Preludio alla libertà.
Nadjia
non era mai stata quel
genere di ragazza che compieva sconsideratezze. Anzi, non era mai stata
quel
genere di ragazza che muoveva anche un solo passo senza aver prima
tastato più
volte il terreno che le stava davanti.
Nonostante tutto questo, il destino non era stato dalla
sua parte
neanche l’unica volta in cui aveva provato ad osare in
diciotto anni di vita. Eppure
aveva pensato a tutto! Aveva scelto il
giorno giusto, quello in cui i suoi genitori si stavano svegliando
nella casa
della zia, lontani chilometri e chilometri.
Inoltre il 23 agosto del 1989 non sarebbero stati solo i
suoi genitori a
non vederla mentre sgattaiolava fuori casa abbracciata alla chitarra
classica,
che il padre non voleva che toccasse, ma tutta la Lituania, troppo
impegnata a
appendere fiocchi neri ovunque in occasione delle ennesime onorificenze
funebri
per l’anniversario del patto
Molotov -Ribbentrop
che, in una sola clausola, aveva condannato tutta la Nazione ad una
sottomissione
forzata e mai ammessa. Così era stato: quando era corsa dal
giardino alla
macchina dentro la quale la aspettavano i suoi amici, non aveva trovato
neanche
uno degli altri inquilini nel giardinetto o, voltandosi indietro, a
spiarla
dalle finestre strette degli appartamenti. Nessuno l’aveva
vista con i capelli
castani intrecciati a fiori grandi e piccoli rubati ai vasi della madre
e con
addosso i vestiti tradizionali appartenuti ad una bis –bis
– chissà – che –cosa!
e che la
nonna considerava così
intoccabili da non aver mai dato loro una minima lavata in tutti quegli
anni (
cosa che Nadjia aveva provveduto a fare il giorno prima, tentando di
non morire
soffocata dalla polvere ). Si era lanciata nel retro della macchina
senza la
minima esitazione e il tonfo che il suo sedere aveva emesso una volta
atterrato
non era stato affatto silenzioso: clang,
crash, sbam. Le
ci erano voluti
cinque minuti per capire che per quel viaggio avrebbe dovuto
condividere il
sedile posteriore con la batteria del ragazzo alla guida, Misha.
Quest’ultimo si voltò verso di lei, rivolgendole
un sorriso e un saluto veloce
e scacciando con la mano la nuvola di fumo proveniente dal posto
accanto,
occupato da un altro ragazzo che Nadjia aveva riconosciuto dal
giacchetto di
pelle. Misha e Alexei, o Axl, per i pochi a conoscenza della sua
passione per i
Guns ‘n Roses, erano non
solo i migliori
amici che Nadjia potesse mai sperare di trovare in tutta Vilnius, ma
anche i
(migliori?) membri della band che sempre aveva sognato di formare.
Alexei
sapeva suonare la chitarra e aveva eletto più chitarristi a
suoi dei, finendo
col tralasciare quelli che l’educazione religiosa gli
imponeva, Misha, invece,
amava così tanto il rock che si era scelto uno strumento a
caso, la batteria, e
se n’era costruita una facendo sparire ogni tanto tamburi
più o meno sfondati
dalla scuola di musica della città e arrangiando i coperchi
delle pentole come
piatti. Notarli durante le lezioni scolastiche per Nadjia era stato
facile,
anzi, notare Misha, che poi le aveva fatto conoscere Alexei, era stato
facile:
era praticamente impossibile far passare inosservato
un tipo che entrava a scuola con i capelli
biondi tirati indietro e la cravatta ben stretta e ne usciva senza
quest’ultima
e con i primi sparati verso l’alto, esattamente come adesso.
La società accettava il primo, Misha, quello che
s’impegnava al meglio che
poteva ( c’era da accontentarsi, non è che fosse
un gran genio) nello studio,
ma il vero Misha, quello che ascoltava i Doors
e, diciamocelo, aveva
qualche
mania cleptomane, aveva due amici soltanto. L’obiettivo di
questa strana
combriccola quel giorno era solo uno: esibirsi.
Era da un po’ di tempo a quella parte che
giornate qualunque venivano
interrotte all’improvviso da canti di gruppo: prima
c’erano stati quelli
cattolici, poi gli inni popolari, infine qualcuno aveva azzardato a
intonare
“With or without you” degli U2 e la cosa aveva
avuto un riverbero maggiore del
previsto. Svariati festival della musica rock si erano tenuti e adesso
era
finalmente arrivato anche per Nadjia, Alexei e Misha il momento di
partecipare
a una piccola manifestazione di questo genere.
Il posto dove si svolgeva l’evento era appena fuori Kaunas,
la loro città: per
raggiungerlo con la macchina ci erano voluti pochi
minuti, ma una volta arrivati i tre avevano
subito notato che c’era qualcosa che non tornava affatto. In
primo luogo le
persone: avevano detto che ci sarebbero stati dei partecipanti, ma la
gente che
affollava i bordi della strada era molta, molta più del
previsto e pochi di
loro avevano sottobraccio uno strumento musicale.
Non c’era nessun palco e, a quanto pareva,
l’unico ad avere un batteria, per quanto questa si potesse
definire così, era
Misha e quando il ragazzo era sceso a chiedere informazioni, Nadjia dal
finestrino aveva visto le due a cui aveva chiesto trascinarlo per la
mano,
incuranti delle proteste. Pochi
attimi
dopo era toccata la medesima sorte a lei e
Axl e,
non appena la mano di
Nadjia si era stretta a quella di Misha a sinistra e a quella di una
giovane
donna vestita con abiti molto simili ai suoi a destra, era accaduto
l’inaspettato. Tutti, uno per uno, avevano iniziato a
prendersi per mano:
Nadjia, sporgendosi per vedere meglio cosa stesse succedendo, si era
resa conto
che quella fila di persone, che adesso era più giusto
chiamare “catena” spariva
nell’orizzonte da entrambi i lati.
« Ma quanti siamo?!» Aveva chiesto alla donna alla
sua destra; questa le aveva
sorriso guardandola dritta negli occhi azzurri e le aveva
immediatamente
risposto, lasciando la ragazza semplicemente a bocca aperta.
« Siamo in tre: Lituania, Estonia e Lettonia.
»
Tre popoli in una sola linea?
Impossibile, si era detta, semplicemente impossibile, ma quando erano
iniziate
ad arrivare telecamere e giornali Nadjia aveva riflettuto sul fatto che
forse
era tutto vero. Bene! Lei che voleva passare inosservata adesso si
sarebbe come
minimo ritrovata sulle televisioni di chissà quante
città! I suoi l’avrebbero
ammazzata.
Poi, di colpo, la parte sinistra aveva iniziato lentamente ad abbassare il volume e l’intensità della canzone, le cui parole erano state sostituite da un brusio continuo che attirò la curiosità di Nadjia, voltatasi giusto in tempo per vedere un uomo dire qualcosa ad un altro e quest’altro, che stava accanto a Misha, voltarsi verso di lui e urlargli nell’orecchio ciò che il primo gli aveva riferito. La ragazza tese le orecchie, ma riuscì a cogliere solo qualche parola. « Antibiotici? », esordì Misha, corrugando la fronte. « No, non ne ho, ma… aspetta! » Il ragazzo si girò di scatto in direzione di Nadjia, afferrandola per un braccio per attirare la sua attenzione.
« Nadjia, tu li hai, vero? Le medicine, te le porti sempre dietro!» Nadjia, seppur un po’ stupita e confusa da quella strana domanda, annuì. Sua madre era una fin troppo scrupolosa infermiera che le aveva passato il brutto vizio di portarsi dietro sempre qualche medicina e l’idea che ovunque poteva trovarsi davanti qualcuno che avesse bisogno d’aiuto. Non per nulla quando qualcuno a scuola si sentiva male, il primo consiglio tra studenti che veniva dato era “vai a chiedere a Nadjia Laurinaityté, quella sembra una farmacia ambulante”.
« Lo sapevo! Ascoltami, la situazione è questa: c’è una signora molto anziana che non sta bene, il resto dei membri della sua famiglia non sono in giro. Dovresti andare da lei e darle qualcosa.»
« Dio! E dov’è?» Preoccupata come se si trattasse di sua nonna, la ragazza cercò la povera inferma con lo sguardo. Non poteva immaginare quanto il suo gesto potesse essere inutile. «E’ fuori Vilnius» Nadjia strabuzzò gli occhi: Vilnius?! La capitale? «Come diavolo ha fatto la notizia ad arrivare fin qui!?»
« Se la sono passata da persona a persona. Forse è arrivata prima a Vilnius che qui, ma non ne sono sicuri perché giù c’è molta più confusione. »
«E chi si dovrebbe occupare di fargli arrivare i farmaci per tempo?»
«Sono tuoi, quindi tu!»
«Io!? Ma la macchina è tua!»
«Sì, però non ho la patente dietro.»
« Tu cosa? Ci hai portato fin qui senza patente!?»
«E calmati! Mi sono accorto a metà viaggio che non c’era, capita!
Ascolta, Nadjia: tu sei l’unica da qui che ha quel che serve. Decidi tu, se non vuoi andare passa la responsabilità a qualcun altro». Chiunque si sarebbe fatto delle domande su una simile richiesta: raggiungere una perfetta sconosciuta con chissà quale faccia a Vilnius, dove non era mai stata, da sola e con una macchina mai guidata prima d’allora? Una pazzia! Peccato solo che Nadjia avesse quel maniacale bisogno d’aiutare gli altri ben piantato nel cuore insieme a dei maledetti sensi di colpa che le avevano attorcigliato lo stomaco alla sola ipotesi di rifiutarsi e passare il fardello di tale compito a qualcun altro.
Precisamente
dieci minuti dopo la sua mano fece girare la chiave della macchina
e il motore si svegliò.
Quando aveva chiesto come arrivare al punto indicatole, che si trovava
almeno
ad una mezz’ora di macchina secondo il tipo accanto a Misha,
le era stato semplicemente
detto di seguire quella scia di persone, che finiva proprio a Vilnius,
fino a
quando i suoi occhi non avrebbero notato qualcosa di strano.
Proprio per colpa di quest’ultima frase, Nadjia aveva passato
i primi quindici
minuti di viaggio con lo sguardo fuori dal finestrino e senza
azzardarsi ad
ingranare neanche la quarta marcia.
Con la strada praticamente sgombera dalle macchine, non doveva
minimamente
preoccuparsi di controllare gli specchietti e non lo fece fino a quando
gli
occhi si mossero per puro caso su quello retrovisore.
Riflesso nel rettangolo di vetro si poteva intravedere la parte
posteriore
della macchina, il piccolo bagagliaio e da questo spuntare qualcosa
come un
fuscello dai rami secchi e bianchi che si aggrappavano saldamente alla
testata
dei sedili posteriori. Prima non c’era. Nadjia
strizzò gli occhi per mettere a
fuoco la vista: quelli non erano rami bianchi, erano… Dita!
Fu un attimo: da
dietro la mano spuntò un cranio candido e un altro sguardo
raggiunse quello di
Nadjia nel finestrino. Due pupille di fiamma la fissarono.
«Ohi!» La macchina inchiodò con una
violenza tale da far sbalzare via quegli
occhi di brace sui sedili posteriori, in mezzo alla batteria: chrash!, bang!, chang!,
un’altra volta e
ad accompagnare quel gran frastuono l’urlo che Nadjia aveva
lanciato senza il
minimo ritegno. Il demonio del bagagliaio si portò entrambe
le mani sulla
faccia ed imprecò a gran voce e Nadjia,
tanto spaventata da aver assunto un colorito tendente al
bluastro e
essersi accartocciatasi su se stessa brandendo come arma la chitarra
acustica,
non poté fare a meno di notare che quella lingua non era
aramaico, ma tantomeno
lituano o russo. Pareva… tedesco. «Ma sei
cretina?!» Le due braci si rivolsero
nuovamente su di lei e, nonostante adesso bruciassero di furia, a un
secondo
sguardo Nadjia non vide gli occhi di un demone,
ma soltanto una ragazzo che poteva avere al massimo tre
anni più di lei
e evidentemente affetto da albinismo. Restava comunque un grosso
dubbio: «C-Chi
diavolo sei!? E che ci fai nella mia macchina?!» Per
rivolgergli quella domanda
ci volle tutto il coraggio del mondo: la voce le tremava da fare
schifo.
D’altra parte, l’albino pareva essere solo
infastidito. «Intanto, carina, non è
la tua macchina, non
è nemmeno quella
del tuo amico, ma è quella di due ciccioni russi di
Kaliningrad che abitano
vicino ai resti di casa mia e che
hanno deciso di fare una bella villeggiatura in Lituania.»
Nadjia aggrottò le
sopracciglia, ma il pazzoide non la lasciò aprire bocca.
«Io mi sono imbucato
nel loro bagagliaio prima che partissero,
ieri sera. Secondo
il mio
perfetto piano sarei dovuto scappare via alla prima fermata, a Kaunas,
peccato
che alle cinque del mattino il tuo amico con la cresta
abbia ben deciso di
rubare ‘sta macchina da sotto il naso di
quei due rovinando tutto.» Nadjia lanciò dentro
sé un gridolino di puro
esaurimento nervoso; le sembrava troppo strano che il padre di Misha,
operaio
ancor più sfruttato del suo, avesse trovato i soldi per una
macchina nuova e
che, cosa ancora più impossibile, avesse deciso di lasciarla
in mano a quel
debosciato del figlio.
«Non sono qui per derubarti o nient’altro, quindi
molla pure la chitarra,
Nadjia. Ti chiami così, no?»
Nadjia allentò un poco la presa dei polpastrelli doloranti
sulle corde del
quarto tasto, ma rimase comunque ferma nella sua posizione di difesa.
«Mi
chiamo così. C-Cosa
ci facevi ancora nel
retro, se le tue intenzioni non sono queste.» «Ma
li hai visti quei due che
sono con te!? Quell’altro, soprattutto, è un
armadio! Non sono così imbecille
da sbucare fuori con quei due. Dovevo solo aspettare il momento giusto
per
venir fuori.»
« E immagino che quel momento sia io.»
Sospirò Nadjia.
«Sì, anche se non avevo previsto
l’inchiodata.» Un altro
lungo sospiro gonfiò la camicia della giovane; Nadjia chiuse
gli occhi per un
secondo, poi li riaprì: niente da fare, non era un incubo,
il pazzo era ancora
lì.
« C… Con calma, adesso.
Senti…»
« Allen.»
« Allen. Cosa ci fai su questa macchina, di chiunque
sia?»
« Non l’hai ancora capito? Sono scappato.
»
« E perché?»
« Te lo dico solo se posi quell’affare.»
Senza pensarci troppo, Nadjia
lasciò stare la chitarra e rimase a guardare con uno sguardo
neanche troppo
velatamente scettico quel pazzo scavalcare i sedili posteriori e
sedersi accanto
a lei, nel posto affianco a quello del guidatore e, dopo aver fatto
ciò,
accendersi una delle sigarette che Misha ( o il russo a cui aveva
rubato la
macchina, chi lo sapeva più?) aveva lasciato vicino allo
sterzo. «Un paio di
giorni fa mio nonno è morto. Praticamente lui oltre al mio
solo famigliare era
l’unica cosa a piacermi in quello schifo di Kaliningrad.
Insomma, una volta che
ha tirato le cuoia sono rimasto io in una casetta con più
topi che altro e una
bella serie di bollette che sapevo che il vecchio non aveva pagato.
Così ho
raccolto tutti i soldi che c’erano, ho venduto gli oggetti di
valore, ho preso
un fiammifero, ho dato fuoco alla casa e sono scappato. Era questo che
lui mi
aveva consigliato di fare una volta che fosse dipartito. Per
Kaliningrad, Hans
Beilschmdt non è morto d’infarto, ma in un
incendio insieme a suo nipote, Allen
Beilschmidt. Ah, a proposito, devo cercarmi un cognome nuovo. Hai idee? » La
spessa nuvola di fumo che la
bocca dell’albino aveva soffiato via si dissolse e da dietro
essa comparve il
volto sconvolto di Nadjia. Non c’era più dubbio,
quel tipo aveva qualche
rotella fuori posto. Forse tutte quante. «C… Certe
cose accadono nei libri. Tu
menti.»
«I libri prendono ispirazione dalla realtà,
però. Se non vuoi credermi fa’
pure, a me non cambia mica niente. Mi pareva solo un buon inizio per il
viaggio
che faremo insieme.» Nadjia sobbalzò a quella
frase.
«Quale viaggio.» «Non devi andare a
Vilnius a portare antibiotici a quella
vecchia? Bene, a me basta allontanarmi il più possibile dal
confine. Ti ho
già detto che non ti darò nessun
fastidio, anzi, è meglio per te essere accompagnata da un
ragazzo». «Cosa ti fa
pensare che io sia realmente disposta a accompagnarti.»
Gli occhi rossi di Allen schizzarono ancora su di lei e un ghigno
presuntuoso e
saccente gli piegò la faccia.
« Mi diresti di no? Mi abbandoneresti qui in mezzo alla
strada? Tu che hai
accettato di partire da sola per portare medicine ad una perfetta
sconosciuta?
Ma fammi il piacere, Nadjia.» Con
quell’affermazione fin troppo vera anche
l’ultima barricata di difesa di Nadjia crollò e
con essa anche la ragazza, che
si ritrovò a premere la fronte contro il centro del volante,
facendo suonare
appena il clacson. «Sono su una macchina rubata con un
clandestino senza più identità.
I miei mi uccideranno». «Se lo faranno,
è inutile pensarci adesso. Su,
premi quell’acceleratore».
Il piede di
Nadjia fece capolino da sotto la lunga gonna e il viaggio
ricominciò.
Se inizialmente aveva giudicato Allen come un pazzo, adesso Nadjia
poteva dire
anche che fosse molto –troppo- loquace. Aveva iniziato col
parlare di suo
nonno, aveva detto che era un mezzo filosofo e aveva continuato sputando fuori concetti
più o meno giusti
riguardanti Kant e Hegel e altri suoi
“connazionali”, perché la famiglia di
Allen, i Beilschmidt, erano tedeschi, anzi,
“prussiani” come lui aveva detto
con lo stesso orgoglio di chissà quale soldato di fanteria.
Gente che il
nazismo non aveva toccato, ma il comunismo aveva smembrato senza
pietà, fino a
far rimanere solo Allen e ora neanche lui, visto il cambio
d’identità.
Erano ormai passati quindici
minuti da quando Allen aveva aperto un nuovo argomento che Nadjia gli
disse di
star zitto senza far giri di parole. Fuori dal finestrino, un gruppetto
di
sette, massimo dieci, persone si ammassava intorno a qualcuno seduto
per terra.
Nadjia ebbe la
consapevolezza immediata
e istintiva di aver raggiunto il suo malato.
Ma quando, sventolando gli
antibiotici in modo da mettersi in mostra, raggiunse il gruppetto,
scoprì che
quello il suo sconosciuto non era affetto uno sconosciuto.
«Signora Katre!» L’anziana, tutta
avvolta in uno scialle forse tre volte più grande di lei,
volse lo sguardo a
quella voce a dir poco familiare e le rughe del suo volto si tirarono
in un
sorriso. «Nadjia, cara! Lo sapevo che c’eri! Che
fortuna, speravo che la
notizia arrivasse a te». «La conosci?»
Chiese Allen, con un sopracciglio
candido tirato verso l’alto. «Sì.
E’ la mia vicina di casa.» La spiegazione di
come la Signora Katre, di settantacinque anni, era arrivata fin
laggiù arrivò
dalla bocca della stessa, la quale raccontò di come la sera
prima, mentre era
in giardino, aveva sentito una manciata di uomini parlare di questa
famigerata
“catena umana” e la voglia di partecipare
ad una manifestazione simile contro quei russi che proprio
non poteva
vedere era schizzata alle stelle.
Se si fosse allontanata di poco, però,
qualcuno del palazzo sarebbe sicuramente venuto a riportarla a casa.
Perciò
aveva preso il vecchio motorino appartenuto al figlio ed era arrivata
fino a
dove aveva potuto.
«Ha guidato un motorino con un principio di polmonite? Ma
siamo sicuri che sia
umana, questa?»
Commentò Allen, sempre ancora più sbalordito da
quell’anziana roccia che ora
deglutiva la medicina e subito dopo beveva un po’
d’acqua. Per quanto
riguardava quel fatto, Nadjia non era stupita più di tanto:
capitava in
continuazione che la signora chiamasse sua madre su nel suo
appartamento per un
po’ di mal d’ossa e la donna scoprisse poi una
febbre capace di far schizzar
via il mercurio del termometro.
« Sentivo giusto un po’ di freddo.
Menomale che ci sono questi cosi, altrimenti avrei fatto
la fine delle
mie zie.»
Le pupille
trasparenti della vecchia
ruotarono verso il tedesco, lo osservarono.
«E a te che
successo? Ti sei
lavato con la candeggina?» Allen esibì il
più finto e sarcastico dei sorrisi che
aveva nel suo repertorio.
«Simpatica, la signora. Ora che la conosco mi spiace un
po’ meno per la
polmonite.» Quelle parole bastarono per ricevere un calcio
dritto negli stinchi
dal tallone di Nadjia, che nascose il tutto grazie alla lunga gonna,
per poi
tornare a rivolgersi all’anziana con garbo. «Su,
sia buona, Signora Katre.
Allen, questo giovanotto alle me spalle, è un fuggitivo come
lei. Viene,
veniva, da Kaliningrad. Pensi che non ha neanche più un
cognome». Gli occhi di
Katre brillarono nella foschia della febbre alta. Se c’era
qualcosa che Allen e
la Signora Katre avevano in comune, fatta eccezione per i capelli
bianchi,
quella era l’odio per i russi. Tanto valeva giocare su quel
fattore. «Oh!
Scappato! Quindi non hai più una casa».
«Niente, solo soldi e me stesso».
« E allora vieni a stare da me. Sono sempre sola, mi annoio.
Fammi da badante,
preferisco un ragazzo giovane e di carattere che un’altra
donna. Ti pago con un
paio di pasti al giorno e un tetto.»
Allen sbatté gli occhi un paio di volte, poi
attaccò con l’annuire ad una
frequenza sempre maggiore, facendo spallucce per dissimulare
l’entusiasmo. «Affare
fatto, nonna. E ora ti riportiamo a casa.» Già, a
casa. Più difficile a dirsi
che a farsi. Questo perché Nadjia si rifiutò in
ogni modo di guidare una
macchina non sua e s’impuntò fin quando Allen non
si arrese e dovettero
lasciarla lì, anche per dare una lezione a Misha. Restava
quindi solo un altro
mezzo a disposizione.
*
«Oh,
vecchia! Tutto bene lì dietro?»
Urlò Allen, premendo un po’ di più il
pedale del motorino. Nadjia, seduta
storta sull’altra parte del seggiolino e con le braccia ben
strette alla vita
dell’albino per timore di cadere, strinse gli occhi a a causa
della potenza
dell’urlo, rivolto alla Signora Katre.
Quest’ultima
se ne stava seduta su di una sedia nel bel mezzo di un piccolo
rimorchio, una
carriola, praticamente, insieme ai pezzi della batteria di Misha, il
basso di
Axl e la chitarra di Nadjia. Il motorino soffriva di quel peso
esagerato e
procedeva ad una velocità degna di venir superata da una
bicicletta, dando su i
nervi a Allen. «Sono stati gentili a darci questa specie di
carretta. Sennò
saremmo ancora qui». «Quella roba è
degna di essere gettata via da un momento
all’altro. Ci credo che ce l’hanno data. Comunque,
penso sia giusto, alla fine,
che in momenti come questi ci si aiuti.» Nadjia si sporse un
poco verso di lui,
interrogativa. «Che momenti?» « Davvero
non te ne sei accorta? Oggi tre popoli
si sono presi per mano. Mi sembra un evento… rivoluzionario. Sai cosa succederebbe se
ben tre Nazioni
riuscissero a staccarsi in un momento di crisi simile? L’Urss
finirebbe a
pezzi.» Anche solo pronunciare quella frase parve
elettrizzare Allen, che
ghignò. d‘altro canto, Nadjia era rimasta in
silenzio, sbalordita.
Staccarsi, far crollare l’Urss, riprendere la propria
indipendenza e la propria
libertà. Nadjia era nata quando già la Lituania
era una
repubblica sovietica;
l’idea che potesse avere una propria indipendenza non
l’aveva mai sfiorata. Pareva…
impossibile. Ma invece era possibile eccome! La catena, i
canti… adesso tutto
acquistava un senso e volgere lo sguardo alla strada per capire di cosa
aveva
fatto parte quel giorno le diede i brividi. Mentre Nadjia era rimasta
in
silenzio a riflettere, Allen aveva nuovamente incominciato a parlare,
perdendosi questa volta in progetti
futuri.
«Se continua così
e tutto crolla, potrei
veramente andarmene a vivere a Berlino Ovest.
Potrei anche portarti con me, finora sei la persona
più interessante che
ho trovato e… ecco, se tutto va bene e ci troviamo
d’accordo potremmo sposarci!
Così io prenderei il tuo cognome e tutto si risolverebbe.
Tanto scommetto che
un po’ ti piaccio, altrimenti mi avresti cacciato a calci.
«… Ma mi ascolti?» Il dubbio colse
l’albino quando, in un raro momento di
silenzio, sentì una piccola melodia vibrare tra le labbra di
lei. «Che
canticchi?» «Mh? Ah… il tipo che aveva
vicino la signora Katre prima, quello
alto… mi ricordava un po’ Bruce Springsteen. E
quindi mi è venuta in mente una
sua canzone» «Springsteen? Quello? Ma
dove!» «Conosci Springsteen?»
«Sì, sì che
lo conosco!» Detto
ciò, Allen tornò con
lo sguardo fisso davanti a lui e aprì ancora bocca, ma
invece che parlare cantò
a gran voce quello che poco prima aveva sentito dalle labbra di Nadjia:
“Born
in the U.S.A”. In una giornata qualunque, Nadjia avrebbe
tappato la bocca al
pazzo che si fosse azzardato a intonare
tanto fieramente parole simile dentro l’Unione
Sovietica. Quel momento,
quel giorno e tutti quelli che sarebbero stati da lì in poi,
però, erano
diversi dai precedenti e ora lei lo sapeva.
Una mezza risata uscì dalle sue labbra e subito
dopo iniziò anche lei a
cantare. Quel ritornello ripetuto allo sfinimento per Nadjia altro non
era che
il preludio della
libertà.
«
“ Born in the
I was
Born in the
Chiamasi: che bello
presentare dei propri racconti al posto della testina all'esame di
maturità!
L'impaginazione l'ha
scelta la mia professoressa, non l'ho modificata per..................
emh. Per scaramanzia, ad essere sincere! Sul cartaceo fa un bellissimo
effetto, non mi rendo conto di come possa invece risultare su
internet... spero che non renda la lettura spiacevole!
Ricevere dei parerei,
delle opinioni, non mi spiacerebbe affatto...!
Ringrazio chiunque
arrivi a leggere questi miei commenti finali.
Un bacio.