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Autore: Akira14    06/01/2008    1 recensioni
Da una puntata che vediamo quasi tutta dagli occhi di Dean...I pensieri e le preoccupazioni di Sam nella 2.20.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Dean Winchester, Sam Winchester
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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L'aria è più pesante che mai (quando un fantasma ci ruba l'ossigeno)

L’aria è più pesante che mai

Quando un fantasma ci ruba l’ossigeno

 

Ho appena messo giù il telefono, o meglio: mio fratello ha attaccato mentre gli chiedevo di passarmi a prendere prima di affrontare lo djinn.

Devo preoccuparmi? La macchina della polizia, in fondo, era un falso allarme. Segno che ho i nervi a fior di pelle e questo mi fa saltare alle conclusioni sbagliate.


O forse è un timore più che giustificato, visto che lo stavo giusto informando che i “geni” non sono simpatiche entità che esaudiscono i desideri delle persone, ma mostri che ne ingurgitano il sangue. Che le tengono sospese in allucinazioni tanto reali che molti di quelli che erano stati recuperati vivi, pur di non abbandonare i loro mondi perfetti, avevano finito per spegnersi comunque.

Indicazioni che potevano anche servirgli. Nel nostro lavoro, non ci sono margini d’errore, non c’è tempo per incertezze. Se i soccorsi arrivano con qualche secondo di ritardo ci si può anche lasciare la pelle. Sono concetti su cui papà mi ha fatto il lavaggio del cervello, pensieri che non riesco a mettere a tacere, sebbene voglia dare fiducia a Dean e credere che non sarebbe mai così idiota da fare un sopralluogo nel covo di una creatura di cui non conosciamo a fondo la natura ed i poteri. Abbiamo letto che si possono uccidere con una lama d’argento intinta nel sangue d’agnello, ma se si rivelasse puro folklore come il paletto nel cuore per i vampiri? Se non gli facesse più di un graffio?
Almeno i due avremmo potuto coprirci le spalle a vicenda ed avere una possibilità di uscirne vivi.
Più ci penso e più mi fa rabbia.
Sì. Rabbia. Perché non è possibile che io e Dean siamo una squadra solo quando fa più comodo a lui, che si proclami mio difensore senza che nessuno gliel’abbia chiesto, come se io non avessi alcuna esperienza sul campo, che pensi di essere in grado di fare tutto da solo anche quando é di fronte all’evidenza che ciò non solo non é possibile, ma anche pericoloso. Dannazione!

Comincio a chiedermi come ha fatto a convincermi che fosse una buona idea battere quelle cinquanta miglia di strada in Illinois senza portarmi con sé, poi ricordo il suo fastidioso appunto sul fatto che potrei essere più utile a controllare che i federali non bussino alla nostra porta e continuare le ricerche sugli djinn che non a lamentarmi della sua guida o della musica sul sedile dell’Impala ed anche queste sono buone ragioni per restare nel motel, non posso biasimarlo.
Quando però è la sua incolumità ad essere a rischio non ce n’è una che tenga, ed è questo che lui non riesce a capire.
Se lui fosse qui so che mi risponderebbe che se se l’è cavata per quattro anni da solo, mentre io ero a ‘divertirmi’ a Stanford, perciò non ha bisogno che io gli stia con il fiato sul collo.
Avrebbe anche ragione. Qui, però, non si tratta di aver torto o meno ma di puro e semplice buon senso. Se il suo sospetto cadeva su un luogo in particolare non gli costava niente tornare qui ed andarci insieme tra un paio di ore.
Libero il letto dai libri con una manata, e mi ci siedo ad aspettare che torni, fissando il soffitto.
Si degnasse di farmi sapere che è vivo e vegeto a me basterebbe. L’esito del sopralluogo non è certo la notizia prioritaria.

Allungo il braccio per prendere il cellulare che avevo abbandonato sul cuscino e ne fisso il display come se i miei poteri potessero farlo suonare. I cristalli liquidi si fondono in una macchia indefinita di fronte ai miei occhi, mentre i rumori provenienti dalla strada sembrano attutirsi.
Anche l’ira scivola via e tutto ciò a cui riesco a pensare è questa morsa alla bocca dello stomaco. Potrebbe essere semplice paranoia, ma ho visto mio fratello sul punto di morire troppe volte in questi ventiquattro anni per pensare che non sia una concreta possibilità, non solo un “potresti anche venir investito domani mentre attraversi la strada”.
È pur vero che starmi a macerare su come stia o cosa stia facendo non è di maggior utilità che interrogarsi sul sesso degli angeli – o sull’esistenza degli unicorni, ironizzerebbe lui – e sospirando decido di andare a valutare quale delle auto potrei forzare se non si facesse vivo nelle prossime…diciamo…due ore?

Tra i veicoli parcheggiati cerco il più vecchio, quello su cui mettere un antifurto sarebbe sembrato uno spreco al proprietario perché mai si sarebbe immaginato che in una rosa di macchine decisamente più appetibili ad un criminale la sua potesse essere presa in considerazione. Di questa gente che non vagliava l’ipotesi che un mezzo di fuga valeva un altro ce n’era un mucchio.
Anche noi, in un certo senso, ne facciamo parte. Contando quanto spesso lasciamo l’Impala incustodita, a volte perfino non chiudendo a chiave le portiere…Diciamo che mi son fatto l’occhio per chi potrebbe avere una simile noncuranza per il proprio mezzo o credere che certe cose a lui non possano succedere.
La mia scelta cade su una vecchia utilitaria, intaccata dalla ruggine. La mia coscienza fa più storie all’idea che uno che si tiene una macchina del genere o non poteva permettersene un’altra oppure è la prima che gli hanno dato i genitori dopo la patente, facendomi sentire come un bulletto che ruba le caramelle ad un bambino.

Ma come ogni altra volta, finisco per ripetermi che non gli sto facendo questo gran danno. In fondo se ne ricomprerà un’altra con i soldi dell’assicurazione.
Che poi non è ancora detto che debba andare in cerca di Dean, magari mi farà avere sue notizie non appena forzerò la serratura. Controllo il cellulare per scrupolo, anche se non l’ho sentito suonare. Difatti non c’è neanche una chiamata persa, solo l’ora che m’informa beffarda che saranno passati venti minuti, al massimo, da quando l’ho chiamato.


Imparasse anche a chiamarmi appena ha finito un lavoro, ci eviteremmo tutta questa trafila.
Lui non è papà che può fare tutto senza rendere conto a nessuno. Quattro anni al mondo in più di me non gli valgono questo privilegio.

Il trattarmi ancora come qualcuno da proteggere e non un cacciatore suo pari men che meno.


Rientro, prendendo dal pavimento la carta stradale dove ho segnato le vittime dell’ultimo anno rispetto a dove sono state trovate le loro automobili. Non posso permettermi di andare completamente allo sbaraglio: non c’è tempo.
Anche se lo djinn avesse cambiato tana dall’ultima sfortunata persona che ha ghermito, se calcolo da quanto Dean ha lasciato il motel e la velocità che tiene di solito con l’Impala dovrei ridurre il mio campo di ricerca a non più di dieci, quindici miglia.
Un’area comunque più che ampia, in cui devo individuare quale edificio può avere attirato l’attenzione di Dean. A cominciare dai più grandi e poi via via passarli tutti in rassegna con scrupolosità, perché è sempre meglio controllare qualche posto in più che poi scoprire troppo tardi che lui si trovava proprio uno dei luoghi che avevo escluso.
I calcoli mi portano via diverso tempo, assicurandomi più e più volte di non aver lasciato da parte nessun dato importante. Il risultato è approssimativo, ma non per questo inutilizzabile.

Una vaga idea è sempre meglio di niente. Naturalmente, se quell’idiota avesse attivato il GPS mi basterebbe accendere il portatile per sapere dove si trovi o da dove provenisse la sua ultima chiamata con certezza. Uno penserebbe che dopo lo stratagemma per recuperare me a Duluth si sia reso rintracciabile anche lui. Invece no. Dice che gli toglie il fascino dell’uomo che sparisce nel nulla. Mah, quando se ne esce con certe idiozie non mi sforzo neanche di capirlo. Chiaramente ha il cervello sconnesso. Avrei dovuto convincerlo a farlo.
Mi ritrovo con la penna a mezz’aria senza più ricordarmi cosa stessi pensando.
Guardo la mappa sotto le mie mani. Ah sì. Segno con la penna la zona da cui cominciare e me la metto in tasca.

Dopodiché cerco nel borsone una torcia, qualche arnese per scassinare la portiera della macchina, e poi vaglio quale coltello portare con me. Il sangue ce l’ha tutto lui, ma francamente non posso prendere neanche in considerazione l’idea di mettermi a trafugare una macelleria o depredare un allevamento ovino nel cuore della notte. Devo solo sperare che, scendendo, non l’abbia lasciato lì in bella vista vicino al cambio. Ciò vorrebbe dire che se fosse stato attaccato dallo djinn questi potrebbe anche essersene liberato.

So che non è un novellino, che anche se non fosse entrato con la certezza di trovarselo davanti avrebbe comunque messo il barattolo nel doppio fondo del bagagliaio, prima di allontanarsi dalla macchina, ma le sviste possono capitare a chiunque.
Ecco che, di nuovo, non appena mi trovo a corto di cose da fare la mia mente parte per la tangente pessimistica e catastrofica.
Potrei telefonargli. Mi prenderà in giro perché sarà da un’ora che m’ha chiuso il telefono in faccia, ma anche un mese di provocazioni è preferibile all’ansia che qualcosa possa essere andato storto.


Cammino su e giù per la stanza, in attesa. Nel silenzio tra uno squillo e l’altro mi sento il cuore in gola. Avanti, rispondi Dean. Ti prego. Ti scongiuro.
Quando cade la linea le gambe quasi mi cedono. L’ultima volta che Dean non ha risposto al telefono stava per essere sacrificato ad una divinità pagana.
Non lo farebbe mai, quando papà ci ha lasciato per mesi a domandarci della sua sorte con solo quella cazzo di segreteria a rispondere alle nostre chiamate.
E se penso che solo dopo tre settimane senza aver avuto alcuna notizia Dean si è presentato a Stanford per mendicare il mio aiuto mi si gela il sangue. Cosa può aver provato per quei venti e più giorni, quando loro due avevano sempre avuto il loro codice per rassicurarsi a vicenda?

Quando se una telefonata non ti arrivava alle sette di sera non era perché l’altro s’era distratto, o era troppo occupato dalla caccia, ma seriamente impossibilitato. Tipo morto.
Lui era semplicemente andato avanti giorno dopo giorno non arrendendosi all’idea. Ed era vero che erano state innumerevoli le volte in cui nostro padre era sparito così, ma io avevo Dean e lui aveva me.
Non dovevamo stare con il pensiero “rimarrò solo come un cane”. Lui invece, dopo quattro anni in cui non m’aveva chiesto nulla, doveva farci i conti. Finché non ha ricevuto quel messaggio in segreteria e si è sentito giustificato a farmi rientrare con la forza nel suo mondo.
Curioso come mi sia stato facile allora sminuire la preoccupazione di Dean, che pur vedeva John Winchester come quasi invulnerabile se non immortale, ed ora mi trovi a mangiarmi le unghie perché mio fratello forse non ha sentito suonare il suo telefonino.
Certo non rinnego ciò che ero, piuttosto che fin da subito avrei potuto prendere la faccenda più sul serio. Anche se mi torna alla mente che l’intrufolarsi in casa come un ladro non aveva affatto aiutato la sua causa.

‘Avessi bussato mi avesti aperto?’ No, ormai non me lo chiederebbe neanche più.
La verità è che sono io a sentire di averli persi quei quattro anni, ed ora è lui a vederli come l’occasione che meritavo per avere una vita normale, qualcosa a cui lui non poteva aspirare.
Non che questo conti, ora. Le mie digressioni su faccende che al momento non hanno alcuna importanza mi stanno facendo perdere il nocciolo della questione.

Ho fatto tre chiamate, di quattro minuti a distanza di cinque minuti l’una dall’altra.

Ormai stiamo per avvicinarci alle due ore che mi ero dato come limite d’attesa per partire.

Posso anche glissare sull’ultima mezz’ora, no?

L’utilizzerò per guidare con prudenza verso la mia meta. Attirare l’attenzione della polizia superando il limite di velocità, quando sto guidando un veicolo rubato, sarebbe un’imperdonabile leggerezza.
Nascondo il coltello sotto la giacca, tasto la tasca dei jeans per essere sicuro di non aver tirato fuori la mappa e averla posata da qualche parte per chissà quale assurdo motivo. No; c’é.
Sto per aprire la porta, quando decido di dare l’ultima scorsa agli appunti presi sullo djinn. Mi rassicurerebbe potermi portare dietro tutti i libri, ma dovrò accontentarmi di un misero foglio di carta.
Do ancora uno sguardo in giro, nel timore di aver dimenticato qualcosa, che si rivela essere la torcia.
La prendo e mi chiudo la porta alle mie spalle.
Con l’esperienza che mi sono fatto negli anni, e soprattutto negli ultimi mesi, nel furto di autoveicoli, non mi ci vuole niente ad entrare e metterla in moto.


Inizia il mio viaggio. Stranamente hanno deciso di investire per un’autoradio, e pur di non dovermi mettere a parlare da solo per colmare quest’assordante assenza di rumore, l’accendo.
Trovare qualcosa in linea con il mio umore è praticamente impossibile. Non voglio che sia tanto deprimente da essere un pugno nello stomaco, ma neanche così allegra da sentirla come una vera e propria presa in giro. Non moscia da farmi venire il latte ai gomiti, e non tanto carica da ricordarmi Dean.
Insomma, dopo aver passato in rassegna ogni stazione almeno per cinque volte mi do per vinto e spengo.
Il nulla che mi circonda è tanto assordante da farmene quasi pentire. Tamburello le dita sul volante, canticchio qualcosa e nel frattempo mi guardo attorno. Riaccendo.
Sopporto di nuovo quei dieci minuti. Spengo. Dopo un paio miglia diventa quasi un rituale, qualcosa con cui tenermi occupato, mentre mi dirigo verso il primo edificio da ispezionare.

È un gesto talmente automatico che, quando scorgo con la coda dell’occhio la silhouette di una certa Chevrolet, non collego subito che devo fermarmi, ed il dubbio se l’avessi vista davvero o meno mi assale diverse miglia più in là.
Inchiodo, e con una rischiosa inversione a U vado a fermarmi lungo il ciglio della carreggiata opposta. Accendo la luce e ristudio la mappa. L’ultima persona è scomparsa in questi dintorni, e la vecchia fabbrica è senz’altro uno degli stabili più grandi – anche se non il più vasto – nel circondario.
Poteva essere davvero l’Impala: devo tornare indietro.


Mando al diavolo i limiti, ogni pretesa prudenza è dimenticata. Quella macchina è quasi una Winchester lei stessa, non l’avrebbe lasciata incustodita per più di tre ore senza un valido motivo.

Simile a quegli impedimenti menzionati riguardo alle chiamate, presente?

Sam, non saltare di nuovo alle conclusioni. Non c’era scritto quanto ci mettano i djinn a dissanguare le loro vittime, e poi magari si sta solo nascondendo (no, Dean sarebbe già riuscito a tornare alla macchina). Una volta arrivato, salto praticamente giù dalla macchina, curandomi a malapena di spegnere il motore.

Raggiungo di corsa l’altra, appurando per prima cosa se si trovi sui sedili anteriori. No, non vi è traccia del barattolo. Do un’occhiata anche al cemento sotto i miei piedi, ma neanche intorno a me vi è alcun segno, o alone di sangue.
Ci faccio un giro attorno, arrivando al bagagliaio. Con due mani su di esso e la testa china mi ritrovo a dire “Mi dispiace” come se forzandolo facessi un torto anche a lei. Dean avrà di che lamentarsi per il resto delle nostre vite, e forse anche oltre; tuttavia ciò potrebbe aprirgli gli occhi sulla necessità di avere due mazzi di chiavi anche se la guida soprattutto lui. Non so se abbia paura che nella notte me ne vada a fare corse clandestine o cosa. È vero che una volta me ne sono andato con il favore delle tenebre, ma sarebbe suicida fuggire con l’Impala.
Se non altro non è stato un sacrificio inutile: il recipiente è proprio qui, appoggiato contro l’angolo. Del suo contenuto non è andata persa neanche una goccia.

Ne cospargo la punta del mio coltello con diversi strati. Dean potrebbe non essere in grado di combattere, e vorrei anche aver modo di controllare se per caso creatura tenga altri prigionieri…quindi, se effettivamente gli è letale non voglio che servano troppi fendenti per farlo fuori.
Richiudo la bagagliera con cautela, attento a non farmi scoprire prima del tempo. Tengo sotto controllo il mio respiro, scivolando di stanza in stanza con il minimo rumore possibile, accendendo la torcia solo quando penso di aver visto qualcuno o qualcosa muoversi.
Trovo il mio avversario a cena. E’ disgustoso vederlo leccarsi i baffi dopo essersi scolato il sangue di qualcuno a malapena capace di mugolare, accarezzare il suo volto con la superiore benevolenza che si riserverebbe ad un animale, e farlo tornare di nuovo ai suoi sogni letali.
Perché è un altro paio di maniche vederle in atto certe cose, soprattutto quando non posso essere sicuro da qui che non si tratti di mio fratello.
Vorrei saltargli al collo, subito. Decapitarlo. O sventrarlo di coltellate. Magari entrambe le cose. Cosicché sia chiaro a tutti cosa accade a chi tocca la mia famiglia.
Con molta fatica riesco a far prevalere l’intelletto al mio istinto sanguinario e vendicativo, e rimango ad osservarlo in un angolo finché non si allontana, sparendo lungo un altro corridoio.

Immediatamente mi precipito verso le ombre da cui l’ho visto cibarsi. L’orrore mi toglie per un attimo il fiato, costringendomi a fermarmi sul posto: decine e decine di scheletri ancora legati per i polsi si ammassano nella stanza, gente cui non è stata data nemmeno una degna sepoltura, individui di cui nessuno saprà mai la sorte.

Prendendo un lungo respiro, riprendo a camminare a passo spedito, ignorando coloro per i quali non posso più fare niente. Ed ecco che, proprio in fondo alla lunga fila di corpi senza vita c’è mio fratello, e d’un tratto non vedo altri che lui.
“Dean!” I suoi occhi sono vitrei, la carnagione ormai livida. C’è una parte di me che gli controllerebbe subito il polso, un’altra che non vuole un’ulteriore evidenza a cui non può che arrendersi. No, Dean, no! Non puoi essere morto. Te lo impedisco, te lo vieto.
“Dean!” Lo scrollo, prendendolo per una spalla, in cerca di una qualsiasi reazione. Niente di niente. “Oddio…” Afferro il colletto della camicia, scuotendolo ancora una volta. “Avanti…” Mi sembra di vedere il suo sguardo alzarsi, seppur ancora perso nelle nebbie di quella fantasia che non vuole abbandonare.

La sola possibilità che Dean stia volontariamente rifiutando di svegliarsi mi rende furioso. “Ehi, svegliati!” Reagisce, seppure debolmente. Diamogli ancora un incentivo. “Cazzo, svegliati!”
Con le buone maniere si ottiene tutto e finalmente si riscuote dal torpore. “Ehi…Ehi…” Cerco di attirare la sua attenzione, ma lui borbotta qualcosa di incomprensibile.
Non mi preoccupo di capire cosa, la perdita di sangue deve avergli dato alla testa.  Quando però prosegue con un “non c’è nessun posto bello come casa mia” intuisco che poteva trattarsi di un “Zia Em.”
“Grazie a Dio.” Sospiro di sollievo. Se ha la forza di scherzare non è pericolo di vita. “Per un attimo ho creduto di averti perso.”
“Mi hai quasi perso.” Conferma lui, trasalendo mentre gli sfilo l’ago dalla carotide. Prendo il coltello per slegarlo, completamente dimentico dello djinn che sarà ormai di ritorno, essendosi accorto che una delle sue vittime è sveglia.
“Sam!” Seppur stordito ci ha dovuto prestare attenzione lui, facendomi voltare appena il tempo per evitarlo e contrattaccare.
È più forte di quanto pensassi, riesce a farmi cadere il coltello di mano ed immobilizzarmi contro la scala in men che non si dica. Meno male che ero io a volerlo far fuori.
In sottofondo sento mio fratello che cerca di far cedere le corde, mugugnando per lo sforzo. Disarmato non posso che cercare di liberarmi dalla sua morsa – cos’è sta storia che tutti sono ossessionati con il mio collo? – ed evitare che l’altra sua mano mi tocchi e mi mandi direttamente al Creatore.
C’è quasi riuscito, quando gli arriva una coltellata alle spalle. Un fendente deciso e profondo, lungo la colonna vertebrale, che non gli lascia scampo.
Ancora una volta ho dovuto farmi salvare da Dean. Che stranamente non se ne sta a vantare come suo solito, ma barcolla fino all’altra ragazza, che sembra conciata molto peggio di quanto non lo fosse lui. Sta verificando la presenza del polso carotideo, quando entrambi vediamo una lacrima scenderle sul viso. Mi passa il coltello perché la liberi, mentre lui le toglie l’ago e lascia che cada nelle sue braccia.
“Ci sono qui io a prenderti.” Sentirgli tremare la voce nel rassicurarla è un fulmine a ciel sereno. È come se stesse cercando di svegliarla dal peggiore degli incubi. “Ci sono qui io…Ti tireremo fuori di qui, okay?” Comprendo dall’ansia che non si sta riferendo solo a questo edificio abbandonato. “Ci sono qui io…” ripete come un mantra fino a quando lei non perde i sensi. Mi basta uno sguardo per capire che non è in grado di portarla di peso fino alla macchina, quindi la prendo io e senza scambiare altre parole torniamo verso l’Impala.
Per tutto il tragitto verso l’ospedale si occupa di tenerla sveglia. Guardandoli nello specchietto retrovisore, tutto quello cui riesco stupidamente a pensare è che l’unica altra volta che ho visto Dean sui sedili posteriori, negli ultimi tempi, è stato la sera dell’incidente.
“Vedi di guardare dove vai, tu, che l’ho visto cos’hai fatto al mio bagagliaio. La mia piccola non ha bisogno di altre ammaccature.” Dà una pacca al sedile, e poco ci manca che lo baci.
Sorrido e torno a concentrarmi sulla strada. I dettagli possiamo anche rimandarli a più tardi.

La lasciamo al pronto soccorso, dove do anche un recapito telefonico cosicché possano dirmi quando si stabilizza. Dean ha ragione nel dire che da questo lavoro riceviamo a malapena la gratitudine di coloro che salviamo, ma essere consapevoli d’aver sottratto qualcuno alla morte è più che sufficiente. Almeno per quanto mi riguarda.
Ho provato la normalità, ma sapendo cosa c’era lì fuori ero conscio di essere utile un terzo di quanto avrei potuto esserlo cacciando.
Mi ci sono voluti scontri accesi con Dean per riconoscerlo, ed ora sento quasi che è lo stesso destino da cui sono fuggito anni fa a dare una ragione alla mia vita.

 

La mia convinzione non fa che rafforzarsi quando ricevo la chiamata dall’ospedale. Devo dire che vedere Dean seduto, al buio, sul bordo del letto per paura di addormentarsi l’ha messa leggermente in discussione, ma so che è solo questione di tempo.
Che prima ne parla più in fretta potrà capire che non c’è più nulla di cui preoccuparsi. Ringrazio per l’aggiornamento e ne metto al corrente anche lui.
La lettura in cui è immerso dev’essere particolarmente interessante, perché non dà segni di aver sentito una parola di ciò che gli ho appena detto.
“Ci sono buone probabilità che si salvi.” Aggiungo.

“E’ una buona notizia.” Risponde, evitando però che i nostri sguardi s’incrocino. Non ho bisogno di guardarlo negli occhi, però, per capire che non sta bene. E non è perché io lo conosca meglio di chiunque altro, ma chiunque lo intuirebbe dalle sue spalle incurvate e dal tono sommesso.
“Già. E tu? Tu come stai, tutto bene?” Una bella domanda diretta a cui non mancherà di mentire.

“Sì, sto bene.” Appunto. Sto per ribattere che non ne sono affatto convinto, che mi confida inaspettatamente di cosa si trattava il suo mondo ideale.
“Avresti dovuto vederlo, Sam. Le nostre vite…Tu eri una tale femminuccia[1].” Dovrei sentirmi offeso che perfino in universo parallelo o quel che era io non cambiassi granché nell’immaginario di Dean, invece mi ritrovo a riderne. Per non picchiarlo, visto che è ancora debole. “Non andavamo molto d’accordo, quindi, eh?”
“No.” Ribatte lui con serietà.
Mi ritorna in mente il panico di qualche ora fa, che tanto m’aveva sorpreso, ed approfitto della sua risposta per indagare ulteriormente. “Pensavo che fosse una fantasia idilliaca.”
“No, non lo era.” S’interrompe, mettendo via il giornale per poi proseguire. “Era solo un desiderio. Ho desiderato che la mamma vivesse. Non essendo mai morta non abbiamo mai cominciato a cacciare e tu ed io non ci siamo mai…sai…” Trovati? Legati? Sentiti fratelli?
“Già.” Tutte e tre. “Allora sono felice che sia successo.[2]” Mi scruta, stentando a credere che quelle parole escano proprio dalla mia bocca. “E sono felice che tu sia riuscito ad uscirne fuori, Dean. I più non ne avrebbero avuto la forza. Sarebbero restati.”

“Sono proprio fortunato.” Nel dirlo si sente un certo sarcasmo, ma soprattutto nostalgia per quello che ha abbandonato svegliandosi. Lascio che prosegua, anche se vorrei prenderlo per le spalle e fargli entrare in quella testaccia che lo è stato molto più di quelle tante carcasse nella tana dello djinn. “Lascia che te lo dica…tu avevi Jess.” Alla menzione del suo nome mi volta le spalle, alzandosi dal letto. “Mamma avrebbe avuto dei nipoti…” Lo seguo con lo sguardo, finché non mi si siede di fronte.

“Sì, ma…Dean. Non era reale.” La faccio facile, ma la verità è che mi è bastato un accenno a Jess per far riaffiorare per la sua scomparsa, la rabbia verso il demone che l’ha uccisa ed il rimorso per averla messa in pericolo io stesso facendola entrare nella mia vita. Chissà se vedendola sarei stato capace di lasciare un mondo in cui lei era ancora viva, pur sapendo che non era nulla di concreto e che avrei abbandonato Dean al suo destino.

“Lo so. Ma sarei voluto restare.” Confessa sinceramente, scrollando le spalle. Dalla mia espressione deve trasparire una certa inquietudine, perché si sente in dovere di chiarire meglio la sua affermazione. “Sarei tanto voluto restare. Voglio dire, da papà in poi non posso che pensare quanto ci sia costato questo lavoro. Abbiamo perso molto e sacrificato tanto. ”

Esattamente quello che mi ha spinto ad andarmene, Dean. Non lo capisci?
Ma non è che al di fuori di esso le disgrazie non capitino. Potrei dirgli che ci sono tanti che hanno perso più di noi, sacrificato il doppio. Ma la morale non è mal comune mezzo gaudio, che vita è una merda e fa schifo per tutti. No, è che la nostra vita un senso ce l’ha. Se lui non fosse stato un cacciatore non sarebbe stato lo stesso per coloro che ha messo in salvo. Non tutti possono dire di aver trovato il proprio posto nel mondo, ma noi sì. Oserei quasi dire che, qualsiasi prezzo abbiamo pagato, n’è valsa la pena.

 

“Ma ci sono persone che sono vive grazie a te.” Sembra non capire, addirittura ride amaramente ed insisto. “Ne vale la pena, Dean. Ne vale la pena. È ingiusto…” Inarca le sopracciglia, un tacito ‘a dir poco’. “…fa un male cane, ma ne vale la pena.”

Papà non gli ha mai dato la possibilità di vivere una vita in cui non dovesse tenersi un coltello sotto il cuscino, solo ora che ha visto a cosa abbiamo dovuto rinunciare, che l’ha vissuto sulla sua pelle si rende conto di quanto pesi.

Ma non è proprio questo a dargli valore?

           Sei stato proprio tu ad insegnarmelo, Dean.

 



[1] “Wussy” letteralmente sarebbe “deboluccio”, ma siccome Dean si riferisce spesso a lui come se fosse effeminato (la fantasia di Tall Tales ne è l’esempio più lampante) ho pensato che si adattasse meglio come traduzione.

 

[2] “Well, I’m glad we do.” = “Be’, sono felice che lo facciamo.” Sam si riferisce sia alla caccia che all’andare d’accordo, che è una conseguenza di aver iniziato a cacciare, ma in risposta alla frase precedente non volevo che questa sfumatura si perdesse, perciò l’ho modificata di conseguenza.

  
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