Don’t
die before I do
Con tanto
amore dedico questa os a Ilenia,
perché
me l’ha chiesta e non potevo proprio dirle di
no.
Non aveva avuto
il tempo di gridare, Stiles. Certo, avrebbe dovuto
immaginare che con quello che stava succedendo a Beacon Hills andarsene
in giro
da solo non rientrava fra le mosse più astute da compiere.
Il fatto era che
aver visto con i propri occhi il cadavere di Heather aveva costituito
uno shock
troppo grande. A volte Stiles si rendeva conto di non farcela. La
conosceva da
quando era una bambina piccola, quella ragazza, da quando sulla faccia
del sole
disegnava occhi, naso e bocca. Si sentì un po’
sciocco per quello, ma era anche
colei che per qualche minuto l’aveva fatto sentire desiderato
e le era
riconoscente per averlo reso un po’ meno sfigato del solito.
Un buon profumo e
la consistenza sottile dei suoi capelli biondi, ecco cosa gli rimaneva
del loro
bacio in cantina; ecco cosa gli rimaneva di lei, insieme a un brivido
sensuale
che contrastava con l’immagine di lei a sei anni.
Aveva avvertito
l’urgenza di fare due passi, di respirare aria fresca e
mettersi in pari con quello che doveva affrontare. Non c’era
tempo a Beacon
Hills per fermarsi a leccarsi le ferite; quindi, prima avrebbe cacciato
quella
voglia di piangere e meglio sarebbe stato. Sfortunatamente la sua
decisione si
era rivelata incauta e oltremodo pericolosa. L’avevano
acciuffato in due, senza
tante cerimonie, e per quanto lui si fosse dimenato per liberarsi e
avesse
tentato di urlare in cerca d’aiuto, quelli erano stati
talmente rapidi a
tappargli la bocca e a sollevarlo che l’avevano caricato in
macchina in meno di
cinque secondi e sbattuto sul tappetino.
«Chi
siete?» mugugnò Stiles, nel panico, mentre i due
tizi lo tenevano
fermo a terra schiacciandogli il torace con i piedi e un terzo faceva
partire
l’auto sgommando. Avevano il viso coperto da un
passamontagna, ma il ragazzo
sapeva che non potevano essere semplici criminali. L’unica
risposta che
ricevette fu un pugno in piena faccia.
Il suono sordo
di nocche contro la carne e le ossa, poi il dolore prese
a pulsare sulle sue labbra accaldate e bastò un tocco fugace
della lingua sul
taglio per assaporare il sangue tiepido e dolciastro che le bagnava. Cosa poteva dire,
Stiles? “Sono
il figlio dello sceriffo!”. No, come se non lo sapessero. E
se non lo sapevano,
meglio tenerli alla larga da suo padre. “Dove mi state
portando?”. No, nessuna domanda
sarebbe suonata più stupida. Eppure Stiles voleva urlare,
urlare che non bastava
picchiarlo per tenerlo buono. «Perché fate questo,
eh? Chi è il capo?»
«Tappagli
la bocca, T.» ordinò quello alla guida, a uno
degli altri.
L’uomo alla destra di Stiles si abbassò e gli
serrò la gola in una stretta
d’acciaio. Aveva una mano grande, forzava quel collo fragile
con estrema
facilità e gli toglieva il respiro. Stiles non riusciva
nemmeno a tossire e si
aggrappava a quelle dita troppo forti nel tentativo di levarsele di
dosso,
annaspando in cerca di aria che non riusciva a raggiungere. Ma lo
sconosciuto
accentuò la morsa, tranquillamente, come se uccidere non lo
turbasse; gli fece
sentire quanto potere aveva su di lui che non era nient’altro
che un ragazzino
spaventato, gli fece credere di potergli togliere la vita stringendo
ancora un
po’, solo un po’ davvero… E poi
lasciò andare, con un sibilo minaccioso: «Hai
capito cosa ti succede se parli?»
E la testa di
Stiles ciondolò in avanti, la bocca spalancata a risucchiare
finalmente quanto più ossigeno possibile. Le lacrime si
addensavano nei suoi
occhi e le tempie pulsavano dolorosamente per lo sforzo a cui era
appena stato
sottoposto. Ancora una volta, si sentì vulnerabile,
c’era abituato. Si ricordò
però che adesso era solo: non c’era Scott, non
c’era nessuno. Solo. I rapitori
lo spinsero di lato, costringendo la sua faccia contro il tappetino. La
suola
pesante di uno scarpone si adagiava con forza sul suo orecchio e dietro
la nuca
per tenerlo fermo, la costola gli faceva male e il sangue seccava sul
labbro
bollente. “Dio” pensava “Dio,
morirò senza aver salutato mio padre…”
L’auto
incappava in numerose buche, segno che si stavano allontanando
dalla città, e Stiles in quella posizione forzosa sentiva
tutto sulla faccia,
ogni falla dell’asfalto. Ad ogni contraccolpo il piede finiva
col calpestare con
maggior forza la sua testa. Testa che, diavolo, sembrava scoppiare.
Desiderava
abbandonarsi ad un pianto ristoratore, un ultimo pianto magari. Ma la
gola
dolorante si rifiutava di nutrire i suoi singhiozzi. Faceva fatica a
respirare,
figurarsi a piangere. Quelli che reputava i suoi ultimi pensieri si
accalcavano
l’uno sull’altro e sbattevano contro le pareti del
cervello con ali taglienti. Il
cuore dopo un po’ decelerò il battito impetuoso
arrendendosi alla prospettiva
che non ci fosse alcuno scampo. Sperava solo che la Triplice Morte non
facesse
male, non così tanto.
Le botte,
però, quelle sì che facevano male.
«Pessima
guida, amico. Potevi fare attenzione a tutte quelle buche.»
bofonchiò, sarcastico fino alla fine, mentre dopo averlo
bendato lo
trascinavano da qualche parte sullo sterrato. Una parola di troppo,
l’ennesima
che gli era sfuggita, gli costò cara. Appena furono
all’interno di un casolare,
una pioggia di calci e pugni gli si rovesciò addosso. Stiles
accusò colpo su
colpo, inerme, raggomitolandosi per istinto come nel grembo materno per
offrire
meno spazio alle offese. Queste si scaricarono sulla schiena e lungo le
gambe e
sulle braccia e sulle dita che tentavano di proteggere la faccia. Le
percosse infierirono
malignamente sulle giunture, a botte poderose aprirono i capillari
nella pelle
pallida della schiena, ammaccarono i muscoli tesi, raggiunsero il naso
e
tolsero a Stiles anche la minima volontà di opporre
resistenza. Dopo una serie
di rumori secchi che ammorbarono l’atmosfera di disfatta, di
lui non restò che
un cumulo tremante di lividi e lacrime che aveva a malapena la forza di
sussurrare“basta,
basta” con le labbra imbrattate di sangue.
«Non
ti uccideremo, non ora. Ordini dall’alto.» disse
uno di quei bastardi
prima di chiuderlo a chiave in uno stanzino. Incapace di muoversi,
Stiles,
sopraffatto dal dolore, umiliato per la propria umana debolezza, si
accucciò in
quello che aveva tutta l’aria di essere un polveroso
ripostiglio vuoto, senza
finestre.
Il tanfo di
stantio nelle sue narici si mescolava al sapore metallico
del sangue che aveva in gola, sulla lingua, addosso. Lo
sputò fuori. Il suo
intero corpo era intorpidito da una sofferenza incessante, rimarcata a
fuoco in
alcuni punti. Gli mancava già l’aria e odiava
sentirsi piagnucolare per la
bassa tolleranza del dolore. Dentro, gli sembrava che spilloni aguzzi
risalissero lungo la trachea disseminando sangue e gelo; fuori, fiamme
all’arsenico ardevano sulla sua pelle, implacabili,
crepitanti.
Al buio, la
disperazione era più nera, cruda, asfissiante.
Allungò
la mano dietro di sé, verso la tasca posteriore dei
pantaloni e
gemette. Anche un minuscolo movimento richiedeva un grande sforzo
muscolare e
acuiva il supplizio. Il cellulare, benedizione, c’era ancora.
Una flebile
speranza gli fece mancare un battito. Osservò lo schermo.
Ovviamente,
ovviamente era troppo bello, troppo facile per essere vero. Non
c’era campo. Si
lasciò scappare un lamento di frustrazione e
continuò a fissare il simbolo
sullo schermo pregando che comparisse anche solo una tacca.
“Per favore, per
favore, per favore”. Niente, niente, niente. Voleva morire.
Ironia; tanto,
sarebbe morto comunque. Lo spense, lo riaccese, ultima spiaggia. E
sì, sì, una
piccola tacca solitaria comparve facendogli esplodere il cuore.
Aprì la rubrica
e chiamò il primo numero che gli venne in mente, mentre
lacrime di sollievo
solcavano copiose le sue guance.
«Stiles?»
«Derek.»
il ragazzo sussurrò nel ricevitore, terrorizzato
all’idea che i
rapitori potessero sentirlo «Oh mio dio, mi hanno…
mi hanno rapito.»
L’Alpha
sbatté le palpebre, la mano che si chiudeva con veemenza
attorno
al telefono «Cos- Sai dove ti hanno portato?»
«So
solo che dev’essere fuori città. Dieci minuti di
strada oltre la
periferia, credo.» ansimò Stiles.
«A
nord, a sud? DOVE.» domandò l’altro,
feroce.
«Non
lo so. Era una strada piena di stramaledette buche. Ti prego,
Derek.»
«Ti
troverò.»
«Fai
presto, mi uccideranno. Non so per quanto tempo potrò
resistere.»
«Stiles…»
«Dico
sul serio. I sacrifici umani! Derek… ho
solo…»
«Sto
arriv-.»
E la linea,
già debole e frusciante, cadde.
Nel penoso
silenzio che lo avvolgeva, Stiles cominciò a pregare. Nessun
dio, ma l’Alpha. Pregò che Derek riuscisse a
trovarlo in tempo.
Quando
l’aveva appena conosciuto non si sarebbe mai sognato in una
situazione del genere di chiedere aiuto proprio a lui, ad una persona
di cui
aveva paura e di cui non si fidava; da allora però erano
cambiate parecchie
cose.
Sfibrato nel
corpo ma rinfrancato nello spirito, si raggomitolò sul
pavimento e chiuse gli occhi. Lo spasmo di un colpo di tosse si
irradiò lungo
tutte le sue membra, sprigionando un’esplosione
più pungente di dolore arroventato
che lo indusse a nuove lacrime. Era a pezzi, in bilico fra la vita e la
morte,
in mano a dei pazzi che trattavano la gente come carne da macello.
Mentre
respirava a fatica l’aria fetida di quello spazio angusto si
tenne ancorato ad
una speranza di nome Derek Hale.
Derek
salì a bordo della Toyota e cercò di sgomberare
la mente da
un’apprensione che l’avrebbe portato ad errare. Non
c’erano chances da giocare,
non sapeva di quanto tempo disponesse prima della fine e aveva un solo
indizio:
strada piena di buche che conduceva fuori città. Dedusse che
poteva trattarsi
di una diramazione della provinciale a sud, dallo stesso lato della
riserva,
dove viuzze malmesse serpeggiavano fino alle colline.
Avvertendo la
rabbia che affondava i denti nel suo cuore, si chiese chi
mai avesse osato rapire Stiles. Ad ogni modo, chiunque fosse stato, non
ne
sarebbe uscito indenne. Derek fremeva dal desiderio di squarciar loro
il petto
con gli artigli. Inesorabilmente, sentiva l’animale farsi
largo nella sua
coscienza.
Preferì
non dire niente a Scott ed Isaac, che si stavano occupando di Boyd
e Cora. Derek aveva già tenuto il cadavere di Erica fra le
braccia e pianto
l’ennesima perdita, non aveva intenzione di ripetere
l’esperienza mentre era
già spaccato in due dal dolore. Premette a fondo il piede
sull’acceleratore e abbassò
il finestrino. L’unico modo per trovare Stiles era
rintracciarlo dall’odore. Un
odore che la memoria olfattiva di Derek non avrebbe confuso con nessun
altro.
«Tiralo
fuori di lì. Abbiamo ricevuto l’ordine. Il
sacrificio va
compiuto adesso.»
Quando le
orecchie di Stiles captarono quelle parole oltre la porta, il
senso di panico lo attanagliò allo stomaco e si espresse
fisicamente col
frizzare elettrico delle ferite. “No, no, no, no.”
si ripeté, incredulo.
«Derek…» piangendo mormorò il
nome dell’Alpha, come se quello potesse sentirsi
chiamare, anche con un filo di voce; come se esprimendo un ultimo
desiderio, il
lupo sarebbe potuto apparire magicamente per salvare il suo patetico
culo. Ma
Derek non arrivava, e il rumore dei passi che si avvicinavano allo
stanzino
aumentava d’intensità. Odiava quegli scarponi che
l’avevano massacrato,
facevano un baccano assordante sul pavimento.
Pensò
a troppe cose tutte insieme, Stiles, quando la porta fu aperta e
uno dei loschi figuri si stagliò dinanzi a lui in
controluce. Pensò alle
persone che aveva conosciuto, le vide accavallarsi davanti ai suoi
occhi sottoforma
di colori, suoni, sensazioni… Suo padre, Scott, Lydia,
Allison, Isaac, Melissa,
Peter, Danny, Erica, Boyd, Heather, Jackson che era a Londra, gli Alpha
che
sembravano degli psicopatici… Passanti, il tizio del bar, le
drag queen, gli
Argent, la sua vicina di casa, il tipo che faceva jogging la mattina
alle sei… Pensò
a sua madre, ai suoi abbracci che gli erano stati sottratti troppo
presto.
Pensò ai sogni segreti che non aveva rivelato neppure a
Scott, pensò alla
voglia di riscattarsi che non avrebbe mai trovato soddisfazione,
pensò agli
ostacoli che con costanza aveva superato solo per cadere alla fine in
una morte
da perdente. Pensò al compito di chimica per il
lunedì, al suo banco che
sarebbe stato vuoto, a chi non avrebbe nemmeno notato la sua assenza.
Pensò
alla figura di Derek, a come nel tempo erano cambiati i sentimenti nei
suoi
confronti e al fatto che comunque era stato la speranza a cui si era
aggrappato
negli ultimi minuti di vita…
Poi delle gomme
frenarono di botto sullo sterrato, là fuori a pochi
metri di distanza. Lo sentì benissimo. In una frazione di
secondo la porta
della casa si aprì di schianto e il ringhio possente di
Derek lacerò le sue paure.
Sì, era Derek. Stiles sapeva che era Derek. La gioia
deflagrò in lui,
viscerale, potentissima.
Il rapitore si
precipitò in soccorso degli altri due complici che, a
giudicare dal gran baccano di assi fracassate, erano piombati contro il
tavolo.
«Derek!» urlò Stiles, tirandosi su
almeno con la schiena e addossandosi
faticosamente al muro. Le ginocchia gli cedettero, sudava freddo, nel
cuore una
turbina impazzita pompava sangue tanto veloce da dargli i capogiri.
«Derek!»
gridò ancora, strisciando verso l’uscio aperto.
Udì
altri ringhi, altri tonfi, l’inequivocabile brusca melodia di
una
lotta, della vittoria incontrastata di un Alpha su tre miserandi esseri
umani.
Non aveva mai ascoltato niente di più bello.
«Stiles!
Andiamo via di… qui.»
la voce di Derek s’incrinò non appena
l’ebbe raggiunto. Gli bastò un’occhiata
per capire che l’avevano conciato davvero male.
«Riesci a camminare?»
Stiles
tentò di ergersi in piedi ma era come se nessuna parte del
suo
organismo volesse obbedire ai comandi impartiti dal cervello. Si
trascinò
appena, scosse la testa, poi lasciò ricadere il capo sul
pavimento, avvilito.
Derek
sembrò valutare il da farsi solo per pochi secondi. Poi,
senza
dire nulla, si piegò sulle ginocchia e sollevò
Stiles di peso, conducendolo
fuori di lì. Mentre correvano verso la macchina, Stiles
–che non aveva neppure
la forza di reggersi a lui– percepiva il respiro affannato di
Derek
solleticargli la fronte. E lì per lì non
capì perché. I poteri sovrannaturali
dell’Alpha non lo rendevano immune ad una così
piccola fatica? «Grazie.» mugolò
soltanto, felice di essere ancora aggrappato ad un barlume di vita, di
essere
sorretto dalle braccia forti e sicure di Derek e di poter respirare
l’aria
pulita della sera e il profumo impigliato nella sua maglietta. Quando
quello lo
caricò sul sedile posteriore dell’auto,
adagiandolo con gentilezza, Stiles si
rese conto che non l’aveva mai visto comportarsi in maniera
tanto delicata.
«Grazie.» ripeté, non appena Derek prese
posto alla guida e mise in moto la
Toyota.
«Hai
chiamato la polizia?» domandò l’Alpha,
asettico, combattendo contro
le proprie emozioni. Non riusciva nemmeno a voltarsi per guardare
Stiles in
faccia, non poteva permettere di lasciarsi soggiogare da quel vortice
di dolore
che gli risucchiava il cuore. Grazie al cielo era arrivato in tempo.
Grazie al
cielo quel ragazzino rompiscatole poteva sfinirlo ancora di
chiacchiere. Ma
intanto l’avevano tartassato di colpi, e già
quello non sarebbe dovuto
accadere.
«No,
perché ero sicuro che mi avrebbero ucciso e non sopportavo
l’idea
che mio padre mi avrebbe trovato in quello stato.»
ansimò Stiles, sbattendo le
palpebre. Le lacrime asciugate dall’aria pizzicavano sulla
pelle. Chiuse gli
occhi, tranquillo, mentre l’auto percorreva la stessa strada
dell’andata con la
differenza che lui ora non sentiva nemmeno una di quelle dannate buche.
«Ma la
polizia avrebbe potuto rintracciare facilmente la telefonata! Io ti
ho trovato per miracolo. Perché hai chiamato me?»
Stiles
deglutì. Scavò dentro di sé alla
ricerca di risposte. Quando le
trovò, cercò di essere un uomo, di non piangere
di nuovo. «Perché a te non
importa se vivo o muoio,» rantolò «o se
mi riempiono di tante botte che non
riesco nemmeno a camminare. Mio padre sarebbe impazzito nel vedermi
così, non
volevo procurargli ferite più profonde di quelle che
già ha.»
Nell’abitacolo
calò il silenzio. Derek si fingeva concentrato
esclusivamente sulla guida, Stiles riposava. «Non portarmi in
ospedale, per
favore.» disse soltanto ad un certo punto il ragazzo
«Non voglio che mio padre
si preoccupi.»
E a quel punto a
Derek, per esaudire la richiesta, la miglior cosa da
fare parve una sola.
Quando
l’Alpha fece il suo ingresso nel proprio appartamento con
Stiles
fra le braccia, Isaac spalancò gli occhi e gli corse
incontro, preoccupato. «Cosa
gli è successo?»
«S-sto
bene, amico.» mormorò Stiles, per niente
convincente.
«Isaac,
per favore. Va’ a comprare cerotti e bende.» disse
Derek in tono
asciutto. Una scorta di simili oggetti non rientrava di certo fra gli
effetti
personali di un lupo mannaro.
«Vado!»
esclamò il Beta, gli occhi chiari baluginanti, avvolgendosi
una
sciarpa attorno al collo «Cora dorme nella mia stanza,
comunque. E Boyd è con
Scott.»
Derek
annuì, soddisfatto del lavoro svolto dai due,
pregò Isaac di
sbrigarsi e poi condusse Stiles su per la scala a chiocciola. La
tapparella
della sua camera era abbassata. Posò il corpo malconcio del
ragazzo sul letto
disfatto e non pronunciò una singola parola. Come sempre,
toccò all’altro.
«Puoi
accendere la luce? Non voglio stare al buio…»
chiese Stiles. Ne aveva
avuta abbastanza di oscurità impregnata addosso.
Derek si sporse
verso
il comodino e lasciò che la lampada proiettasse fiochi raggi
di luce giallastra
su Stiles. L’Alpha aveva fatto di tutto per non guardarlo, ma
non poteva
sottrarsi a ciò che aveva davanti. Il sangue incrostato
disegnava rivoli
sinistri sull’occhio destro, sotto il naso e sul mento, lo
zigomo era livido e
graffiato, il labbro tumefatto. Su quel viso familiare era scomparsa
ogni
traccia di spensieratezza e di ironia, cedendo il passo a una smorfia
di dolore
che rendeva Stiles la più triste delle maschere.
«Non
avrei dovuto ascoltarti. Dovevo portarti in ospedale.»
bofonchiò l’Alpha,
scuotendo la testa.
«No.
Non ho niente di rotto.»
Derek volle
accertarsi dei danni. Serrando le labbra, si avvicinò a lui
e gli sollevò la maglietta trascurando gli
“ahia” di protesta. Il petto e il
costato di Stiles erano disseminati di ematomi.
«Girati.» ordinò, gelido,
accompagnando delicatamente il movimento del ragazzo. La schiena era
addirittura messa peggio, una mappa di colpi inferti senza coscienza.
«F-finito
con la visita medica? Sto bene.» borbottò quello
in un sospiro
spossato.
«Non
dire idiozie, se potessi vederti ti renderesti conto che non stai
affatto bene!» ringhiò Derek.
L’atteggiamento caparbio di Stiles lo irritava.
Cos’era
tutto quello per lui? Un gioco? Sembrava non comprendere la
gravità della
situazione. Derek addirittura non voleva accettare
l’accaduto; il fatto che
quel ragazzo fosse stato picchiato, il fatto che ora si trovasse sotto
la sua
protezione, il fatto che sembrasse così fragile, lo
rendevano a dir poco
nervoso. Si stropicciò la faccia con le mani, ritrovandosi
ancora una volta
messo con le spalle al muro dai sentimenti. Lui ci provava, davvero, ad
essere
l’Alpha che ci si aspettava che fosse, sicuro e calcolatore, ma
c’era sempre
qualcosa in cui falliva, sempre un motivo d’indecisione,
sempre un
tentennamento da correggere. Doveva accettare il fatto che, con Stiles
coperto
di lividi sdraiato sul suo letto, la sua debolezza, la sua paura più grande,
era quella di perderlo. E non si dava pena di capire come fosse
successo, o
quando; teneva a lui più che alla sua stessa vita,
c’era solo da prenderne
atto.
«Stiles…
per quello che mi hai detto prima, in macchina…»
sospirò, a
braccia conserte.
«Cosa…?»
«Mi importa se
vivi o muori, altrimenti non sarei venuto a cercarti.»
disse, sedendosi sul bordo del materasso. Mosse la mano verso di lui e
il cuore
di Stiles si agitò violentemente fra le costole, convinto
che Derek Hale
volesse accarezzarlo. Invece l’Alpha
fece qualcosa di diverso; gli sfiorò la guancia con
gentilezza, le dita che
lambivano l’orecchio e il collo, e lo guardò
dritto negli occhi mentre assorbiva
il dolore dal suo corpo. Stiles percepiva quel venefico calore
abbandonarlo
poco a poco, lo sentiva fisicamente strisciare via e sparire nella mano
di
Derek, mentre il battito cardiaco correva sfrenato nel silenzio che li
circondava. E il licantropo poteva afferrarlo, quel suono, il
più toccante che
avesse mai ascoltato: il piccolo cuore umano di Stiles che impazziva
per lui,
per la loro vicinanza. In quel momento realizzò che se
l’altro non avesse avuto
il labbro spaccato, l’avrebbe baciato finché
entrambi non avrebbero perso il
fiato. Si accontentò di tenere acceso il contatto visivo, di
lasciarsi cadere
nelle iridi profonde e umide di Stiles via via più sgombre
dalla sofferenza. Dannato ragazzino, non si
fosse azzardato a
morire prima di lui, per nessuna ragione al mondo!
Spero
di non aver deluso
le tue aspettative, Ile.
Ho
fatto il possibile,
honey ç.ç
Un
bacio a tutti,