choochoo assumendo un’aria a metà tra il divertito e il misterioso. Detto questo si girò in direzione della porta e fece un gesto con la mano: «Coraggio, entra!»
Ventisei teste incuriosite si sporsero per vedere meglio. Sonic era uno dei più distanti dalla porta, ma fu di gran lunga quello che guardò con maggior interesse: non stava davvero più negli aculei per l’eccitazione.
Anche il nuovo compagno fece finalmente il suo ingresso, tra la meraviglia generale.

Cavolo, ma è bassissimo!, fu il primo pensiero, istintivo, di Sonic, faticando a scorgere il nuovo arrivato oltre le teste e le orecchie dei suoi compagni. Quando fu più vicino, però, ne capì il motivo: non era basso, o almeno non particolarmente... era soltanto seduto... su quella che aveva tutta l’aria di essere una sedia a rotelle. Rotelle che il suo occupante faceva ruotare in avanti con dei lenti ma sicuri movimenti delle braccia.
Una serie di bisbigli appena percettibili si levò attorno al riccio blu.

«Ragazzi, ma questo è strano un botto... anche più di Sonic!»

«Ci hanno rifilato uno di quegli handicappati! E adesso chi gli tiene dietro?»

«Addio al torneo di pallavolo... Con questa palla al piede è impossibile vincere!»

Altro moto di nausea. Nausea verso quelli che – ora ne aveva la conferma – erano dei veri idioti: ma come potevano essere così egoisti? Così arroganti da rimanere sempre confinati nella loro bolla di egocentrismo?

Nonostante fosse rimasto anche lui un poco turbato da quel compagno così diverso da loro, non poté fare a meno di provare un profondo dispiacere per lui: era capitato in un posto davvero pessimo per gli “sfigati”, perché i suoi compagni non avrebbero esitato a deriderlo per quella sua alquanto bizzarra condizione.

Sonic provò di nuovo a scacciare i pensieri negativi e tornò a concentrarsi sul nuovo arrivato. Ora che lo aveva più vicino, riuscì a osservarlo meglio. Arnold aveva ragione, era proprio un riccio come lui... e anzi, si stupì di quanto fossero simili: il pelo e le spine erano blu chiaro, di qualche tonalità più acceso del suo; il muso, le braccia e la pancia color beige, pressoché identico al suo; gli aculei erano ribelli, ma tenuti più ordinati, non lasciati liberi al vento come invece erano i suoi. L’unico dettaglio diverso erano gli occhi: non poteva vederli bene, perché era ancora piuttosto lontano, ma avrebbe potuto giurare che fossero azzurri... ma di un azzurro sconcertante, luminoso e profondo come non ne aveva mai visti. Sembravano due pietre preziose, tanto sembravano brillare, e Sonic non poté evitare di perdersi in quegli occhi.

«Ragazzi, lui è Zephir.»

La voce della professoressa, evidentemente ignara dei mormorii che avevano iniziato a girare per la classe, lo distolse dai suoi pensieri.
A quelle parole il riccio piegò le labbra in un sorriso lievemente imbarazzato, ma del tutto privo di forzature.

«Come potete vedere», continuò la Choochoo, «Zephir non è come voi. Non può camminare, né saltare... né correre – quelle parole fecero sussultare appena Sonic. – Però sono sicura che riuscirete a dimostrargli che non serve saper fare questo per avere comunque degli amici sinceri.»

Sonic si lasciò sfuggire una smorfia: possibile che dopo un anno la Choochoo non avesse ancora capito con che razza di classe aveva a che fare?

«Puoi stare qui alla cattedra con me, se vuoi, fintantoché non riusciremo a trovarti un banco adatto.»

Il riccio annuì e sorrise; poi, per la prima volta da quando era entrato, parlò: «Grazie, professoressa.»
Sonic rimase colpito dalla sua voce... era strana, diversa da quelle che era abituato a sentire: era soffice, cristallina, con la classica nota acuta tipica di chi deve ancora entrare nell’età adulta, ma al contempo profonda. Anche se era piuttosto smilzo e piccolo di statura (ma forse era solo un impressione dettata dal fatto che fosse seduto), con quella sua voce dimostrava più della sua età, e ciò lo meravigliò ancora di più.

Dopo che il riccio si fu sistemato a lato della cattedra, la lezione di lettere cominciò, ma Sonic non seppe mai completamente cosa la sua insegnante avesse detto di preciso: trascorse tutta l’ora quasi in trance, del tutto estraneo a quel che succedeva attorno a lui. I compagni chiacchieravano fregandosene alla grande della lezione, e i loro argomenti di conversazione andavano dal paio di scarpe acquistato proprio il giorno prima all’ultimo videogioco lanciato sul mercato. Cedric e Francis, invece, preferivano dedicarsi a qualcosa si più costruttivo, ovvero tagliuzzare pezzettini di gomma e usare Sonic come bersaglio per i loro lanci.

Ma al giovane riccio non importava dei proiettili che gli venivano sparati addosso, né delle notizie più scottanti di gossip, e nemmeno alla lezione di lettere. La sua mente, infatti, era concentrata su un unico obbiettivo: il porcospino che aveva di fronte.
Non riusciva a staccargli gli occhi di dosso; infatti, più di una volta in quei momento temette che alla fine dell’ora avrebbe trovato nient’altro che un mucchietto di polvere su quella carrozzina, da tanto il suo sguardo lo aveva consumato. Notò con meraviglia che era l’unico in tutta l’aula che stesse ascoltando veramente la professoressa. A volte partecipò persino con delle domande, che gli regalarono alcuni: «Bravo, Zephir, ottima osservazione!»

Non sapeva bene come, ma quel tipo lo affascinava e al tempo stesso lo intimoriva. Aveva quell’aria da bravo ragazzo che trasmetteva amicizia e calore al primo sguardo, e il solo fatto che non si fosse messo a provocarlo o a tirargli addosso oggetti fin dal primo istante, come facevano gli altri compagni, glielo aveva reso immediatamente simpatico.
Però quella sedia a rotelle lo rendeva nervoso: guardando Zephir da lontano gli sembrava quasi di fissare se stesso allo specchio, e la sua carrozzina gli sembrava un dettaglio tremendamente stonato. Un riccio che non poteva correre? Dove si era mai sentita un’assurdità del genere?
Un riccio era nato per correre, più o meno come un gabbiano era nato per volare o una cavalletta per saltare... Ma che senso aveva un gabbiano senz’ali o con le ali inutilizzabili? Se qualcuno gli avesse posto una domanda simile solo dieci minuti prima, probabilmente gli avrebbe riso in faccia. Ora però aveva davanti agli occhi la prova che una cosa del genere era possibile... e tutto ciò lo spaventava.

Sì, la verità era che si sentiva turbato da quel riccio così uguale e contemporaneamente così diverso da lui. Per quanto odiasse ammetterlo, quando Arnold gli aveva detto che il nuovo arrivato sarebbe stato “strano” non aveva torto. Insomma, era deluso; profondamente deluso: per un attimo aveva credito di conoscere un qualcuno che potesse salvarlo dalla sua condizione di “porcospino sfigato e maltrattato”, che potesse essere suo amico... E invece si ritrovava con un incapace con cui non avrebbe potuto nemmeno fare una corsa in libertà. Si sentiva amareggiato, ma del resto doveva aspettarselo: anche se quella novità in un primo momento lo aveva incuriosito, non sarebbe cambiato niente; tutto sarebbe rimasto come prima.

Preso com’era da quei pensieri, l’intera lezione rimbalzò attorno a lui come se avesse trovato della gommapiuma a ostruirgli le orecchie, tanto che sobbalzò sulla sedia quando il suono della campanella gli perforò i timpani – ovviamente suscitando risate sguaiate tra gli occupanti dei banchi attorno a lui.
Anche dopo che si fu ripreso dalla temporanea trance, però, continuò a fissare il suo compare come ipnotizzato: lo vide riporre nello zaino il quaderno di lettere, una volta richiusa la copertina su una pagina fitta di appunti, per poi tirare fuori il libro di geografia, quello dell’ora successiva, e iniziare a sfogliarlo con interesse. Sembrava non prestare la minima attenzione alle sue occhiate, né ai commenti spudorati su di lui che i compagni si bisbigliavano all’orecchio.

Pure un po’ secchione, oltre a essere strano, pensò Sonic. Un minimo gli dispiaceva per lui, perché in quella classe non avrebbe trovato che prese in giro, ma era decisamente corrucciato per quel nuovo acquisto così insoddisfacente.
La professoressa Choochoo non era uscita che da pochi minuti che fece il suo ingresso il signor Tanuki, insegnante di geografia fin dall’anno precedente.

«Ah, e così questo sarebbe il nuovo arrivato!», esclamò rivolto a Zephir. Il riccio annuì sorridendo, e il professore gli tirò un’amichevole pacca sulla spalla con i suoi soliti modi un po’ burberi ma affettuosi.

«Eccellente, eccellente... Mi hanno parlato bene di te!», replicò il procione, facendolo arrossire appena.

A Sonic non piacque che il professore stesse ignorando bellamente il resto della classe per studiare ben bene il novellino, ma non se ne stupì: in fondo è risaputo che gli insegnanti hanno sempre un debole per i secchioni, e a giudicare dalle parole di Tanuki anche nella sua classe precedente Zephir era uno dei cosiddetti “studenti modello”.
Di nuovo la sua testa era divisa tra disappunto e curiosità: anche se l’entrata in scena non era stata delle migliori, non poteva fingere a se stesso che, tutto sommato, lo ammirava almeno un po’, quel tipo. Perlomeno, se aveva il coraggio di comportarsi come se niente fosse a dispetto delle provocazioni dei compagni, doveva possedere una pazienza e un controllo di sé invidiabili... cose di cui lui non poteva di certo vantarsi.

Comunque sia, l’intera mattinata si svolse secondo lo schema della prima ora: i compagni che chiacchieravano o gli facevano dispetti, l’insegnante di turno che parlava apparentemente senza accorgersi che nessuno o quasi lo seguiva, lui che non riusciva a staccare gli occhi da Zephir. E Zephir che, come se vivesse in un universo tutto suo, scriveva fiumi di parole su un quaderno ogni volta diverso. Sembrava che l’incapacità delle sue gambe di muoversi l’avesse compensata con una rapidità a dir poco inquietante nello scrivere.
Tu sarai anche il riccio più veloce del mondo, Sonic, ma questo a prendere appunti ti batte alla grande!, pensò. Non poteva fare altro che prostrarsi, dopo aver visto di cosa era capace.
 
*       *       *

Nemmeno all’intervallo, tra la terza e la quarta ora, le cose funzionarono in modo molto diverso: non appena suonò la campanella, Sonic afferrò il suo panino e si fiondò letteralmente giù dalle scale, raggiunse il cortile e si arrampicò sul suo albero preferito, quello nell’angolo più estremo del giardino. Quello proprio davanti alla finestra della presidenza, nei pressi del quale, per ovvi motivi, nessun bambino si arrischiava a giocare. Quello su cui lui, un povero riccio maltrattato, poteva trascorrere i venti minuti della prima pausa in santa pace, senza rischiare di venire offeso, picchiato o bombardato con gli oggetti più impensati. Venti meravigliosi minuti di calma assoluta e di solitudine.

Tanto ormai aveva capito (e i suoi compagni glielo ricordavano di continuo, casomai ogni tanto se ne dimenticasse) che il suo destino sembrava essere uno soltanto: che tutti, prima o poi, in un modo o nell’altro e inevitabilmente, si allontanassero da lui.
O forse era piuttosto lui che li allontanava, come gli faceva notare ogni tanto lo zio Chuck, preoccupato dal fatto che in tutti gli anni vissuti nella valle non si fosse fatto nessun amico. Ma del resto, a pensarci bene, quale poteva essere la sorte dell’essere più veloce al mondo, se non correre lontano e lasciare inevitabilmente indietro tutti gli altri?
E poi, dopo tanto anni vissuti quasi da solo, la solitudine non gli faceva più paura; anzi, la cercava: gli permetteva di riflettere sulla sua vita e di quanto fosse crudele, a volte, il mondo che lo circondava; di ricordare e di trarre insegnamenti dal suo passato; ma anche di fantasticare, di immaginare una realtà diversa in cui tutto andava bene: in cui lui era un guerriero valoroso che non arretrava di fronte a nulla e che sconfiggeva chiunque gli sbarrasse la strada. In quel mondo Sonic Hedgehog era un eroe e tutti lo riconoscevano come tale, non uno sfigato fatto di pasta frolla.

Quel giorno, però, la sua mente non si intrattenne con un’altra delle sue avventure, ma piuttosto rimase concentrata su quello che gli sembrava ormai diventato un chiodo fisso: Zephir, ovviamente.
Lo osservò per tutto l’intervallo dall’alto della sua “postazione segreta”, mentre masticava il suo panino: lo vide scivolare giù dalla discesa accanto alle scale (probabilmente dopo che un insegnante lo aveva aiutato a scendere al piano terra con l’ascensore) e farsi un giretto per il cortile guardandosi intorno con aria incuriosita.
Forse il suo intento era quello di cercare qualcuno della sua classe per stringere le prime amicizie, perché si accorse che puntava sempre verso i gruppetti – rigorosamente divisi – in cui si erano separate le varie ragazze della neo 2^B.

Da quella distanza non poteva sentire quel che Zephir diceva loro per cercare di inserirsi nella conversazione, ma a giudicare dalle reazioni delle compagne non dovevano averlo accolto molto bene. Infatti, per ognuno dei tre gruppi principali – le Rossetti&Ombretti, le Gossip-Sempre-E-Comunque, che talvolta si coalizzavano in un unico Belle&Ricche, e le Bruttine-Ma-Cattivelle, sempre pronte a far girare malelingue sulle une o sulle altre – si ripeté la stessa solfa. Una bella frase studiata del tipo: «Oh, scusaci tanto, Zephir caro, ma purtroppo questi sono discorsi da donne...», e conseguente formazione di sicurezza (spalla contro spalla e capo chino) per proteggere al massimo la privacy del gruppo e al contempo dissuadere altri potenziali intrusi dal cercare di inserirsi in mezzo.

E i maschi?, si chiese Sonic. Vuoi vedere che prova anche con loro, il povero illuso?
No, con i maschi non ci aveva provato neanche, dopo aver visto che si erano messi tutti, dal primo all’ultimo, a giocare a palla, in nome della buona accoglienza e del «non serve saper correre per avere comunque degli amici sinceri.»

Amici sinceri.
Certo, come no.
Non si stupì affatto quando vide che, prima ancora della fine dell’intervallo, il giovane Zephir si era rassegnato: non avrebbe mai trovato degli amici sinceri nei suoi compagni, quello era poco ma sicuro.

E lui?
Già lui.
Limitandosi e fissarlo e a mantenere le distanze, non si stava certo rendendo migliore dei suoi “amici” in quanto ad accoglienza... ma scendere dall’albero, attraversare il cortile, raggiungerlo e provare almeno a iniziare una conversazione con lui era un’idea che lo tentava, se non altro in nome della solidarietà tra animali della medesima specie. Però c’era qualcosa (non sapeva bene nemmeno lui cosa) che lo tratteneva.
E se poi non mi molla più? Se mi si appiccica come una zecca solo perché siamo entrambi ricci?
Forse le sue erano paranoie, ma comunque ormai era tardi: la campanella era suonata; era ora di tornare in classe. O all’inferno, sotto altri punti di vista.
 
Anche le due ore successive – matematica e poi storia dell’arte – trascorsero esattamente come le tre precedenti: i pensieri di Sonic che vagavano chissà dove senza accorgersi del mondo reale; il professore che parlava e nessuno che lo ascoltava; Zephir che, unica eccezione alla regola, prendeva diligentemente appunti, senza curarsi né del suo sguardo insistente né delle sempre meno educate frecciatine dei compagni. E non bisognava dimenticarsi delle palline di gomma lanciate in testa, ovvio.

Poi, all’una precisa, la campana suonò di nuovo. Un buon 80% della classe non aspettò nemmeno che il professore concludesse la frase in corso, che rimase sospesa nell’aria: si alzò di scattò dalla sedia e, facendo un fracasso infernale, si riversò in corridoio, né più né meno come una mandria di bufali imbizzarriti.
Sonic preferì aspettare – più che altro per non rischiare di finire spiaccicato da qualche parte – e anche Zephir pensò bene di fare lo stesso. Se lo ritrovò proprio dietro, con una delle ruote grandi della carrozzina a un soffio della sua gamba, e per un attimo fu tentato di girarsi e rivolgergli la parola.
Sapeva che sarebbe bastato quel semplice gesto a renderlo migliore dei suoi compagni, che in appena cinque ore avevano già dimostrato pienamente di essere dei cafoni senza speranza. Però non lo fece: ci fu un qualcosa, uno strano sentimento che tanto sapeva di delusione, che lo spinse a continuare a guardare dritto davanti a sé. Ai suoi occhi era come un estraneo, un “diverso”: sentiva una vocina dentro la sua testa bisbigliargli che quel che stava facendo e pensando non era del tutto giusto, ma non riusciva proprio a fare altrimenti. O forse non voleva... questo non riusciva a capirlo.

Trovò il coraggio di dargli un’ultima occhiata solo quando lo vide staccarsi dal gruppo e dirigersi verso l’ascensore. Un moto di rabbia che tanto sapeva d’invidia lo fece fremere, quando si accorse che Zephir, a dispetto dell’accoglienza non proprio entusiasta che aveva ricevuto, aveva il sorriso sulle labbra esattamente come all’inizio della mattina. Non era che la conferma dei suoi sospetti: se al nuovo arrivato piaceva andare a scuola, allora non ci sarebbe stato proprio verso di andare d’accordo. Potevano anche appartenere alla stessa razza, ma etano comunque troppo diversi.

Peccato, però, rifletteva mentre scendeva le scale, usciva dall’edificio e si incamminava verso casa, sempre da solo: per quanto odiasse ammetterlo, quel tipo un pochino lo affascinava.
Soltanto un pochino, eh.


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Buona Domenica, popolo di EFP!
Come i più arguti di voi avranno dedotto leggendo il nick, chi scrive è MartixHedgehog. Probabilmente non mi avrete mai visto qui (grazie al cavolo, mi sono registrata esattamente quarantasette minuti fa -.-'), ma si dà il caso che segua questa sezione da tempo immemore, e che da tempo ancora più immemore io sia perdutamente innamorata del grande Sonic il Riccio... perciò eccomi qua, dopo mesi e mesi di riscritture e ripensamenti, a uscire dal bozzolo del mio pc e a tentare il "salto nel blu" con la mia prima storia...
Non è la prima fanfic che scrivo, né la mia prima su Sonic (diciamo che ho l'hd del computer che ormai straripa di storie, storielle e storiacce, sia sul mio "amore" che non...), ma sono emozionata lo stesso perché è la prima che pubblico qui su EFP. Non vi dirò "Siate buoni, pliiiiis!", perché in quanto aspirante scrittrice sono sempre alla ricerca più di critiche che di lodi... ma beninteso che se la storia non vi facesse rivoltare le budella dalla nausea (cosa peraltro assai probabile), sarei comunque felicissima di ricevere pareri positivi, altroché! ^^
Detto questo, permettetemi una piccola introduzione per una lettura consapevole della storia.

Comincio dicendo che odio quanto voi le introduzioni interminabili, perciò vi prometto che sarò breve. Ci sarebbe tanto da dire, in realtà, ma per evitare di annoiarvi ho pensato di dividerlo in più parti.
Ciò che mi sembra doveroso dire fin da adesso è questo: leggendo la trama e il primo capitolo (ammesso e non concesso che abbiate avuto la pazienza di arrivarci in fondo) avrete capito che si tratta di una storia un po' diversa da solito, e questo perché l'ispirazione improvvisa da cui essa è nata ha comportato l'essermi presa alcune libertà. Nulla di sconvolgente, tranquilli; però anche se la storia è, se vogliamo, un po' alternativa, spero che vi piaccia ugualmente :)
Dico questo solo per correttezza verso chi mi legge: se desiderate il classico Sonic salva-mondo, temo che dobbiate passare alla fic successiva, perché qui di grandi scazzottate purtroppo non ce n'é.
A questo punto, sperando di non essermi lasciata sfuggire erroracci mostruosi e di non aver fatto casino con codici&co, buona lettura!

PS. Lo sapevo: come al solito mi perdo in chiacchiere e finisco per dimenticare la cosa più importante... buon 22° compleanno al grande, al mitico, all'unico e inimitabile Sonic the Hedgehog! <3
(Guarda te... Dopo tutto quello che mi fa passare nelle sue storie, ha ancora la faccia tosta di farmi gli auguri... >.> - nd Sonic)

  
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