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Autore: Lucy_lionheart    02/07/2013    1 recensioni
La storia si svolge il 23 agosto dell'anno 1989, in Lituania, mentre il paese viene scosso da voci ribelli. Ma di ciò la protagonista, Nadjia, non è per nulla consapevole, così come non immagina cosa dovrà passare una volta uscita di casa, con la chitarra acustica del padre stretta tra le braccia e un paio di amici (e qualcos'altro) che l'aspettano in una macchina. In un solo giorno, in una sola avventura, la sua vita e l'intera Lituania vivrà una rivoluzione.
Genere: Commedia, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopoguerra
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Preludio alla libertà.

Nadjia non era mai stata quel genere di ragazza che compieva sconsideratezze. Anzi, non era mai stata quel genere di ragazza che muoveva anche un solo passo senza aver prima tastato più volte il terreno che le stava davanti.  Nonostante tutto questo, il destino non era stato dalla sua parte neanche l’unica volta in cui aveva provato ad osare in diciotto anni di vita.  Eppure aveva pensato a tutto! Aveva scelto il giorno giusto, quello in cui i suoi genitori si stavano svegliando nella casa della zia, lontani chilometri e chilometri.  Inoltre il 23 agosto del 1989 non sarebbero stati solo i suoi genitori a non vederla mentre sgattaiolava fuori casa abbracciata alla chitarra classica, che il padre non voleva che toccasse, ma tutta la Lituania, troppo impegnata a appendere fiocchi neri ovunque in occasione delle ennesime onorificenze funebri per l’anniversario del  patto Molotov -Ribbentrop che, in una sola clausola, aveva condannato tutta la Nazione ad una sottomissione forzata e mai ammessa. Così era stato: quando era corsa dal giardino alla macchina dentro la quale la aspettavano i suoi amici, non aveva trovato neanche uno degli altri inquilini nel giardinetto o, voltandosi indietro, a spiarla dalle finestre strette degli appartamenti. Nessuno l’aveva vista con i capelli castani intrecciati a fiori grandi e piccoli rubati ai vasi della madre e con addosso i vestiti tradizionali appartenuti ad una bis –bis – chissà – che –cosa!   e che la nonna considerava così intoccabili da non aver mai dato loro una minima lavata in tutti quegli anni ( cosa che Nadjia aveva provveduto a fare il giorno prima, tentando di non morire soffocata dalla polvere ). Si era lanciata nel retro della macchina senza la minima esitazione e il tonfo che il suo sedere aveva emesso una volta atterrato non era stato affatto silenzioso: clang, crash, sbam.  Le ci erano voluti cinque minuti per capire che per quel viaggio avrebbe dovuto condividere il sedile posteriore con la batteria del ragazzo alla guida, Misha.
Quest’ultimo si voltò verso di lei, rivolgendole un sorriso e un saluto veloce e scacciando con la mano la nuvola di fumo proveniente dal posto accanto, occupato da un altro ragazzo che Nadjia aveva riconosciuto dal giacchetto di pelle. Misha e Alexei, o Axl, per i pochi a conoscenza della sua passione per i Guns ‘n Roses, erano  non solo i migliori amici che Nadjia potesse mai sperare di trovare in tutta Vilnius, ma anche i (migliori?) membri della band che sempre aveva sognato di formare. Alexei sapeva suonare la chitarra e aveva eletto più chitarristi a suoi dei, finendo col tralasciare quelli che l’educazione religiosa gli imponeva, Misha, invece, amava così tanto il rock che si era scelto uno strumento a caso, la batteria, e se n’era costruita una facendo sparire ogni tanto tamburi più o meno sfondati dalla scuola di musica della città e arrangiando i coperchi delle pentole come piatti. Notarli durante le lezioni scolastiche per Nadjia era stato facile, anzi, notare Misha, che poi le aveva fatto conoscere Alexei, era stato facile: era praticamente impossibile far passare inosservato  un tipo che entrava a scuola con i capelli biondi tirati indietro e la cravatta ben stretta e ne usciva senza quest’ultima e con i primi sparati verso l’alto, esattamente come adesso.
La società accettava il primo, Misha, quello che s’impegnava al meglio che poteva ( c’era da accontentarsi, non è che fosse un gran genio) nello studio, ma il vero Misha, quello che ascoltava i Doors  e, diciamocelo,  aveva qualche mania cleptomane, aveva due amici soltanto. L’obiettivo di questa strana combriccola quel giorno era solo uno: esibirsi.  Era da un po’ di tempo a quella parte che giornate qualunque venivano interrotte all’improvviso da canti di gruppo: prima c’erano stati quelli cattolici, poi gli inni popolari, infine qualcuno aveva azzardato a intonare “With or without you” degli U2 e la cosa aveva avuto un riverbero maggiore del previsto. Svariati festival della musica rock si erano tenuti e adesso era finalmente arrivato anche per Nadjia, Alexei e Misha il momento di partecipare a una piccola manifestazione di questo genere.
Il posto dove si svolgeva l’evento era appena fuori Kaunas, la loro città: per raggiungerlo con la macchina ci erano voluti pochi  minuti, ma una volta arrivati i tre avevano subito notato che c’era qualcosa che non tornava affatto. In primo luogo le persone: avevano detto che ci sarebbero stati dei partecipanti, ma la gente che affollava i bordi della strada era molta, molta più del previsto e pochi di loro avevano sottobraccio uno strumento musicale.  Non c’era nessun palco e, a quanto pareva, l’unico ad avere un batteria, per quanto questa si potesse definire così, era Misha e quando il ragazzo era sceso a chiedere informazioni, Nadjia dal finestrino aveva visto le due a cui aveva chiesto trascinarlo per la mano, incuranti delle proteste.  Pochi attimi dopo era toccata la medesima sorte a lei e  Axl  e, non appena la mano di Nadjia si era stretta a quella di Misha a sinistra e a quella di una giovane donna vestita con abiti molto simili ai suoi a destra, era accaduto l’inaspettato. Tutti, uno per uno, avevano iniziato a prendersi per mano: Nadjia, sporgendosi per vedere meglio cosa stesse succedendo, si era resa conto che quella fila di persone, che adesso era più giusto chiamare “catena” spariva nell’orizzonte da entrambi i lati.
« Ma quanti siamo?!» Aveva chiesto alla donna alla sua destra; questa le aveva sorriso guardandola dritta negli occhi azzurri e le aveva immediatamente risposto, lasciando la ragazza semplicemente a bocca aperta.
« Siamo in tre: Lituania, Estonia e Lettonia. » 
Tre popoli in una sola linea? Impossibile, si era detta, semplicemente impossibile, ma quando erano iniziate ad arrivare telecamere e giornali Nadjia aveva riflettuto sul fatto che forse era tutto vero. Bene! Lei che voleva passare inosservata adesso si sarebbe come minimo ritrovata sulle televisioni di chissà quante città! I suoi l’avrebbero ammazzata.

La preoccupazione e l’ansia di venire scoperta avevano scemato dopo tre ore nell’arresa e Nadjia aveva smesso di mettersi a guardare fissamente i sassolini ai suoi piedi ogni volta che una telecamere o una macchina fotografica le passava accanto, provocando l’ilarità della donna accanto a lei, che le aveva detto di chiamarsi Erzsébet.   Non aveva ancora capito molto bene cosa stesse succedendo, a dirla tutta: Erzsébet le aveva parlato di una protesta, di una catena umana, di libertà, ma l’aveva fatto così velocemente e nel bel mezzo dell’inno nazionale, cantato a piena voce da almeno una trentina di persone, compresi i suoi due amici.
Poi, di colpo, la parte sinistra aveva iniziato lentamente ad abbassare il volume e l’intensità della canzone, le cui parole erano state sostituite da un brusio continuo che attirò la curiosità di Nadjia, voltatasi giusto in tempo per vedere un uomo dire qualcosa ad un altro e  quest’altro, che stava accanto a Misha, voltarsi verso di lui e urlargli nell’orecchio ciò che il primo gli aveva riferito. La ragazza tese le orecchie, ma riuscì a cogliere solo qualche parola. « Antibiotici? », esordì Misha, corrugando la fronte. « No, non ne ho, ma… aspetta! » Il ragazzo si girò di scatto in direzione di Nadjia, afferrandola per un braccio per attirare la sua attenzione.
« Nadjia, tu li hai, vero? Le medicine, te le porti sempre dietro!» Nadjia, seppur  un po’ stupita e confusa da quella strana domanda, annuì.  Sua madre era una fin troppo scrupolosa infermiera che le aveva passato il brutto vizio di portarsi dietro sempre qualche medicina  e l’idea che ovunque  poteva trovarsi davanti qualcuno che avesse bisogno d’aiuto.  Non per nulla quando qualcuno a scuola si sentiva male, il primo consiglio tra studenti che veniva dato era “vai a chiedere a Nadjia Laurinaityté, quella sembra una farmacia ambulante”.
« Lo sapevo! Ascoltami,  la situazione è questa: c’è  una signora molto anziana che non sta bene, il resto dei membri della sua famiglia non sono in giro. Dovresti andare da lei e darle qualcosa.»
« Dio! E dov’è?» Preoccupata come se si trattasse di sua nonna, la ragazza cercò la povera inferma con lo sguardo. Non poteva immaginare quanto il suo gesto potesse essere inutile. «E’ fuori Vilnius» Nadjia strabuzzò gli occhi: Vilnius?! La capitale? «Come diavolo ha fatto la notizia ad arrivare fin qui!?»
« Se la sono passata da persona a persona. Forse è arrivata prima a Vilnius che qui, ma non ne sono sicuri perché giù c’è molta più confusione. »
«E chi si dovrebbe occupare di fargli arrivare i farmaci  per tempo?»
 «Sono tuoi, quindi tu!»
 «Io!? Ma la macchina è tua!»
 «Sì, però non ho la patente dietro.»
 « Tu cosa? Ci hai portato fin qui senza patente!?»
 «E calmati! Mi sono accorto a metà viaggio che non c’era, capita!
Ascolta, Nadjia: tu sei l’unica da qui che ha quel che serve. Decidi tu, se non vuoi andare passa la responsabilità a qualcun altro». Chiunque si sarebbe fatto delle domande su una simile richiesta: raggiungere una perfetta sconosciuta con chissà quale faccia a Vilnius, dove non era mai stata, da sola e con una macchina mai guidata prima d’allora? Una pazzia! Peccato solo che Nadjia avesse quel maniacale bisogno d’aiutare gli altri ben piantato nel cuore insieme a dei maledetti sensi di colpa che le avevano attorcigliato lo stomaco alla sola ipotesi di rifiutarsi e passare il fardello di tale compito a qualcun altro.

Precisamente dieci minuti dopo la sua mano fece girare la chiave della macchina e il motore si svegliò.
Quando aveva chiesto come arrivare al punto indicatole, che si trovava almeno ad una mezz’ora di macchina secondo il tipo accanto a Misha, le era stato semplicemente detto di seguire quella scia di persone, che finiva proprio a Vilnius, fino a quando i suoi occhi non avrebbero notato qualcosa di strano.
Proprio per colpa di quest’ultima frase, Nadjia aveva passato i primi quindici minuti di viaggio con lo sguardo fuori dal finestrino e senza azzardarsi ad ingranare neanche la quarta marcia. 
Con la strada praticamente sgombera dalle macchine, non doveva minimamente preoccuparsi di controllare gli specchietti e non lo fece fino a quando gli occhi si mossero per puro caso su quello retrovisore.
Riflesso nel rettangolo di vetro si poteva intravedere la parte posteriore della macchina, il piccolo bagagliaio e da questo spuntare qualcosa come un fuscello dai rami secchi e bianchi che si aggrappavano saldamente alla testata dei sedili posteriori. Prima non c’era. Nadjia strizzò gli occhi per mettere a fuoco la vista: quelli non erano rami bianchi, erano… Dita! Fu un attimo: da dietro la mano spuntò un cranio candido e un altro sguardo raggiunse quello di Nadjia nel finestrino. Due pupille di fiamma la fissarono.
«Ohi!» La macchina inchiodò con una violenza tale da far sbalzare via quegli occhi di brace sui sedili posteriori, in mezzo alla batteria: chrash!, bang!, chang!, un’altra volta e ad accompagnare quel gran frastuono l’urlo che Nadjia aveva lanciato senza il minimo ritegno. Il demonio del bagagliaio si portò entrambe le mani sulla faccia ed imprecò a gran voce e Nadjia,  tanto spaventata da aver assunto un colorito tendente al bluastro e essersi accartocciatasi su se stessa brandendo come arma la chitarra acustica, non poté fare a meno di notare che quella lingua non era aramaico, ma tantomeno lituano o russo. Pareva… tedesco. «Ma sei cretina?!» Le due braci si rivolsero nuovamente su di lei e, nonostante adesso bruciassero di furia, a un secondo sguardo Nadjia non vide gli occhi di un demone,  ma soltanto una ragazzo che poteva avere al massimo tre anni più di lei e evidentemente affetto da albinismo. Restava comunque un grosso dubbio: «C-Chi diavolo sei!? E che ci fai nella mia macchina?!» Per rivolgergli quella domanda ci volle tutto il coraggio del mondo: la voce le tremava da fare schifo. D’altra parte, l’albino pareva essere solo infastidito. «Intanto, carina, non è la tua macchina,  non è nemmeno quella del tuo amico, ma è quella di due ciccioni russi di Kaliningrad che  abitano vicino ai resti di casa mia e che hanno deciso di fare una bella villeggiatura in Lituania.» Nadjia aggrottò le sopracciglia, ma il pazzoide non la lasciò aprire bocca. «Io mi sono imbucato nel loro bagagliaio prima che partissero,  ieri sera.  Secondo il mio perfetto piano sarei dovuto scappare via alla prima fermata, a Kaunas, peccato che alle cinque del mattino il tuo amico con la cresta   abbia ben deciso  di rubare ‘sta macchina da sotto il naso di quei due rovinando tutto.» Nadjia lanciò dentro sé un gridolino di puro esaurimento nervoso; le sembrava troppo strano che il padre di Misha, operaio ancor più sfruttato del suo, avesse trovato i soldi per una macchina nuova e che, cosa ancora più impossibile, avesse deciso di lasciarla in mano a quel debosciato del figlio.
«Non sono qui per derubarti o nient’altro, quindi molla pure la chitarra, Nadjia. Ti chiami così, no?»
Nadjia allentò un poco la presa dei polpastrelli doloranti sulle corde del quarto tasto, ma rimase comunque ferma nella sua posizione di difesa. «Mi chiamo così.  C-Cosa ci facevi ancora nel retro, se le tue intenzioni non sono queste.» «Ma li hai visti quei due che sono con te!? Quell’altro, soprattutto, è un armadio! Non sono così imbecille da sbucare fuori con quei due. Dovevo solo aspettare il momento giusto per venir fuori.»
« E immagino che quel momento sia io.» Sospirò Nadjia.
«Sì, anche se non avevo previsto l’inchiodata.» Un altro lungo sospiro gonfiò la camicia della giovane; Nadjia chiuse gli occhi per un secondo, poi li riaprì: niente da fare, non era un incubo, il pazzo era ancora lì.
« C… Con calma, adesso. Senti…»
« Allen.»
« Allen. Cosa ci fai su questa macchina, di chiunque sia?»
« Non l’hai ancora capito? Sono scappato. »
« E perché?»
« Te lo dico solo se posi quell’affare.»
Senza pensarci troppo, Nadjia lasciò stare la chitarra e rimase a guardare con uno sguardo neanche troppo velatamente scettico quel pazzo scavalcare i sedili posteriori e sedersi accanto a lei, nel posto affianco a quello del guidatore e, dopo aver fatto ciò, accendersi una delle sigarette che Misha ( o il russo a cui aveva rubato la macchina, chi lo sapeva più?) aveva lasciato vicino allo sterzo. «Un paio di giorni fa mio nonno è morto. Praticamente lui oltre al mio solo famigliare era l’unica cosa a piacermi in quello schifo di Kaliningrad. Insomma, una volta che ha tirato le cuoia sono rimasto io in una casetta con più topi che altro e una bella serie di bollette che sapevo che il vecchio non aveva pagato. Così ho raccolto tutti i soldi che c’erano, ho venduto gli oggetti di valore, ho preso un fiammifero, ho dato fuoco alla casa e sono scappato. Era questo che lui mi aveva consigliato di fare una volta che fosse dipartito. Per Kaliningrad, Hans Beilschmdt non è morto d’infarto, ma in un incendio insieme a suo nipote, Allen Beilschmidt. Ah, a proposito, devo cercarmi un cognome nuovo.  Hai idee? » La spessa nuvola di fumo che la bocca dell’albino aveva soffiato via si dissolse e da dietro essa comparve il volto sconvolto di Nadjia. Non c’era più dubbio, quel tipo aveva qualche rotella fuori posto. Forse tutte quante. «C… Certe cose accadono nei libri. Tu menti.»
«I libri prendono ispirazione dalla realtà, però. Se non vuoi credermi fa’ pure, a me non cambia mica niente. Mi pareva solo un buon inizio per il viaggio che faremo insieme.» Nadjia sobbalzò a quella frase.
«Quale viaggio.» «Non devi andare a Vilnius a portare antibiotici a quella vecchia? Bene, a me basta allontanarmi il più possibile dal confine.  Ti ho già detto che non ti darò nessun fastidio, anzi, è meglio per te essere accompagnata da un ragazzo». «Cosa ti fa pensare che io sia realmente disposta a accompagnarti.»
Gli occhi rossi di Allen schizzarono ancora su di lei e un ghigno presuntuoso e saccente gli piegò la faccia.
« Mi diresti di no? Mi abbandoneresti qui in mezzo alla strada? Tu che hai accettato di partire da sola per portare medicine ad una perfetta sconosciuta? Ma fammi il piacere, Nadjia.» Con quell’affermazione fin troppo vera anche l’ultima barricata di difesa di Nadjia crollò e con essa anche la ragazza, che si ritrovò a premere la fronte contro il centro del volante, facendo suonare appena il clacson. «Sono su una macchina rubata con un clandestino senza più identità. I miei mi uccideranno». «Se lo faranno, è inutile pensarci adesso. Su, premi  quell’acceleratore». Il piede di Nadjia fece capolino da sotto la lunga gonna e il viaggio ricominciò.
Se inizialmente aveva giudicato Allen come un pazzo, adesso Nadjia poteva dire anche che fosse molto –troppo- loquace. Aveva iniziato col parlare di suo nonno, aveva detto che era un mezzo filosofo e aveva continuato  sputando fuori concetti più o meno giusti riguardanti Kant e Hegel e altri suoi “connazionali”, perché la famiglia di Allen, i Beilschmidt, erano tedeschi, anzi, “prussiani” come lui aveva detto con lo stesso orgoglio di chissà quale soldato di fanteria. Gente che il nazismo non aveva toccato, ma il comunismo aveva smembrato senza pietà, fino a far rimanere solo Allen e ora neanche lui, visto il cambio d’identità.
Erano ormai passati quindici minuti da quando Allen aveva aperto un nuovo argomento che Nadjia gli disse di star zitto senza far giri di parole. Fuori dal finestrino, un gruppetto di sette, massimo dieci, persone si ammassava intorno a qualcuno seduto per terra. Nadjia  ebbe la consapevolezza immediata e istintiva di aver raggiunto il suo malato.
Ma quando, sventolando gli antibiotici in modo da mettersi in mostra, raggiunse il gruppetto, scoprì che quello il suo sconosciuto non era affetto uno sconosciuto.
«Signora Katre!» L’anziana, tutta avvolta in uno scialle forse tre volte più grande di lei, volse lo sguardo a quella voce a dir poco familiare e le rughe del suo volto si tirarono in un sorriso. «Nadjia, cara! Lo sapevo che c’eri! Che fortuna, speravo che la notizia arrivasse a te». «La conosci?» Chiese Allen, con un sopracciglio candido tirato verso l’alto. «Sì. E’ la mia vicina di casa.» La spiegazione di come la Signora Katre, di settantacinque anni, era arrivata fin laggiù arrivò dalla bocca della stessa, la quale raccontò di come la sera prima, mentre era in giardino, aveva sentito una manciata di uomini parlare di questa famigerata “catena umana” e la voglia di partecipare  ad una manifestazione simile contro quei russi che proprio non poteva vedere era schizzata alle stelle.
Se si fosse allontanata di poco, però, qualcuno del palazzo sarebbe sicuramente venuto a riportarla a casa. Perciò aveva preso il vecchio motorino appartenuto al figlio ed era arrivata fino a dove aveva potuto.
«Ha guidato un motorino con un principio di polmonite? Ma siamo sicuri che sia umana, questa?»
Commentò Allen, sempre ancora più sbalordito da quell’anziana roccia che ora deglutiva la medicina e subito dopo beveva un po’ d’acqua. Per quanto riguardava quel fatto, Nadjia non era stupita più di tanto: capitava in continuazione che la signora chiamasse sua madre su nel suo appartamento per un po’ di mal d’ossa e la donna scoprisse poi una febbre capace di far schizzar via il mercurio del termometro.
« Sentivo giusto un po’ di freddo.  Menomale che ci sono questi cosi, altrimenti avrei fatto la fine delle mie zie.»
 Le pupille trasparenti della vecchia ruotarono verso il tedesco, lo osservarono.   «E a te che  successo? Ti sei lavato con la candeggina?» Allen esibì il più finto e sarcastico dei sorrisi che aveva nel suo repertorio.
«Simpatica, la signora. Ora che la conosco mi spiace un po’ meno per la polmonite.» Quelle parole bastarono per ricevere un calcio dritto negli stinchi dal tallone di Nadjia, che nascose il tutto grazie alla lunga gonna, per poi tornare a rivolgersi all’anziana con garbo. «Su, sia buona, Signora Katre. Allen, questo giovanotto alle me spalle, è un fuggitivo come lei. Viene, veniva, da Kaliningrad. Pensi che non ha neanche più un cognome». Gli occhi di Katre brillarono nella foschia della febbre alta. Se c’era qualcosa che Allen e la Signora Katre avevano in comune, fatta eccezione per i capelli bianchi, quella era l’odio per i russi. Tanto valeva giocare su quel fattore. «Oh! Scappato! Quindi non hai più una casa». «Niente, solo soldi e me stesso».
« E allora vieni a stare da me. Sono sempre sola, mi annoio. Fammi da badante, preferisco un ragazzo giovane e di carattere che un’altra donna. Ti pago con un paio di pasti al giorno e un tetto.»
Allen sbatté gli occhi un paio di volte, poi attaccò con l’annuire ad una frequenza sempre maggiore, facendo spallucce per dissimulare l’entusiasmo. «Affare fatto, nonna. E ora ti riportiamo a casa.» Già, a casa. Più difficile a dirsi che a farsi. Questo perché Nadjia si rifiutò in ogni modo di guidare una macchina non sua e s’impuntò fin quando Allen non si arrese e dovettero lasciarla lì, anche per dare una lezione a Misha. Restava quindi solo un altro mezzo a disposizione. 

                                                                                                                            *

«Oh, vecchia! Tutto bene lì dietro?»
Urlò Allen, premendo un po’ di più il pedale del motorino. Nadjia, seduta storta sull’altra parte del seggiolino e con le braccia ben strette alla vita dell’albino per timore di cadere, strinse gli occhi a a causa della potenza dell’urlo, rivolto alla Signora Katre.  Quest’ultima se ne stava seduta su di una sedia nel bel mezzo di un piccolo rimorchio, una carriola, praticamente, insieme ai pezzi della batteria di Misha, il basso di Axl e la chitarra di Nadjia. Il motorino soffriva di quel peso esagerato e procedeva ad una velocità degna di venir superata da una bicicletta, dando su i nervi a Allen. «Sono stati gentili a darci questa specie di carretta. Sennò saremmo ancora qui». «Quella roba è degna di essere gettata via da un momento all’altro. Ci credo che ce l’hanno data. Comunque, penso sia giusto, alla fine, che in momenti come questi ci si aiuti.» Nadjia si sporse un poco verso di lui, interrogativa. «Che momenti?» « Davvero non te ne sei accorta? Oggi tre popoli si sono presi per mano. Mi sembra un evento… rivoluzionario.  Sai cosa succederebbe se ben tre Nazioni riuscissero a staccarsi in un momento di crisi simile? L’Urss finirebbe a pezzi.» Anche solo pronunciare quella frase parve elettrizzare Allen, che ghignò. d‘altro canto, Nadjia era rimasta in silenzio, sbalordita.
Staccarsi, far crollare l’Urss, riprendere la propria indipendenza e la propria libertà. Nadjia era nata quando già la Lituania  era  una repubblica sovietica; l’idea che potesse avere una propria indipendenza non l’aveva mai sfiorata. Pareva… impossibile. Ma invece era possibile eccome! La catena, i canti… adesso tutto acquistava un senso e volgere lo sguardo alla strada per capire di cosa aveva fatto parte quel giorno le diede i brividi. Mentre Nadjia era rimasta in silenzio a riflettere, Allen aveva nuovamente incominciato a parlare, perdendosi questa volta in progetti  futuri. «Se continua così  e tutto crolla, potrei veramente andarmene a vivere a Berlino Ovest.  Potrei anche portarti con me, finora sei la persona più interessante che ho trovato e… ecco, se tutto va bene e ci troviamo d’accordo potremmo sposarci! Così io prenderei il tuo cognome e tutto si risolverebbe. Tanto scommetto che un po’ ti piaccio, altrimenti mi avresti cacciato a calci.
«… Ma mi ascolti?» Il dubbio colse l’albino quando, in un raro momento di silenzio, sentì una piccola melodia vibrare tra le labbra di lei. «Che canticchi?» «Mh? Ah… il tipo che aveva vicino la signora Katre prima, quello alto… mi ricordava un po’ Bruce Springsteen. E quindi mi è venuta in mente una sua canzone» «Springsteen? Quello? Ma dove!» «Conosci Springsteen?» «Sì, sì che lo conosco!»   Detto ciò, Allen tornò con lo sguardo fisso davanti a lui e aprì ancora bocca, ma invece che parlare cantò a gran voce quello che poco prima aveva sentito dalle labbra di Nadjia: “Born in the U.S.A”. In una giornata qualunque, Nadjia avrebbe tappato la bocca al pazzo che si fosse azzardato a intonare  tanto fieramente parole simile dentro l’Unione Sovietica. Quel momento, quel giorno e tutti quelli che sarebbero stati da lì in poi, però, erano diversi dai precedenti e ora lei lo sapeva.  Una mezza risata uscì dalle sue labbra e subito dopo iniziò anche lei a cantare. Quel ritornello ripetuto allo sfinimento per Nadjia  altro non  era  che il preludio della libertà.



« “ Born in the USA,
I was
Born in the USA! “ »

 

 

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Chiamasi: che bello presentare dei propri racconti al posto della testina all'esame di maturità!
L'impaginazione l'ha scelta la mia professoressa, non l'ho modificata per.................. emh. Per scaramanzia, ad essere sincere! Sul cartaceo fa un bellissimo effetto, non mi rendo conto di come possa invece risultare su internet... spero che non renda la lettura spiacevole!
Ricevere dei parerei, delle opinioni, non mi spiacerebbe affatto...!
Ringrazio chiunque arrivi a leggere questi miei commenti finali.

Un bacio.

   
 
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