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Autore: _eco    30/06/2013    5 recensioni
[Post Mockingjay] [Katniss Everdeen/Peeta Mellark]
Peeta ha tirato fuori una telecamera grigio metallizzato, e se la tiene agganciata alla mano per mezzo di una fibbia di stoffa scura.
Mi chiedo se dovrei nascondermi anche da questa macchina da ripresa. Mi chiedo se dovrei sorridere, come faceva Caesar Flickerman ogni volta che i cameramen facevano primi piani su di lui e le sue sgargianti capigliature.
Genere: Fluff, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Salve, salve! Ho deciso di imbarcarmi in una missione suicidio: entrare nella testa di Katniss. Sicuramente sarò andata OOC, ma ho voluto provare a scrivere su di lei. E poi mi è venuta questa idea che parte da una scena triste e...sfocia nel fluff più diabetico che possa esserci, almeno, per una come me, che fa smorfie al minimo gesto sdolcinato.
Comunque, chiedo umilmente perdono a Katniss per averle sconvolto il carattere y.y
E auguro una buona lettura ai più coraggiosi! :)
S.
P.S: anche se credo che si possa intuire, lo specifico: Prim è la figlia maggiore di Katniss e Peeta, mentre Finnick il più piccolo. Già...che scelta fantasiosa!


Lucette rosse e lampeggianti.


Quando il padre di Madge, il sindaco Undersee, mi mise al collo la medaglia in onore a mio padre – un rozzo disco di metallo fabbricato in serie, pronto per qualsiasi emergenza, come la morte di un minatore qualsiasi in un’esplosione qualsiasi – avvertii gli occhi pizzicare, e, per alcuni, angoscianti secondi le lacrime in arrivo mi sembrarono ingestibili.
Pensai che non ci sarebbe stato nulla di male, a piangere. Non eravamo in molti, lì dentro. Mia madre, Prim, aggrappata alla sua gonna – ma credo che avrebbe anche potuto sfilargliela senza che lei se ne accorgesse –, i figli del signor Hawthorne e sua moglie, e altre dieci o quindici famiglie di “sfortunati e onesti uomini”, come disse il sindaco.
Ricordo che lo detestai per questa affermazione, perché la sua voce, melensa, e il suo sguardo – così…condiscendente – mi ricordarono quel video di propaganda che facevano vedere ad ogni edizione degli Hunger Games. E  nemmeno dovetti sentirmi in colpa per questo moto di rabbia nei suoi confronti, visto che io e sua figlia non eravamo niente più che conoscenti, allora.
Comunque, no, non eravamo esattamente pochi; ma avevo la sensazione che fosse una cerimonia intima, ecco. Eravamo tutti accomunati dal dolore per la perdita di un padre, una madre, una moglie, un fratello, un figlio. Tutti tranne il viscido cameraman appostato dietro un pilastro del Palazzo di Giustizia. Lui e l’antipatica lucetta rossa che guizzava dalla sua macchina da ripresa, retta da un grezzo treppiedi di legno, non erano i benvenuti.
Pensai alla mia faccia proiettata su un maxi schermo in piazza – proprio come il filmato-propaganda – e pensai ai miei compagni di scuola, che, passando, mi avrebbero vista in lacrime. Pensai alle possibili domande dell’indomani. Anni dopo, scoprii che nessun maxi schermo mandò in onda il filmato, che era un evento di poco conto, e che il cameraman era un amico di fiducia del sindaco, che, chissà per quale motivo, aveva voluto immortalare quell’istante.
Decisi che non era il momento giusto per piangere, e ficcai tutto la sofferenza in un angolo della mia testa.
Aspetta di arrivare a casa, mi ripetevo mentalmente, mordendomi la lingua e i lati interni delle guance, per strozzare qualsiasi cosa sembrasse un gemito.
Mi comportai allo stesso modo quando salutai mia madre e Prim, poco prima di partire per Capitol City, poco dopo essermi offerta volontaria al posto di Prim, conscia che molto probabilmente non avrei più fatto ritorno.
Non piansi, e avrei voluto tanto che nemmeno loro due cedessero. Ma l’hanno fatto. E io ho dovuto mordermi la lingua e le guance ancora più forte. Per mia madre. Per Prim. Per me.
Avvertivo la presenza di minuscoli e maligni occhi lampeggianti sopra, sotto, intorno a me. Ovunque. Sapevo che mi stavano osservando anche in quel momento.
 

***

Peeta ha tirato fuori una telecamera grigio metallizzato, e se la tiene agganciata alla mano per mezzo di una fibbia di stoffa scura.
Mi chiedo se dovrei nascondermi anche da questa macchina da ripresa. Mi chiedo se dovrei sorridere, come faceva Caesar Flickerman ogni volta che i cameramen facevano primi piani su di lui e le sue sgargianti capigliature.
Intanto, Peeta ha una deliziosa curvatura delle labbra verso l’alto, ma non fa finta, e non è nemmeno un tentativo per indurmi ad imitarlo. Sorride davvero, anche mentre rischia di far ruzzolare la telecamera sul prato, intento com’è a tirare su il piccolo Nick, che è rotolato per terra nel tentativo di muovere i primi passi.
Quell’aggeggio continua a mettermi soggezione. Peeta lo ha in mano da una mezz’ora buona, e io ho puntualmente evitato l’obiettivo ogni volta che si avvicinava.
- Ecco, bravo. Un altro passo e sei arrivato. Avanti. –
Sento Peeta incoraggiare Nick a raggiungerlo, mentre tiene un braccio teso in avanti, l’altro impegnato a reggere la telecamera.
Rimango a guardarli da qualche metro di distanza, seduta sul dondolo che mi culla piano piano. Anche Prim smette di piroettare e segue la scena come se si trattasse di uno dei suoi cartoni animati preferiti.
- Kat! Hai visto? Lo hai visto? –
Peeta è raggiante. Il piccolo Finnick è arrivato a destinazione: tra le sue braccia.
E lui ha racchiuso tutto nella macchina da ripresa che tanto temo.
Tiene Nick tra le braccia e si muove a passo svelto verso di me, finché, ad una cinquantina di centimetri di distanza, si ferma, e lascia Finnick sul prato, in precario equilibrio.
- Va’ da mamma. – lo incita, dandogli una leggera spintarella da dietro.
Lui si muove come una paperella zoppicante. A guardarlo, non si può far a meno di ridere. Penso che somigli a mia sorella, un po’; per cui paperella gli sta più che bene, come soprannome. Scendo dal dondolo, e salto tutti insieme i tre gradini che portano al cortile, per poi sedermi sull’ultimo. Aspetto che i piedi di mio figlio zampettino tra l’erba verso di me.
Penso di star ridendo. Ma poi sento acqua salata bagnarmi le labbra.
Sto facendo due delle cose che ho cercato sempre di non fare davanti ad una lucina rossa e lampeggiante: piangere e ridere.
Ma questa volta non ho il terrore che Peeta proietti tutto in un maxi schermo in piazza.

  
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