Capitolo primo
Settembre
56 a.C. (Vienne, sei mesi dopo)
I
Q |
uinto era
seminudo nel proprio letto, rotolandosi lentamente di lato mentre le coperte
gli si torcevano attorno, strusciando al contatto con la pelle e formando delle
pieghe. Il sole era già alto in cielo, avvisando tutti che era mattina
inoltrata; tuttavia lui non aveva voglia di alzarsi. Aprì gli occhi e vide la
propria stanza ormai quasi del tutto spoglia: solo polvere dove prima c’erano
mobili antichi, aveva dovuto vendere persino la spada arrugginita del padre per
poche centinaia di monete d’argento. La verità era che Quinto non sapeva più
che fare dal giorno della morte della madre, avvenuta molti mesi prima.
Quinto non
sapeva neppure come amministrare i beni di famiglia, perciò, essendo male
esperto, decise di cercare qualcuno in grado di svolgere questa funzione. Che
purtroppo per lui andò male. Un certo Attilio Fabio, notaio di professione (o
almeno così diceva di essere), aveva risposto all’appello del giovane, ma
questi si era preso buona parte dell’eredità che i genitori avevano lasciato al
figlio ed era scappato via improvvisamente.
Il ragazzo
aveva quattordici anni e ormai viveva solo con il suo schiavo in una piccola
domus quasi completamente vuota.
Quinto
strizzò gli occhi con le dita per svegliarsi e vide Trebonio, il suo schiavo,
sdraiato sul pagliericcio nell’angolo della propria stanza da letto. Anche lui
era seminudo, ma al posto del subligar, perizoma indossato solo da
membri dell’alta società romana, aveva una sorta di straccio avvolto attorno
alla vita.
Provò un moto di affetto per
quel giovane che gli era stato vicino per tutto il tempo senza mai lamentarsi,
imparando sempre meglio il latino ogni giorno in più che passava. Lo aveva
assistito durante i funerali della madre Severa, per cui il figlio aveva speso
una fortuna. Funerali molto famosi per la loro magnificenza a cui prendevano
parte un gran numero di persone, specie alcune donne pagate profumatamente per
inscenare un folle dispiacere, urlando, piangendo e disperandosi, creando
un’atmosfera ancora più funerea durante la lunga e lenta processione, che
attirava anche estranei come mosche attaccate a una ragnatela. Severa venne
sepolta nel cimitero dei ricchi, dietro al Tempio Massimo della città, situato
a pochi passi dalla piazza centrale. Una volta finita la cerimonia Quinto si
asciugò gli occhi e s’impose di non piangere oltre, non riuscendo tuttavia a
tener fede alla promessa. Trebonio gli restava sempre accanto, anche se in
silenzio. A un certo punto lo abbracciò da dietro, cosa che non sarebbe stata
concessa ad alcuno schiavo, e tuttavia Quinto gli voleva un gran bene ed era
felice di sentire del calore umano scorrergli attraverso ogni fibra del suo
corpo.
«Mi dispiace signorino» disse
piano lo schiavo nordico «Mi dispiace ancora di più se penso che è grazie a sua
madre se noi ci siamo incontrati»
«Già» rispose il suo
padroncino «Non riesco ancora a crederci. Ormai non mi resti che tu»
Trebonio lo strinse più forte
ma Quinto lo scostò con fare circospetto «No. Non davanti a tutti.»
Trebonio annuì e lo seguì a
casa, dove Quinto lasciò che egli lo coccolasse finché non avesse versato fino
all’ultima lacrima di dispiacere.
Adesso che erano passati sei
mesi il dolore si era attenuato, e tuttavia il solo pensiero lo spingeva a sentirne
ancora. Finalmente si alzò dal letto, così fece pure il suo schiavo biondo.
Quinto lo abbracciò, accarezzandogli il petto nudo e glabro, proprio come il
suo, prima di dargli un bacio sulle labbra, cosa che lo schiavo gradì molto.
«Preparami i vestiti adesso,
ho bisogno di prendere un po’ d’aria e soprattutto di mettere qualcosa sotto i
denti»
«Subito padroncino» disse
Trebonio, e corse via portandogli la toga bianca con ricami porpora e i
sandali.