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Autore: Nitrogen    29/06/2013    9 recensioni
Tornai a guardare la porta di fronte a me poggiando la testa alla mano e chiusi gli occhi: avevo la nausea e le vertigini, in aggiunta al bel quadretto c’era un mal di testa che si placava solo se smettevo di pensare. Non era facile sopportare tutti quei fastidi che avrebbero messo qualcun altro al tappeto e contemporaneamente risultare acida come se nulla mi causasse troppi problemi.
«Non sembra affatto spaventata.»
«Non ho motivo per esserlo.»
«Devo ricordarle che attualmente è detenuta in un ospedale psichiatrico?»

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Avvertenze: L'autrice di questa originale non è sana di mente, ragion per cui ha scritto una storia non adatta a stomaci deboli; violenza gratuita, linguaggio scurrile e sangue la fanno da padrone nella maggior parte dei capitoli. Siete stati avvisati.
Genere: Angst, Drammatico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Ai miei incubi,
che di idee malsane me ne regalano fin troppe.

 



 



Capitolo I
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L’effetto del narcotico stava finalmente svanendo. Dovevo aver perso i sensi per parecchio tempo perché quando rinvenni impiegai cinque minuti buoni solo per riuscire a muovere un dito; gli arti erano indolenziti e la testa in fiamme, pronunciare qualche frase di senso compiuto risultava impossibile a causa della scarsa salivazione e anche solo domandarsi il perché di tutto quel dolore ai polsi riusciva difficile.
Aprii gli occhi con uno sforzo inumano e rimasi accecata dalle luci troppo potenti sul soffitto bianco: guardare le pareti o il freddo pavimento di mattonelle, entrambi dello stesso pallore, risultava inutile e altrettanto faticoso, dunque aspettai che la vista si abituasse a quell’atroce fastidio versando qualche lacrima involontaria.
L’unica nota di colore in quella stanza era il mio stesso sangue ormai secco che macchiava una parte del pavimento e del muro. Ne sentivo leggermente il sapore metallico anche in bocca, ragion per cui passai in rassegna con la lingua tutti i denti delle due arcate senza però trovare differenze.
Impiegai qualche secondo di troppo per capire che i polsi erano bloccati dietro la schiena da delle manette ben strette e la caviglia destra da una catena incastrata a un gancio nel muro: il recupero delle mie facoltà cognitive si stava rivelando più complicato di quanto potessi immaginare.
Quando fui in grado di mettermi a sedere osservai la piccola stanza, che in realtà altro non era se non quattro mura di recente verniciatura – o addirittura costruzione – contenenti un altrettanto recente tavolo in lega metallica con due sedie anch’esse troppo nuove per poter dire siano state usate prima di quel giorno. Con quella catena alla caviglia potevo arrivare soltanto a una delle due sedie, ma non avevo ancora fatto i conti con le vertigini che mi presero non appena provai ad alzarmi dal pavimento.
Per la cronaca, arrivai comunque alla sedia anche se sbandando pericolosamente in ogni direzione. Avevo abbastanza determinazione da poter fare quasi ogni cosa, e altrettanta immotivata convinzione di essere abbastanza determinata da poter fare invece qualsiasi cosa. Non pensavo di essere inarrestabile su ogni fronte, ma mi tocca ammettere che ero molto piena di me proprio come se lo credessi davvero.
Non so quanto tempo aspettai con la testa sul tavolo, ma trovai il modo di non annoiarmi troppo costringendomi a un riepilogo generale di quel che avevo intuito stando in quella stanza spoglia e decisamente poco accogliente. Per prima cosa, non potei fare a meno di notare che non vedevo finestre e l’unica porta esistente sembrava pesantissima e di grande spessore, con un misero vetro oscurato e probabilmente unidirezionale dal quale qualcuno mi osservava. Non era una porta per niente abbordabile economicamente da un cittadino medio, e di conseguenza ero "ospite" di qualcuno di discreta rilevanza o che guadagnasse il triplo dei due stipendi mensili che recepivano i miei genitori. Inoltre, il sospetto che mi trovassi in un luogo per nulla piacevole dopo essere stata incastrata in tal modo non poteva che rivelarsi veritiero: lo scontro con la polizia era stato estenuante e il narcotico aveva svolto un ottimo lavoro, rinchiudermi da qualche parte e isolarmi non sarebbe risultato difficoltoso; e su questo ero pronta a giocarmi le scarpe che avrei tanto voluto avere. Tutto quel che mi copriva era un camice da paziente bianco, leggermente sbiadito da probabili troppi lavaggi. Non indossavo più nulla di quello che ricordavo.
Quando di fronte ai miei occhi si materializzò un uomo entrato dalla porta, non mi preoccupai nemmeno di sistemarmi meglio sulla sedia per ringraziare come si deve il padrone di casa per la sua ospitalità fatta di catene, manette e sangue. Era un uomo alto e robusto, dai capelli brizzolati, gli occhi scuri e allungati; indossava un camice da medico e con sé teneva una valigetta nera priva di graffi. Entrò nella stanza senza mai smettere di sorridere e prese posto dall’altro lato del tavolo, sulla sedia che non avrei mai potuto raggiungere nemmeno sforzandomi. Pure se avessi allungato un braccio, non sarei riuscita nemmeno a sfiorarlo.
«Nebraska Herstal, ragazza, sedici anni, nata a Dublino il 23 Settembre 1996 ma residente a Baltimora da quando aveva sei anni… Tutto esatto?»
Annuii dando uno sguardo annoiato sul foglio con i miei dati generali che aveva tirato fuori dalla valigetta; c’era anche una mia fototessera allegata, ma cercai di non pensare che rendeva ben poca giustizia al mio bell’aspetto ritornando a osservare l’uomo, ancora sorridente e con un accento che era ben lontano da quello americano o inglese. Il tesserino lo identificava come uno psichiatra, di nome Hijikata Kashim.
«Nebraska… Non è di certo un nome che le si addice dopo il putiferio che ha generato.»
Si sbagliava, ma non sul significato del mio nome decisamente poco adatto a qualcuno che di tranquillo non aveva nulla. Feci un sorriso forzato per ricambiare i suoi più naturali e continuai a starmene zitta. Non mi intimoriva la sua presenza nella stanza, ma sapevo che parlare a vuoto mi avrebbe causato problemi e finché riuscivo era meglio rispondere solo allo stretto indispensabile.
«Herstal, sa perché è qui?»
«Più o meno.»
Hijikata iniziò a scrivere furiosamente su un blocco appunti in precedenza riposto nella cartella.
«”Più o meno” non è la risposta che mi aspettavo da lei.»
«E cosa si aspettava? Un “sì” seguito da un bellissimo ghigno?»
Sorrise. Evidentemente avevo appena fatto centro.
Tornai a guardare la porta di fronte a me poggiando la testa alla mano e chiusi gli occhi: avevo la nausea e le vertigini, in aggiunta al bel quadretto c’era un mal di testa che si placava solo se smettevo di pensare. Non era facile sopportare tutti quei fastidi che avrebbero messo qualcun altro al tappeto e contemporaneamente risultare acida come se nulla mi causasse troppi problemi.
«Non sembra affatto spaventata.»
«Non ho motivo per esserlo.»
«Devo ricordarle che attualmente è detenuta in un ospedale psichiatrico?»
Caspita, mi hanno messa in mezzo ai pazzi!
E mentre lo penso torno a guardarlo, divertita dalla sua precisazione. Ero convinta mi avrebbero messa in carcere e condannata a qualcosa di molto prossimo all’ergastolo, e invece mi ritrovavo in un ospedale psichiatrico perché ritenuta psicologicamente instabile.
«Come mai non sono in un carcere minorile? Credevo mi avreste mandata direttamente lì.»
Lui staccò gli occhi dalla cartella e posò la penna. Rimase in silenzio per qualche secondo prima di rispondermi, non riuscii a decifrare il suo sguardo.
«Infermità mentale.»
«Avrei preferito passare la mia vita in carcere ma non essere considerata una pazza.», dissi più a me stessa che a lui. «Non c’è modo per cambiare la situazione?»
«È un po’ tardi per dimostrare il contrario, Herstal. Doveva pensarci prima di compiere un simile reato.»
Pensai che dopotutto aveva ragione: ero stata accusata di un atto che non avevo compiuto, ma ripeterlo ancora anche a quel medico non aveva senso perché purtroppo ero stata incastrata con le spalle al muro senza vie di fuga e se il mondo intero era convinto di questo, io non potevo farci niente. Condannata com’ero a una vita di torture e poche libertà, tanto valeva accettare la mia permanenza in un ospedale psichiatrico che di certo non poteva essere tanto peggiore di un carcere minorile.
«Cosa dovrò fare adesso?»
La mia voce era stata strozzata da un improvviso dolore alla scapola destra che non riuscivo a motivare. Avrei voluto controllare sotto il camice, ma le manette mi impedivano ogni cosa.
«Tutto il possibile per permetterle di integrarsi nuovamente con la società.»
Palle, sono tutte palle.
Ma non glielo dissi perché sarebbe stato anche questo inutile. Era quel che veniva detto a tutti i pazienti, eppure erano davvero poche le persone che riuscivano a tornare a casa e io lo sapevo. Forse anche io non sarei mai tornata a casa, però pensarci adesso e perdere il controllo mi sarebbe costato caro.
«Noto dal suo sudore che sta per terminare l’effetto dell’antidolorifico.»
Il suo ghigno mi fece innervosire e gli avrei volentieri sputato in pieno volto, ma mi feci forza per non reagire in malo modo poiché iniziavo anche a sentire il fastidio sempre maggiore ai polsi, ormai brucianti come se perennemente circondati dal fuoco, e necessitavo la sua collaborazione per smettere di soffrire.
«Può togliermi le manette?»
«Sarebbe rischioso per la mia incolumità.»
«Teme le salti addosso e la uccida per poi mangiarla? Le assicuro che non sono solita ricorrere a soluzioni così estreme per soddisfare la mia fame. E sarebbe stupido peggiorare la mia situazione più che critica usando la violenza contro di lei.»
Lui scosse il capo, non soddisfatto della mia risposta oltremodo esauriente. Era un uomo difficile che non si faceva intimorire da un – per lui – malato di mente che sapeva esattamente cosa dire per farsi credere. Purtroppo nemmeno io ero una che si faceva intimorire, e pur essendo sola contro il mondo non mi andava di farlo vincere: quelle manette le volevo lontane dai miei polsi e avrei fatto il possibile per accontentare il mio capriccio.
«Dottor Hijikata, andiamo… Non ne posso più di queste fastidiose manette. Me le tolga.»
«Mi dispiace Herstal, ma di criminali come lei se ne vedono molti in giro e alla minima distrazione sarei morto.»
«La prego, mi dia del tu. Potrei essere sua figlia per quanto mi dicono le sue rughe e prima che lo pensi no, non è un’offesa.» Mi alzai in piedi tentennando e mi voltai di spalle. «Adesso le spiego cosa può fare: si avvicina e mi toglie le manette con la promessa che io non le torcerò un capello, oppure lascia scivolare la chiave sul tavolo ed io farò il resto da sola. Se non vuole rischiare le consiglio quest’ultima in quanto le ricordo che ho una catena alla caviglia, e dunque non potrei ferirla nemmeno se volessi.»
Ci fu silenzio per qualche secondo prima di sentire la piccola chiave strisciare lungo il tavolo. Mi liberai alla svelta e tornai a sedermi, massaggiandomi i polsi e facendo scivolare le manette nella sua direzione: potevano essere usate come un’arma e non volevo credesse che una volta tolte mi sarei scagliata contro di lui a distanza.
Spostai leggermente il camice e osservai la scapola destra, restando per lo più sorpresa ma comunque non allarmata. Era fasciata e leggermente macchiata di sangue, doveva essere una ferita probabilmente causata da arma da fuoco per quanto si era espansa in modo uniforme e circolare sulle bende; notai che non erano ben strette ma abbastanza allentate, e questo mi fece pensare che non erano state cambiate come in realtà era il caso di fare. Non ricordavo di essermi procurata una simile ferita, mi sfuggiva ancora qualche dettaglio su ciò che era accaduto anche se ormai avevo recuperato quasi del tutto le mie capacità cognitive.
«Ero sicuro avresti usato le manette per colpirmi.», ammise facendomi scappare una risata.
«Penso ci vedremo molto spesso in questi giorni, sarebbe il caso di andare d’accordo almeno per un altro po’ di tempo.»
«Senza dubbio, Herstal, sei molto perspicace per essere stata rinchiusa in un ospedale psichiatrico perché considerata incapace di intendere e di volere.»
«La ringrazio infinitamente del complimento e spero ci sarà un modo per farle capire che sono capace di intendere e di volere benissimo. In tutta confidenza, credo i miei genitori e il mio eventuale avvocato che non ho mai avuto l’onore di conoscere abbiano mentito per non farmi finire in carcere minorile. A proposito, avrebbe anche un antidolorifico in quella bella valigia da lavoro? La spalla non smette di pulsare.»
Lui rise sommessamente e sapevo esattamente a cosa era dovuta quella reazione: quante altre persone prima di me, davvero malate di mente, avevano detto la stessa identica cosa sull’essere sani e non psicologicamente instabili? Io ero solo una delle tante, a parole non avrei concluso un bel niente.
«Ce l’ha o no questo antidolorifico?», chiesi nuovamente, con più rabbia di quanto volessi.
«Sì, ho un antidolorifico. Sapevo ti sarebbe servito e l’ho portato… Prima che io te lo somministri, però, avrei la necessità di porti alcune semplice domande. Nulla di troppo impegnativo, te lo assicuro.»
Tirò fuori dalla valigia un cofanetto metallico contenente diverse siringhe, sieri e flaconi. A quanto ne sapevo, gli psichiatri non potevano andare in giro con tutta questa quantità di farmaci né tanto meno darli a pazienti. Erano davvero troppi flaconi e dalla mia visuale non riuscivo a distinguere i nomi sulle etichette.
«Prego, parli pure.»
Prese un registratore a cassetta e lo dispose al centro del tavolo. Una volta azionato, iniziò con la serie di domande.
«Ricordi esattamente cosa è accaduto? So che te l’ho già chiesto, ma rispondi comunque.»
Annuii, poi risposi con un “sì” ricordandomi del registratore. Sudavo sempre di più. Il dolore alla spalla destra poteva essere paragonato a una tortura vera e propria per quanto stava diventando atroce.
«E ti penti delle tue azioni?»
«Mi pento di aver ascoltato qualcuno che ha fatto in modo di incastrarmi qua dentro al posto suo. Posso avere l’antidolorifico?»
Sistemò con cura l’ago sulla siringa. Non l’aveva disinfettato, ma non poteva importarmi più di tanto in quel momento: stavo male, avevo bisogno di quell’iniezione.
«Con calma, Herstal. Chi è che ti avrebbe incastrato per l’omicidio, secondo te?»
«Che senso avrebbe risponderle? Riderà di me perché mi crede pazza e non voglio contribuire ulteriormente al divertimento suo e dei suoi colleghi dicendo altro al riguardo. So che non avete trovato niente che non sia mio sul posto, quel che direi sarebbero solo accuse campate in aria.»
«Vedo che non sei ancora disposta a parlare dell’accaduto e accettare le tue colpe.»
Se non avessi avuto una spalla fuori uso avrei sbattuto entrambi i pugni sul tavolo, ma fui costretta a limitarmi per quello sfogo di rabbia all’utilizzo del solo sinistro; il risultato fu misero in quanto di forza, al momento, ne avevo ben poca. Più il tempo passava, più il mio resistere alle urla che avrei voluto cacciare per il dolore alla spalla prosciugava le mie energie.
«Parlerò dell’accaduto solo quando lei sarà disposto ad ascoltarmi e a non credermi malata di mente.»
«Così non andiamo d’accordo, Herstal... Devi collaborare con me se desideri una permanenza piacevole in questo ospedale. Non vuoi più l’antidolorifico?»
Certo che lo volevo, ma il dosaggio del farmaco nella siringa non era quello giusto.
«Quanto crede io sappia di medicina, dottor Hijikata?»
Sul suo volto si disegnò un’espressione perplessa che non motivava la mia domanda. Si alzò in piedi prima di rispondermi.
«Beh, dal tuo grado di istruzione e la scuola scelta suppongo il minimo indispensabile.»
Mi lasciai scappare una risata sommessa: «Hijikata-sensei, dovrebbe stare più attento con chi è in grado di intendere e di volere.»
Questa, per esempio, era una di quelle affermazioni che non andavano fatte pur essendo lecite. Mi resi conto solo dopo che risultava essere una minaccia bell’e buona, ma ciò non fece altro che aumentare il mio divertimento e alla fine mi fregai con le mie sole parole.
«Cosa intendi, Herstal?», chiese visibilmente nervoso.
«Quello non è il dosaggio giusto per l'analgesico.» Sorrisi vedendolo bloccarsi con la siringa a mezz’aria. «O meglio: lo sarebbe se il suo intento fosse quello di causarmi nausea, vomito, allucinazioni, euforia e tanti altri sintomi per nulla piacevoli… Vuole forse farmi star male per costringermi a parlare?»
Colto in flagrante, il dottore non rispose a parole ma con un’espressione tutt’altro che piacevole. Mascherava a fatica la rabbia, la voglia di prendermi a pugni o sbattermi contro il muro per assistere a un mio svenimento. Sembrava come ferito nell’orgoglio e sapevo che non me l’avrebbe fatta passare liscia in nessun modo, nemmeno se avevo capito le sue intenzioni.
Lasciò scivolare la siringa sul tavolo nella mia direzione e sorrise, tirandosi su le maniche del camice da dottore. Sudava anche lui adesso, e non potei non sorridere vedendolo in quello stato.
«Forza, Herstal. Fallo da sola, sono certo tu sappia farlo.»
«Altrimenti?»
«Potremmo sempre fingere tu abbia optato per un suicidio nella tua stanza. Nessuno si prenderà l’incarico di controllare se un malato di mente ha davvero pensato di andare all’altro mondo o gli sia accaduto qualcosa di altrettanto spiacevole.»
Tutte le imprecazioni e le maledizioni che mentalmente creavo e scagliavo contro di lui si affievolirono poco alla volta quando presi in mano la siringa e osservai il liquido che la riempiva interamente. Non avevo molte alternative se non parlare direttamente o iniettarmi quella sostanza endovena e, alla fine, parlare comunque. Stringendo il pugno mi promisi che Hijikata me l’avrebbe pagata cara, così come anche i miei genitori e la persona che era stata in grado di rinchiudermi qua dentro.
L’unica cosa che feci prima di passare il dito sullo stantuffo, fu sperare nella mia capacità di resistere a quella droga e non dire più di quel che volevo.




──Note dell'autore──
Non so se riuscirò a trarre davvero una storia da ciò, senza qualcuno che mi sproni continuamente a continuare io tendo ad abbandonare tutto. Spero almeno di non avervi fatto perdere tempo leggendo questo capitolo.


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