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Autore: DontMindMe    02/07/2013    0 recensioni
Volevo brillare anche io, tirare fuori tutto quello che sentivo premere dentro.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ero in giro, a piedi, e avevo fame.
Nel mio girovagare, mi ero fermato ad un benzinaio, più precisamente al suo snack bar, e coi pochi spiccioli che avevo in tasca avevo comprato delle patatine e un pacchetto di sigarette da dieci.
C'era un uomo lì dentro, assieme a me, un povero malcapitato in fila alla cassa per pagare la benzina appena fatta al self service. Aveva le chiavi dell'auto infilate nella tasca posteriore del pantalone. Mi ci è voluto un attimo per sfilargliele senza che se ne accorgesse. Se n'è accorto solo quando ho messo in moto la sua macchina e sono partito con una sgommata. L'ho visto urlare nello specchietto retrovisore: la bocca aperta, un'espressione di rabbia e sconforto, nessun suono.
Mi sentivo solo, come sempre, come ogni giorno, come la mia vita intera. Volevo fare una pazzia, e forse stavo già impazzendo.
Gliel'avrei restituita la macchina a quell'uomo. Forse... Chissà.
Guidai senza meta per la città, le luci della notte che scorrevano veloci dai finestrini. Volevo brillare anche io, tirare fuori tutto quello che sentivo premere dentro. Ero una mina pronta ad esplodere, ed io volevo esplodere in un migliaio di scintille colorate. Avrei attirato l'attenzione di qualcuno, di qualcuno finalmente, che sarebbe rimasto a fissarmi mentre mi scioglievo in fuochi d'artificio. Ridendo, indicandomi, mentre gli donavo il miglior spettacolo pirotecnico della sua vita.
Accesi la radio accontentandomi della stazione preselezionata, non mi presi neanche la briga di cercare la mia preferita. Era un gioco, e di volta in volta mi accontentavo di quello che il destino decideva per me, ancora una volta, annullandomi nelle scelte di qualcun altro. Del caso, del malcapitato al benzinaio, della mia follia.
Iniziai a cantare a squarciagola, fino a che sentii male nelle mie intere budella, fino a che la voce uscì come un suono rasposo e stonato. Una canzone dei Coldplay, forse, o erano i Radiohead. Non ne conoscevo neanche il testo, eppure continuavo ad urlare, a graffiarmi la gola.
Alcol, ci voleva dell'alcol per rendere tutto più facile. Per esplodere, per brillare.
Finii in una zona della città che ero solito evitare. Malfamata. Poche storie, ero colpevole anche io, ormai: un anonimo delinquente improvvisato.
Una discoteca con poca fila all'uscita. Decisi di entrare.
Presi una birra e mi ci vollero anche meno di trenta secondi per trovare qualcuno disposto a vendermi della roba. Optai per una pasticca, non so ancora di cosa. La buttai giù con la birra e aspettai che facesse effetto. Fu rapido, parecchio rapido.
Ero solo, nella mia casa vuota e gelida, pochi amici che non mi cercavano, un fottuto lavoro di merda. La vita non era quella, era questa: una massa di corpi sudati in movimento, la musica che ti ferisce le orecchie, le percezioni sballate, i sensi rimescolati.
Mi buttai nella mischia a ballare e cantare, come tutti gli altri, sentii un senso di appartenenza, finalmente. Non ero solo, non più. Almeno per una sera.
L'alcol e la droga rendono tutti più socievoli, così mi trovai a ballare con qualcuno, uomini, donne, gente che mi abbracciava senza sapere chi fossi, sudore e drink.
Insieme eravamo luce, brillavamo, accecanti, a dispetto delle nostre vite imperfette. Ad ognuno la sua.
Qualcuno mi offrì da bere, un gruppo di ragazzi, drogati come me, probabilmente. Volevano adottarmi per una sera, mi chiamavano amico, l'illusione era che ci tenessero davvero. Era tutto perfetto. Ballammo, cantammo, bevemmo, e daccapo. Qualcuno di loro mi offrì un'altra pasticca. La buttai giù, incurante del fatto che poteva uccidermi. Nella vita reale non mi sarebbe importato, ma quella sera, quella sera ero il padrone della notte e non sarei morto. Per la prima volta ero padrone di qualcosa. Di me stesso, della luce che sapevo di possedere. Ero una stella, una stella pronta ad implodere.
Il mattino dopo, una domenica. Mi ero svegliato su un divano sconosciuto, sotto un soffitto sconosciuto, in mezzo a mobili sconosciuti. La testa un buco nero, attorno a me lattine di birra vuote, tante, posacenere pieni di spinelli consumati.
Non sentivo più la luce. Solo più buio di prima, come dopo la morte di una stella, quando ciò che resta è una voragine oscura, un buco nello spazio, vorace e silenzioso, che tenta disperatamente di colmare il suo vuoto senza però riuscirci.
Presi la porta e me ne andai, senza indagare oltre. Vomitai in un giardino condominiale sconosciuto, come il resto del palazzo, come la gente che ci viveva.
Guardai l'auto rubata e decisi di abbandonarla lì perché fosse ritrovata, forse, un giorno.
Non sentivo le gambe, non sentivo il mio corpo, solo la testa pesante, mentre cercavo di orientarmi, mentre cercavo la via di casa.
Non c'era splendore nella mia vita, non poteva essercene. Cosa può mai meritare una stella che si è bruciata, che si è giocata le sue carte in maniera errata, che ha dato fondo a scelte sbagliate? Lo splendore era durato poco, giusto il momento di sperare o illudersi che sarebbe durato per sempre. Ormai potevo solo immaginare di averne ancora, per una notte, forse, ma non ce n'era. Nessuna prospettiva. Ero il nulla, il vuoto, la non esistenza, la mia casa vuota e gelida, pochi amici che non mi cercavano, un fottuto lavoro di merda, l'inerzia di vivere.
  
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