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Autore: La bambina fantasma    28/06/2013    3 recensioni
{Dal Testo}
"Era bastato un amore come quello a inchiodarle le ali.
Ma come poteva evitare di amarlo? Come poteva evitare che quei sentimenti la tormentassero giorno e notte, che il suo cuore esplodesse al suono della sua voce, ed un brivido la percorresse, lasciandola completamente inerme?
[...]
Avverto la disperata urgenza che hai nel farmi tua, questo doloroso desiderio di possesso che mi imprime sulla pelle la scia velenosa di un addio non ancora pronunciato.
La mia anima trepida al culmine dell'estasi: tu ricongiungi le labbra alle mie, soffocando i nostri respiri. Mi vien da pensare che forse dell'aria non ho mai avuto bisogno.
[...]
Mia piccola Hermione.

***
Spero darete una possibilità alla storia e che sarete così gentili da lasciare una recensione. Ringrazio in anticipo chi leggerà.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hermione Granger | Coppie: Draco/Hermione
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Da VII libro alternativo, Da Epilogo alternativo
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Almost Lover Dedico questa storia a me stessa:
per avercela fatta, nonostante tutto.

Per questo sei la sete e ciò che deve saziarla.
Come poter non amarti se per questo devo amarti.
Se questo è il legame come poterlo tagliare, come.
Come, se persino le mie ossa hanno sete delle tue ossa.
Sete di te, sete di te, ghirlanda arroce e dolce.
Sete di te, che nelle notti mi morde come un cane.
Gli occhi hanno sete, perché esistono i tuoi occhi.
La bocca ha sete, perché esistono i tuoi baci.
(Pablo Neruda)
 

Errori, errori, errori.
Ne ho commessi tanti, più di quanti dovrei. Mi sono lasciata ghermire e ingannare, accecare da un velo che ha tramutato la realtà in parvenza e le illusioni in certezza.
Ho preferito sognare, rifugiandomi in antri della mia mente che non avrei mai dovuto esplorare. Scoprendo cose di me che non avrei mai dovuto sapere.
In ogni stanza, ogni oggetto, ogni angolo oscuro... non vedevo che te.

Hermione aprì gli occhi, senza fretta, lasciando che la lieve spossatezza del sonno l'avvolgesse ancora un po'. Le spesse tende di velluto lasciavano trapelare solo un piccolo spiraglio di luce, troppo debole, troppo lontana.
Si alzò a sedere, tastandosi la chioma arruffata e sbadigliando sonoramente. Non un solo rumore nella stanza, non un solo respiro oltre al suo. Sola.  
Scostò le pesanti coltri, mentre il fuoco creava strani e spaventosi giochi di ombre, e il suo gatto preferiva il letto di qualcun altro per schiacciare un pisolino. Un’abitudine, ormai.
Rassegnazione.
Adagiò i piedi sul tappeto, facendoli scivolare tra le trame intricate, una morbida carezza. Indossava solo una veste leggera, eppure soffocava, come se le pareti le si stringessero attorno, strappandole la sua stessa carne. Lontana da qualsiasi cosa un tempo fosse stata importante e necessaria, era divenuta insensibile ai suoi stessi sensi.
Tormento.
Si alzò, trascinandosi come ebbra, lasciando che i vestiti le scivolassero via con piccoli e veloci gesti. Osservò il suo riflesso nudo dinanzi allo specchio: i seni, non troppo grandi; il ventre, morbido; la zona scura del pube e le gambe, non troppo lunghe, ma sottili.
Strinse una mano al collo, poi l’altra, quasi volesse strozzarsi. Lo sguardo era liquido, carico malinconia. Ne rifuggì, accostandosi alla scrivania: un fermaglio, di un intenso verde smeraldo: lo usò per sistemarsi i capelli.
Costrizione.
Quando aprì la porta del bagno, i vapori trattenuti all’interno la investirono in una densa nuvola di nauseante profumo. Non aveva mai capito perché le sue compagne adoperassero tutti quei cosmetici, come se usare cinque tipi diversi di crema idratante potesse realmente fare la differenza: un olio profumato non poteva accarezzarle la pelle come avrebbero fatto un paio di mani, né un po’ di trucco avrebbe potuto farla sentire bella come uno sguardo che l’avesse guardata con desiderio.
Aveva dovuto imparare troppo presto che nulla di ciò che il mondo poteva offrirle avrebbe mai attenuato quel vuoto, un usignolo privato dei suoi canti, della sua luna. Si era nutrita di solitudine, odio e disperazione, annientando ogni suo desiderio, subordinandolo a qualcos’altro. Mentendo, a sé stessa e agli altri.
Semplicemente, fingendo di essere qualcun altro.
Disprezzo.
Entrò nell’ampia cabina doccia, chiudendo le porte e facendo scrosciare l’acqua attraverso le tubature. Si scottò, ma il dolore aveva un che di piacevole e terapeutico, quasi analgesico.
I vapori intensi le rendevano difficile il respiro, ma non aveva bisogno di ossigeno, non più. Attimi, come ricordi di una intera vita. Non era occorso altro tempo, non a lei, non per lui: uno sguardo ed ogni cosa era stata perduta.
Oblio.
Vi era stato un momento, tempo prima, in cui aveva quasi creduto che le cose potessero cambiare, ma ci sono ferite che il tempo non può guarire, convinzioni troppo profonde da poter sradicare. A ciò era seguita la caduta: maligni spiriti l’avevano accolta, corrompendo la sua anima, condannandola.
Nessuno aveva intuito nulla, e come avrebbero potuto?
Non per nulla, Hermione era considerata la strega più talentuosa della sua età, eccellente persino in questo.
Mani iniziarono a vagare sul corpo, tracciando linee immaginarie sulla sua pelle, graffi che erano una gioia malsana, lussuriosa. Una mano scivolò tra le gambe, senza imbarazzo, accarezzando, spingendo, penetrando.
Cos’era quello che stava infliggendo a sé stessa, piacere o dolore?
Così sottile è la linea che divide tali sensazioni, facce di una stessa, iniqua medaglia. Poteva addirittura avvertirne il peso, l’odore del sangue putrido che fuoriusciva dalle piaghe che le aveva causato, il veleno che lentamente la stava uccidendo.
Un morso alle labbra carnose, un pugno stretto contro il muro, un ansito, un po’ trattenuto, un po’ urlato.
Si può desiderare qualcosa a tal punto da riuscire a stento a vivere senza?
Hermione accostò la fronte alle piastrelle, ancora fredde nonostante i vapori roventi della doccia. La pelle le si era arrossata tanto che, probabilmente, ne avrebbe portato i segni per giorni. Era il suo marchio e la rendeva felice, come solo un folle poteva essere.
Un gemito gutturale le proruppe dalla gola, cosce che andarono a stringersi ancora più saldamente attorno a quella mano, la quale violentemente si muoveva alla ricerca di una momentanea estasi. Pensò a lui, a quello che avrebbero potuto fare le sue labbra, le sue mani a contatto col suo corpo, con la sua pelle. Un’idea, un desiderio talmente prorompente da farle scorrere il sangue mille volte più velocemente attraverso le vene, tanto da farla accasciare, preda di spasmi convulsi, ansimante oltre ogni dire.
Era piacere, ma anche dannazione.
Brama.
Si sedette in un angolo, lontano dall’acqua, le ginocchia strette al petto. Osservò il gorgo dello scarico risucchiare fino all’ultima goccia di dignità che le era rimasta, fino all’ultima traccia di sé stessa, di quella che era. Lacrime amare come fiele ed un cuore che le veniva strappato, ancora e ancora.  
Si alzò, reggendosi a stento sulle gambe, gemendo. Barcollò fuori dal bagno, incurante dell’acqua che scorreva sul pavimento, tornando sul letto. Gattonò fino al cuscino, coprendo il corpo nudo con le coperte calde, chiudendo gli occhi così forte da farsi male. Dormì.
Disperazione.
Incubi, un tempo combattuti, adesso accolti. Un volto, il suo tutto e il suo niente.
Un amore straziante che le chiedeva ogni cosa e al quale nulla avrebbe negato, neanche la vita.

Distanze.
Ho percorso miglia per arrivare sino a te.
Ho visto il mio amore mutare, sfumare in odio e ossessione, uccidermi lentamente. Un dolore tale da farmi urlare, implorare affinché mi uccidessero.
Ho sotterrato la testa sotto chilometri di bugie, ridotta la mia voce al silenzio, il mio pianto a un sorriso.
Il mio amore a una tomba.

Sputo parole come sangue e vomito, imprimo ogni parte di me della tua assenza. E’ vuoto che sa’ di pienezza, baci bramati. Vuoto che è la sola cosa di te che potrò avere mai.
Appartenenza.
Io sono parte di te, tu sei parte di me.
Buffo, potrei quasi crederci.

Carta.
Hermione Granger viveva una esistenza di carta, di azioni modellate su inchiostro e parole. Giorni come versi, rime ingarbugliate, metafore articolate. Emozioni prive di punteggiatura, flusso eterno e indomato.   
Respirò a pieni polmoni l’odore che s’innalzava da secoli e secoli di pensieri raccolti, raccontati, rilegati. Un amore senza tempo che scaturiva da ogni granello di polvere, ogni mano lasciata libera di scorrere tra quegli scaffali, accarezzando, lambendo, immaginando.
Afferrò un volume, saggiando con le dita la morbida e liscia consistenza della copertina: il cuoio, leggermente consumato lungo i bordi, conservava ancora tutto il calore che il suo autore vi aveva infuso. Ne percepiva l’essenza, attraverso la pelle, fino alle più recondite parti di sé stessa.
Non c’è da fidarsi dei mondi di carta, del modo in cui ghermiscono e incatenano il lettore, alienandolo. Pagine e pagine di frasi, canti di soavi e infide sirene, maledizioni senza perdono. Un dono e una condanna, infinitamente dolce, infinitamente ingiusta.
Ripose il tomo sul ripiano, inspirando profondamente, fin dentro le ossa. Aveva i polpastrelli ricoperti da un sottile strato di pulviscolo: li sfregò tra loro, senza esito. Prelevò un fazzoletto dalla tasca anteriore della divisa: una H, grande e scarlatta, ed una dalia, ricamate in un angolo da sua madre. Vi si pulì le dita, poi, senza riguardo, lo gettò nella borsa.
Scorse i titoli uno ad uno, strisciando l’indice sulle costine e mormorando lettere quasi completamente sbiadite.
La luce di un lampo invase la stanza per alcuni istanti, accecandola, mentre le pallide fiammelle delle candele tremolavano inquiete.
Un mostro.
Lei era il mostro che si trascinava, stanco, fra quei lugubri corridoi. Il mostro che non aveva mai ucciso nessuno, se non sé stessa. Il mostro che, per quanto si sforzasse, non riusciva in alcun modo a ricordare che sensazione dessero i raggi del sole contro la pelle.
Prese ciò di cui aveva bisogno e si diresse verso uno dei tanti tavoli da studio: c’era quiete in biblioteca, quel giorno, proprio come aveva sperato. Posizionò sul bancone tutto quel che le occorreva: il libro, aperto alla pagina giusta; il calamaio e la piuma; la pergamena, così ruvida al tatto, ma dal profumo avvolgente.
Impugnò il pennino e, dopo averlo intinto nell’inchiostro, iniziò a scrivere, tracciando morbidi e decisi tratti sul foglio:
Io voglio morire Io voglio morire Io voglio morire Io voglio morire Io voglio morire Io voglio morire Io voglio morire
Io voglio vivere. Io voglio amare.
Io voglio amarti.
Parole che sbiadivano ai suoi occhi, perdevano di consistenza, si scioglievano in ansiti e lacrime.
Perché doveva essere così maledettamente debole?
Accartocciò la pagina e la gettò via, lanciandola verso il cestino. Questa, però, rimbalzò sul bordo e cadde sul pavimento. Proprio non riusciva a farne una giusta.
Il cuore le doleva, gonfio di tristezza. Ogni respiro era un’agonia, l’ennesimo alito di vita che sfuggiva al suo controllo.  
Si tamponò le ciglia umide col dorso della mano, cercando inutilmente di darsi un contegno: non sapeva cosa avrebbe fatto se qualcuno l’avesse vista in quello stato.
Si alzò di mal grazia, avvicinandosi all’angolo entro il quale era caduto il cartoccio di pergamena. Mentre si accasciava, udì in lontananza un bisbiglio di voci, una risata di donna a stento trattenuta. Montò su tutte le furie, perché questa intrusione rovinava completamente la sua tranquilla serata.
Sbuffando, si riavvicinò alla sua postazione e iniziò a raccattare le proprie cose: dopo ciò, tanto valeva che se ne andasse a letto.
Si trascinò nuovamente tra i corridoi e gli scaffali, silenziosa e inafferrabile come una nuvola, ugualmente carica di tempesta. Un improvviso rumore, però, la indusse suo malgrado a fermarsi: il tonfo di alcuni libri che cadevano sul pavimento, seguito da una nuova, irritante risata.
Ma dove diamine credevano di trovarsi?
Per un solo istante, Hermione valutò seriamente l’idea di infischiarsene e continuare imperterrita per la sua strada, ma poi qualcosa la richiamò all’ordine: l’eco di un’antica sé stessa, che la costrinse a voltarsi e dirigersi a passo di marcia verso la fonte di quei rumori molesti. Gli ingranaggi della sua mente giravano velocissimi al pensiero della ramanzina che avrebbe riservato a quegli ignari studenti, sfortunati perché incappati nell’ultima persona che avrebbero mai voluto e dovuto incontrare.
A man mano che avanzava, i suoni divenivano sempre più nitidi: distinse chiaramente due voci, una femminile ed una maschile, accompagnate da innumerevoli fruscii e sospiri. Rumori, per così dire, inconfondibili.
Possibile che non avessero trovato luogo migliore per dar sfogo ai loro bassi istinti?!
Svoltò due volte a destra, poi una a sinistra, certa, ormai, che i due si trovassero nei pressi della sezione di “Storia della Magia”, la zona perfetta per chi non volesse essere disturbato.
Maledizione!
L'aria che respirava sembrava stantia, quasi qualcuno l'avesse avvelenata, facendo sì che solo a fatica si potesse respirare. Hermione si convinse che la sua fosse solo un'impressione dovuta alla terribile stanchezza, ignara del fatale errore che il passo successivo la conduceva a fare.
Giunta all'imbocco dell'ultimo corridoio fu costretta, tuttavia, ad arrestare di colpo la sua avanzata: due figure si ergevano in lontananza, i cui connotati, dopo un primo istante di sgomento, le furono atrocemente inconfondibili.
Una ragazza le dava le spalle, la parte superiore della divisa abbandonata ai suoi piedi, un paio di grandi ed avide mani che ne esploravano pelle, poi scostavano la gonna. Sospiri che divennero gemiti, e muscoli che si contraevano e distendevano nella disperata ricerca del piacere.
Una cascata di capelli platino le accarezzava la curva leggera del collo, quasi certamente compagni di baci e carezze a fior di labbra. Hermione avrebbe soltanto voluto cavarsi gli occhi e il cuore.
All'improvviso, la nuca dell’amante ebbe un guizzo ed alzò lo sguardo, incrociando quello della caposcuola. Per un solo, interminabile istante, il mondo intero perse di consistenza. La giovane pensò quasi di riuscire a scorgere qualcosa in quegli occhi, qualcosa di diverso e inaspettato, qualcosa che mai si sarebbe aspettata di trovarvi.
Allo stesso modo, il ragazzo pareva osservarla rapito, dimentico di essere ad appena un soffio dallo sfacelo della lussuria
- Draco? - un roco sussurro, quasi inudibile, ma che permise al velo del rimpianto e della colpa di calare tra di loro, spezzandoli, stordendoli, separandoli.
Hermione premette con forza la mano sulla bocca, lanciando un'ultima occhiata, per poi voltarsi e correre forte.
Lontano.
Via da quel luogo, dal suo amore.

Tempo.
Osservo la sabbia scorrere nella clessidra e penso al tempo: quanto sprecato, gettato, ignorato.
Penso al tempo passato, ai ricordi, e a quello futuro, alla speranza.
Penso al tempo che sto vivendo e a come la maggior parte di noi lasci che esso semplicemente scivoli via, senza darvi importanza.
Penso.
Penso al tempo come al dono più grande che un individuo possa fare ad un altro, perché nessuno può sapere in anticipo quanto ce ne sia concesso.
Ti cerco e penso al fatto che, se potessi, non avrei dubbi: tutto il mio tempo non lo donerei che a te.

Il ticchettio di un paio di scarpe rimbombava attraverso le mura di pietra del castello di Hogwarts, illuminate solo dal lieve chiarore della luna attraverso le vetrate. Il clima era particolarmente freddo, di quel tipo pungente e umido che ti penetra fin dentro le ossa.
Il cielo era limpido, nonostante la stagione, con mille stelle ad impreziosirne il ricamo. Una di quelle notti in cui gli amanti non possono fare a meno di cercarsi, rischiando di morire al fuoco della loro passione.
Anche Hermione Granger si sentiva dilaniata, ma da un fuoco diverso, molto meno piacevole. Si consumava al pensiero di qualcuno che neanche la guardava, anelando ai suoi insulti come alla dimostrazione che, in un modo o nell'altro, lui l'aveva notata, era consapevole della sua esistenza.
Patetico, vero?
Era bastato un amore come quello a inchiodarle le ali.
Ma come poteva evitare di amarlo? Come poteva evitare che quei sentimenti la tormentassero giorno e notte, che il suo cuore esplodesse al suono della sua voce, ed un brivido la percorresse, lasciandola completamente inerme?
Si accostò ad uno dei finestroni, osservando con occhi malinconici la luna che si ergeva, fiera e solitaria, nel cupo cielo del nord. Si sfilò le scarpe, sobbalzando al contatto col pavimento, dopodiché si arrampicò sul davanzale e strinse le ginocchia al petto: da ore la affliggeva una tremenda emicrania, che parve attenuarsi al contatto col vetro gelato, così come il senso di nausea.
Com’era stata la sua vita prima? C’erano stati gioia, amore?
Non ne era sicura, non riusciva a richiamare nessuna di quelle sensazioni, a riviverle, quasi fossero state annullate per sempre. Non erano gli occhi, ma il cuore ad essere divenuto cieco. Si muoveva incerto, spaventato, prigioniero di una selva oscura dalla quale sembrava impossibile trovare una via d’uscita.
Caro poeta dimenticato, dietro quale porta ti starai celando?
Nessuna guida autorevole le era stata concessa, neanche quella della fede.
E, d'altronde, di quale fede – speranza – avrebbe mai potuto parlare una come lei?
Una ragazza perduta.
Sentiva il rimorso per i suoi sbagli attaccarsi alla pelle, insozzarla come catrame. Le rendeva difficile muoversi, superare l’ostacolo, andare avanti. Per quanto si sforzasse, per quanto tentasse, per quanto agonizzasse.
Lurida Sanguesporco.
La mano le scivolò dal grembo, stringendosi spasmodicamente al bordo del davanzale. La pietra ruvida le graffiò il palmo, mentre piccole schegge le si conficcavano al di sotto delle unghie e qualche goccia di sangue si riversava sul pavimento. Lei lo odiava.
Ti distruggerò.
Il respiro era affaticato, quasi le costasse fatica, ed un tremito convulso le trapassava le membra, sfiancandola.
Osservò il palmo della mano, le ferite appena inferte ed il liquido cremisi che le colava sulla gonna e imbrattava la camicia. Era sicura che quel sangue non avrebbe avuto nulla di diverso dal suo: non il colore, l'odore o il sapore; era il valore a discriminarlo, valore che, non importava quanto fosse eccellente il suo rendimento o irreprensibile il suo comportamento, lei non avrebbe avuto mai.
Putrida, fetida sanguesporco. Se lo ripeteva in continuazione, come una cantilena, un promemoria che non le risparmiasse neanche un istante di dolore. Sentiva il sapore di quelle parole sulla lingua, ne avvertiva la consistenza mentre si sforzava di inghiottirle e loro iniziavano a farsi strada dentro di lei, fino al cuore. Lo avevano avvelenato, quel cuore, ridotto ad un misero ammasso di carne, fatto a pezzi e lasciato a marcire.
Chi era stato a dare forma all'amore? Possibile che Dio, nella sua infinita saggezza, avesse potuto creare qualcosa di così distruttivo, così dilaniante?
Sì, si disse, perché in natura ogni cosa ne genera un'altra che abbia forza uguale e contraria: così, come esiste la vita, esiste anche la morte. Il suo amore era la morte, quando avrebbe potuto essere vita.
Reclinò il capo, chiudendo gli occhi ed inspirando a fondo: la fatica per la giornata appena trascorsa, per tutti quei giorni trascorsi, e per le notti insonni e tormentate, com'era prevedibile, cominciavano a farsi sentire. Avrebbe chiuso gli occhi, solo per qualche attimo.

Immagini.
La punta delle tue dita che mi sfiora il viso e poi scende giù, lungo il collo, il profilo del seno. Tremo.
Sento il tuo volto che si avvicina al mio, il respiro caldo che mi investe, mi solletica. Spalanco gli occhi e il tuo sguardo si specchia nel mio. Nessuno dei due parla, perché le parole non sono che un ornamento superfluo a questo momento che è solo nostro.
Il tuo respiro è appena un po' affaticato, eppure tanto basta a che un prepotente languore si insinui dentro di me. Schiudo le labbra, le gote arrossate, un invito. Quasi mi ritraggo quando ti vedo inarcare un sopracciglio, ma tu precedi qualsiasi mio movimento, da perfetto predatore, baciandomi con ferocia.
Ti basta poco per prendere possesso della mia bocca, non ti aspettavi di trovarla tanto cedevole, vero?
A poco a poco, la violenza di quel gesto, la fretta e la rabbia, si attenuano, lasciano il posto ad un lento assaggio, una nuova consapevolezza.
Chissà se ti piace quello che senti?, non posso fare a meno di chiedermi.
Dov'è finito tutto l'odio, tutto il disgusto e la prepotenza che mi hai gettato addosso in questi anni? Che sia stata la luna a sorgere finalmente benigna sul nostro avvenire?
Quando ti stacchi da me ansimo forte, perché vederti nuovamente lontano mi toglie il fiato e vorrei piangere, urlarti di non smettere, di starmi vicino sempre.
Vedo la tua espressione cambiare, dirmi più di quanto la tua voce potrà mai fare, e capisco che non ho bisogno di spiegare, che tu sai esattamente cosa provo perché è ciò che anche tu senti. Il mio cuore sembra esplodere a questa consapevolezza.
Ti riavvicini, stavolta lentamente, e inizi a percorrere con le labbra il profilo della mia mascella, proseguendo lungo l'incavo del collo. Qualcosa di morbido e caldo mi sfiora la pelle: vuoi imprimere il mio sapore in ogni parte di te, lo so, come vorrei io.
Decido che è giunto il momento di afferrare saldamente il coraggio: allungo le mani, titubante, e lascio che le dita scivolino tra i tuoi capelli. Ti avverto improvvisamente rigido e penso di aver sbagliato, di aver rovinato tutto, ma un tuo sospiro strozzato mi incita ad andare avanti.
Inspiro l'odore che emani fin dentro l'anima, affinché dalla mia memoria non possa essere strappato: sai di mirtilli, di un vento fresco d'autunno, una ninna nanna cantata ad una culla vuota. Ho passato tanto di quel tempo a sognare un simile istante, che adesso, mentre lo afferro e lo stringo forte, pare quasi sfuggirmi. Voglio cucirlo più volte al mio cuore, perché non possa più scappare.
Stringo le dita più forte e tiro: voglio guardarti. La luce della luna ti illumina il profilo, rendendo la pelle di un pallore perlaceo, illuminandoti gli occhi.
Eri così bello anche prima, o lo sei di più adesso, con me?
Fronte contro fronte, il mondo intero caduto in un limbo di sentimenti che non riesco a frenare, non voglio frenare. Non posso aspettare, né essere cauta: se questa notte è tutto ciò che mi resta, io devo viverla.
Nessun rimpianto, mi avvento sulla tua bocca e ti bacio come se ne dipendesse la mia vita, e non sbaglio.
La passione... non l'avevo mai conosciuta davvero, ora lo so. Non gli spasimi che mi attraversano, le contrazione allo stomaco o il caldo soffocante che, d'improvviso, sembra invitarmi a denudarmi di qualsiasi indumento. La tua mano si muove, si sposta verso i bottoni della mia camicia, sfilandoli dalle asole uno alla volta, cauta. Potrei impazzire.
Inizi ad esplorare ogni centimetro della mia pelle, ad assaggiarlo famelico. Un gemito mi sfugge, le tue mani scendono ancora, sotto l'orlo della gonna. Annaspo.
Ti prego, mi accontenti. Mi sento morire.
Esiti, cosa ti spaventa?
Mi accarezzi dolcemente.
Non avere paura.
Non ho paura.
Non c'è più freddo o buio, ci sei tu e il tuo corpo che si accosta fremente al mio.
Ti togli il mantello e lo stendi sul pavimento, allungando la mano nella mia direzione. La afferro e mi lascio guidare: mi ritrovo supina, la tua figura che mi sovrasta.
Fermo immagine.
Amami. Senza limiti o recriminazioni, senza pietà.
Quante volte, nell'arco di una vita, un essere umano può essere colpito da un sentimento simile?
Una, forse mai.
Non credere a quel che dicono gli altri: l'amore, quello vero, non passa, né può essere soppiantato. Tuttalpiù, si impara a vivere nella mancanza: di uno sguardo, una carezza, una parola. E' una sensazione lacerante: ti entra dentro e, quando te ne rendi conto, è già troppo tardi.
Ti voglio.
Ogni sospiro è una preghiera, ogni gemito un inno alla gloria di questo momento. Sguardo carico di adorazione, vestiti gettati alla rinfusa, ti sento spingerti profondamente dentro di me. Delicato al principio, poi sempre più frenetico. Inarco la schiena, mentre discendi a baciarmi l'avvallamento fra i seni, lascivo.
Di più.
Afferri tra le labbra un capezzolo, lambendo, mordendo. Una spinta più poderosa delle altre mi fa' quasi urlare.
Dio, non fermarti.
Avverto la disperata urgenza che hai nel farmi tua, questo doloroso desiderio di possesso che mi imprime sulla pelle la scia velenosa di un addio non ancora pronunciato.  
La mia anima trepida al culmine dell'estasi: tu ricongiungi le labbra alle mie, soffocando i nostri respiri. Mi vien da pensare che forse dell'aria non ho mai avuto bisogno.
Stringimi, non mi lasciare.
Ti lascio adagiare la testa sul mio petto, il tuo respiro che mi solletica la pelle. C'è quiete e bellezza, nel luogo a cui da sempre sono destinata.
Mi dispiace.
Impiego qualche secondo a capire, le tue parole mi confondono.
Perché? Cosa intendi dire?
Credevo che amare significasse non dover mai dire mi dispiace, ma ora, guardandoti, capisco che a volte le nostre scuse sono qualcosa dietro cui nasconderci, grazie alle quali poter scappare.
Vuoi scappare?
Perdonami.
La tua espressione infelice è l'ultima cosa che riesco a vedere.
Mia piccola Hermione.

Quando quella mattina si risvegliò nel suo letto, Hermione Granger non riuscì in alcun modo a rammentare come vi fosse arrivata. L'ultimo ricordo della sera precedente riguardava il suo soliloquio al chiaro di luna nei corridoi, poi...
...e poi?
...un'ombra, un sogno che non riusciva a chiarire.
Possibile che...?
Scosse con vigore il capo e rise, come non faceva da tempo.
No, cosa vado a pensare: è impossibile!
- Hermione... -
- Oh, scusami Ginny - la piccola Weasley si alzò a sedere sul letto, faccia assonnata e capelli arruffati peggio che se un pipistrello avesse deciso di farvi il nido
- Sei allegra - notò, caustica
- Capita - fu la risposta poco esaustiva dell'amica
- Mmm - no, ancora non era abbastanza in forze per poter affrontare una seria conversazione - Tu non me la racconti giusta - dichiarò, stendendosi nuovamente - Ma non temere... - sbadiglio - Ti farò confessare - e si riaddormentò.
Appena Hermione fu sicura che la ragazza dormisse profondamente, scostò le coperte e, a piedi nudi, si accostò alla finestra. Spalancò le vetrate il più silenziosamente possibile, lasciando che la fredda brezza mattutina le investisse il viso, mentre i raggi del sole la costringevano a coprirsi la vista.
Una volta che si fu abituata alla luce, poté scorgere in lontananza la figura, apparentemente placida, del platano picchiatore. Il paesaggio era quello tipico della stagione: spoglio, malinconico, morto; eppure...
...eppure sembra diverso.
L'avvertiva dentro, in un punto imprecisato del suo petto: un tenue tepore, una luce di verde speranza. Era il sorriso che l'aveva vista svegliarsi, il dolce sapore che ancora aleggiava sulle sue labbra e il suo sangue, non più sporco, ma solo speciale.
Sì, si disse, andrà tutto bene.

E' tempo.
Presto, molto presto, il mondo intero saprà che sei mia.
Ti senti abbastanza coraggiosa per questo, mia piccola Hermione?

Goodbye, my almost lover
Goodbye, my hopeless dream
I'm trying not to think about you
Can't you just let me be?
So long, my luckless romance
My back is turned to you
I should've known you'd bring me heartache
Almost lovers always do.
(A Fine Frenzy – Almost Lover)

Libere Interpretazioni:

–    La storia è ambientata in un ipotetico settimo anno ad Hogwarts, in questo caso, frequentando Hermione e Ginny lo stesso anno, si ritrovano ad essere compagne di dormitorio.
–    Il personaggio di Hermione verrà probabilmente considerato da molti OOC, il quale è ovviamente presente tra gli avvertimenti. Detto ciò, volevo narrare cosa sarebbe accaduto ad una ragazza razionale se fosse stata colpita dal sentimento più irrazionale che esista e quello che avete letto è il risultato.
–    La questione della sezione della biblioteca dedicata a Storia della magia è, come credo abbiate capito, una mia invenzione. Non so, credevo potesse andar bene.
–    La Dalia... bè, forse un giorno capirete il perché della mia scelta.

Note:

–    La frase “Mi sono lasciata ghermire e ingannare, accecare da un velo che ha tramutato la realtà in parvenza e le illusioni in certezza.” è un'allusione alla teoria del velo di Maya di Schopenhauer.
–    Il mostro è un'altra allusione, questa volta alla storia di Teseo e del Minotauro.
–    La selva oscura, il poeta, la guida sono, ovviamente, riferimenti a Dante e alla Divina Commedia.
–    La frase “Credevo che amare significasse non dover mai dire mi dispiace” è liberamente tratta dal film “Love Story”.

Spazio Autrice:

Ho cominciato a scrivere questa storia il 16 Gennaio 2013 e l'ho terminata il 27 Giugno 2013, più di cinque mesi dopo. In parte sono fiera di ciò che ho scritto, in parte non lo sono affatto: non so neanch'io come spiegare la cosa. Ho solo una certezza: in queste pagine ho riversato tutto quel che sono, che si tratti di cose belle o brutte starà a voi giudicarlo: ogni critica, fatta col dovuto rispetto, sarà sempre bene accetta.
Nel caso in cui la mia storia vi piacesse, vi pregherei di aiutarmi a farla conoscere: condividendola, suggerendola ad amici... davvero, ve ne sarei eternamente grata.
Bè, non voglio annoiarvi ulteriormente: nel caso siate giunte a leggere sin qui, vi ringrazio dal più profondo del mio cuore e spero tanto la storia vi sia piaciuta.
A presto,
La bambina fantasma.
   
 
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