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Autore: PurpleStarDream    03/07/2013    4 recensioni
Certe notti vorrebbero dormire, ma non ci riescono.
Certe notti vorrebbero solo essere consolati, ma non può essere così per tutti.
Eppure ognuno di loro spera, tra gli incubi e l'insonnia, che andrà tutto bene, se riusciranno a stare vicino alla persona che amano.
Steve/Tony Clint/Tasha Thor/Loki
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Loki, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Steve Rogers/Captain America, Tony Stark/Iron Man, Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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                           L’INSONNIA DEI GIUSTI

 

Steve e Tony

 

Steve si svegliò di soprassalto, e lui non c’era.

Da quando stavano insieme era capitato altre volte, ma sempre all’alba. Mai, nel cuore della notte, si era riscoperto a dormire da solo, quando l’unica luce sorta nella loro stanza era quella vermiglia della sveglia elettronica.

Le tre del mattino, diceva: e non mentiva.

Il capitano passò un istante a toccare il lato del materasso dove avrebbe dovuto trovarsi il suo compagno, ma la stoffa era fredda al tatto, e questo non andava bene. Il freddo a lui non era mai piaciuto, ma essendo stata l’ultima cosa che aveva provato prima di perdere conoscenza dopo la caduta con il suo aereo in mare, al suo risveglio lo aveva odiato.

Si alzò a sedere, realizzando solo adesso l’apprensione che gli era cresciuta dentro. Tentò di calmare il furioso battito del suo cuore con respiri profondi, avvertendo ogni volta i polmoni sussultare, come una vecchia casa battuta dal vento. Si guardò attorno, quasi ad assicurarsi di essere proprio nello stesso ambiente in cui si era addormentato.

Ecco, aveva scoperto un’altra cosa che odiava, ma decise di non pensarci; l’incubo, per adesso, si sarebbe accontentato di calmarlo.

Quando fu sicuro che nulla fosse cambiato, scese dal letto e si infilò una felpa sulla t-shirt che usava per dormire. Le notti a New York erano molto più che fresche nel mese di settembre, e sebbene nella loro stanza la temperatura fosse sempre perfetta, per andare a cercare il suo ragazzo si sarebbe dovuto munire di una protezione, di uno scudo contro il gelo che veniva da fuori e quello che spingeva da dentro.

Dopo aver sperimentato quell’angoscia notturna di solito si consolava con la presenza di Tony, che dormiva accanto a lui. Ma quella notte non l’aveva trovato, e il suo istinto lo provocava portandolo a pensare che potesse essergli capitato qualcosa: poteva essersi sentito male, essere stato rapito, aver avuto un incubo come lui.

Cercando di riprendere il controllo di sé uscì.

Lungo il corridoio, sulla strada per l’ascensore, notò la luce azzurra del televisore nel soggiorno. Non si sentiva nessuna voce, e subito pensò che qualcuno dovesse essersi dimenticato l’apparecchio acceso. Quando, per abitudine, vi si avvicinò per spegnerlo, si accorse che Tony stava dormendo sul divano.

Era sdraiato su un fianco, davanti alla televisione che si esibiva muta, forse per non svegliare nessuno. Steve raccolse il telecomando da terra e premette off; lo schermo divenne nero.

Osservò Tony e si concesse un sospiro di sollievo.

Se ne stava sdraiato su un fianco, accoccolato sul divano con un cuscino tra le braccia, che copriva appena appena il cerchio del reattore arc sul suo petto.

La sua luce azzurra, nonostante la maglietta che indossava, gli illuminava il viso, con i capelli castani scompigliati in ciocche selvagge che cadevano a coprirgli gli occhi chiusi. Aveva decisamente bisogno di un taglio, pensò Steve, e gli si inginocchiò accanto per guardarlo dormire. La pelle sembrava lucida, forse sudata; strano, eppure in quella stagione faceva freddo.

Anche l’espressione che aveva non era la solita. Quando Tony dormiva era dolce, quasi innocente; Steve cercava con tutte le sue forze di stare sveglio un po’ di più solo per guardarlo mentre si lasciava andare ad un momento di pausa dai doveri quotidiani e dai suoi demoni personali, e gli piaceva accarezzargli una guancia col dorso della mano permettendosi un gesto che, da sveglio, avrebbe fatto vergognare troppo il suo amante.

In quel posto dove non avrebbe dovuto dormire, Tony più che assopito sembrava svenuto, accasciato sul divano come se ci si fosse travato per caso e, vinto dallo sfinimento, avesse deciso che fosse meglio stare lì piuttosto che per terra. La sua espressione era piatta e illeggibile.

Il biondino si accorse solo allora della tazza da caffè che stava sul pavimento sotto il miliardario, solo che anziché contenere il liquido scuro recava tracce di uno ambrato. Accanto c’era una bottiglia di whiskey che un tempo doveva essere stata molto più piena.

-Tony svegliati- gli sussurrò, scuotendolo delicatamente.

Un mugolio appena udibile, una leggera incrinatura in quel viso assente.

-Tony…- ripeté Steve.

Alla fine il moretto aprì gli occhi, lentamente: due grandi iridi liquide color caffè che Steve non si sarebbe mai stancato di ammirare.

-Steve?- chiese, con la voce impastata e le labbra quasi immobili. Si mosse lentamente sul divano, liberandosi del cuscino che stava stringendo e stirandosi con uno scricchiolio di ossa. Respirò molto profondamente l’aria della notte, quasi a voler trarre da essa l’energia necessaria per ricominciare a funzionare.

Quando ebbe riacquistato un po’ di presenza, si ricordò della tazza che aveva vicino e della bottiglia, e con aria mortificata allungò un braccio per spingerle dietro il divano.

-Guarda che tanto le ho già viste- disse con calma il biondino.

Non sembrava arrabbiato, e Tony si chiese se non ci fosse sotto qualcosa, o se magari non fosse tutto un sogno. Tra l’insonnia e l’alcool poteva anche darsi.

Si abbandonò nuovamente sul divano, solo, stavolta, sdraiato sulla schiena, e si strofinò gli occhi con le mani.

-Come mai sei qui?- domandò. Persino il suo respiro sapeva di Jack Daniels, in nessun modo avrebbe potuto nasconderlo.

-Questo dovrei chiedertelo io. Come stai?-

-Ora sono sicuro che sei un sogno. Il vero Steve mi avrebbe fatto una testa così perché sono venuto qui a bere.-

-Il vero Steve è anche uno che si preoccupa per te. Quando non ti ho trovato a letto ho pensato che non ti fossi sentito bene.-

Bugia. Aveva pensato di averlo perso. Come Peggy, Bucky, Howard.

-E non avrei potuto essermi alzato a lavorare?-

-Da quando dormiamo insieme non l’hai mai fatto, per questo ho immaginato che ci fosse qualcosa che non andava.-

Tony si mise seduto e si scompigliò i capelli, tanto per fare qualcosa e riscuotersi, facendoli sembrare un nido di uccelli. Il capitano gli si sedette di fianco.

-Hai avuto un incubo?- indagò Steve.

-Cosa te lo fa pensare?-

-L’alcool, per dirne una.-

-Senti, ti posso spiegare…-

-Se è stato tanto brutto puoi bere, ma solo per questa volta.-

Il miliardario spalancò gli occhi; non fu facile vincere la resistenza delle occhiaie scure.

-Davvero? Ok, chi sei, che ne hai fatto del mio fidanzato?-

Una risatina soffocata, stanca, fatta ad occhi chiusi. –Se preferisci sequestro tutto quello che nascondi lì dietro.-

-No, no. Non ci provare.-

Si sporse oltre il bracciolo e recuperò la bottiglia e la tazza, che riempì generosamente prima di portarsela alla bocca.

-Posso averne un po’ anch’io?-

Un paio di occhi scuri lo fissarono con stupore. Quella notte il suo ragazzo era decisamente strano. –Prego- disse poi Tony, porgendogli la tazza.

Steve ne bevve tutto il contenuto rovesciando la testa sulla spalliera del divano, e gli restituì il contenitore vuoto.

-A volte ti invidio. Se potessi ubriacarmi anch’io sarebbe tutto più facile.-

-Adesso mi devi proprio spiegare che cosa ti ha spinto a comportarti come me. Non sei certo un grande fan dei vizi, e desiderare addirittura di riuscire a ubriacarti per non capire più niente… Comincio a preoccuparmi, tu non sai quanto.-

Il biondo alzò una mano verso di lui e gliela posò sulla guancia, come faceva quando era addormentato, muovendo il pollice per accarezzare distrattamente i segni di stanchezza sulla sua pelle, e con occhi tristi gli confidò: -E’ stato solo un momento di debolezza. Scusami. E pensare che quando ti sono venuto a cercare ero io che volevo consolare te,- poi sospirò, e si fece silenzioso.

-Steve, che cos’hai? Ti sei svegliato per via del freddo? Devo alzare la temperatura della nostra camera?-

-No, quella è perfetta. E’ solo che… Un momento! Sei sempre stato tu ad alzare la temperatura quando fuori cambiava il tempo?-

-Certo che sono stato io. Tu non ti trovi a tuo agio con il freddo, ho voluto risparmiartelo.-

Il viso assonnato di Steve si illuminò. Provava un’orgogliosa sensazione di calore al pensiero che Tony fosse stato così attento a quel suo particolare malessere.

-Comunque no, quello non c’entra. In realtà ho avuto un incubo.-

-Che cosa hai sognato?-

-Non mi ricordo. Ogni tanto mi succede: è qualcosa di orribile,questo lo so,  ma non riesco a rimettere insieme i pezzi del sogno, e quando mi sveglio non voglio riaddormentarmi.-

-Pensi che sia così spaventoso?-

L’altro guardò per terra. –Non so, ma dopo non riesco a chiudere di nuovo gli occhi, perché l’ultima volta che l’ho fatto mi sono ritrovato settant’anni nel futuro, e tutti quelli che conoscevo erano morti,- sussurrò con un filo di voce.

-Steve…- Tony gli si avvicinò, posandogli una mano sulla spalla, un gesto confortante che lo invitava a continuare, ma lui non disse più niente.

-Hai paura che, se ti addormenti ancora, perderai tutto di nuovo?- finì per lui Tony. Il biondino annuì.

-Posso chiederti perché non me ne hai mai parlato?-

-Perché non vale la pena farne una tragedia. Sono solo paure irrazionali, mi sembra che anche tu abbia i tuoi problemi. E poi di solito quando mi sveglio resto un po’ a guardarti: mi tranquillizza sapere che sei ancora qui. Solo che questa notte tu non c’eri- mormorò, senza riuscire ad impedire la fuga a una nota di tristezza.

Questa raggiunse Tony dritto al cuore, facendo sbocciare sul suo viso i tratti del senso di colpa. Spostò la mano dalla spalla di Steve, e vi ci appoggiò la testa, chinandosi finché i loro corpi entrarono in contatto, fianco a fianco. I suoi capelli spettinati solleticavano il collo del biondo, e quando parlò il suo respiro gli accarezzò il collo, caldo e rassicurante: un segno sicuro della sua presenza.

-Mi dispiace. Io… mi sono svegliato male. Avevo bisogno di un momento.-

-Anche tu hai avuto un incubo?-

Tony sospirò. –Una volta mi hanno strappato il reattore arc dal petto. E’ stato terribile, senza questo ho avuto un principio di attacco di cuore.-

Il capitano sollevò una mano sulla sua testa, e la spinse di più verso di sé, stringendolo e aspirando il profumo de suoi capelli, speziato, maschile, il suo e di nessun altro.

-Ogni tanto sogno il momento in cui è successo. Nell’istante in cui mi è stato tolto ho cominciato a sentire le schegge che ho in corpo muoversi. Oddio, non sai cosa significhi sentire qualcosa di solido che ti striscia dentro, e il tutto mentre il cuore batteva e batteva, sempre più forte e sempre più veloce. Non mi ricordo più se sudavo per la paura o per l’aritmia. Vedere quel buco nel petto non mi è mai sembrato particolarmente scioccante, ma quello che mi ha fatto questo voleva uccidermi. Non me lo avrebbe mai più rimesso dentro.-

Sentì la presa sui suoi capelli farsi più salda. -Tony, perché non me l’hai mai detto?-

-Per il tuo stesso motivo. Sono solo ricordi e incubi, non possiamo farci niente.-

Steve si mosse, prendendolo per le spalle e guardandolo negli occhi.

-La prossima volta che avrai un incubo voglio che mi svegli.-

-Non ti sembra che dormiamo già abbastanza poco? Dovresti approfittare del poco sonno che riesci ad ottenere.-

-Non mi piace che tu stia da solo in questi momenti. Anche perché poi… lasci solo anche me- aggiunse il biondino con una punta di egoistico imbarazzo.

Tony gli sorrise, tornando a farlo sentire completamente a suo agio. -Torniamo a letto?-

-No. Voglio stare qui- gli rispose, e lo circondò con le braccia, spingendolo a sdraiarsi sul divano e sistemandoglisi dietro. Si stava molto stretti, e Tony poté percepire l’intera figura di Steve, solida e sicura e calda: il suo viso accanto al suo orecchio, il suo petto contro la schiena, le sue braccia che lo avvolgevano, il bacino unito al suo e le sue gambe come ultimo tratto del corpo che lo fasciava completamente.

Tony si lasciò sfuggire un sospiro, e arrossì senza ritegno, solo perché da quell’angolo Steve non l’avrebbe visto. Avendo il suo amante così vicino la prima cosa che gli venne in mente fu una lunga serie di pensieri ben poco casti, e invidia per la capacità di Steve di mantenere un contatto così intimo senza eccitarsi.

Una delle mani del biondo percorse l’intera lunghezza del suo torace, arrivando, con la mano aperta, a sfiorare l’elastico dei suoi pantaloni; lì si fermò, e risalì. Il moretto rabbrividì, spingendosi indietro contro il suo ragazzo.

Solo allora Tony si rese conto che in quel momento ciò che cercava era la vicinanza, la certezza di avere accanto la persona che amava, di percepirne il calore, il respiro, il cuore che batteva contro la sua schiena: un suono forte e profondo, che lo rinfrancava con ogni battito. Dimentico di quanto di sessuale poteva avere quel contatto, posò la sua mano su quella di Steve, e la tenne ferma sul suo, di cuore, in modo che toccasse la stoffa della maglia che copriva solo la pelle e non il reattore Arc.

Chiusero gli occhi e respirarono profondamente. Mentre i polmoni si gonfiavano poterono godere della solida sensazione dei loro corpi, totalmente uniti, fusi insieme in una difesa impenetrabile, impossibile per qualunque cosa superarla.

 

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Clint e Natasha

 

Gli abitanti di New York sciamavano per le strade notte e giorno.

Dopo l’attacco dei Chitauri l’intera città si era trasformata un immenso cantiere a cielo aperto, una metropoli di gru e scavatrici, un brulicare di elmetti gialli dalla mattina alla sera, quando nuove luci di segnalazione si aggiungevano al regolare brillìo dei grattacieli ancora in piedi.

Clint amava stare in alto, ecco perché si era scelto quel particolare rifugio sul tetto della Stark Tower. Potevi controllare ogni cosa da lassù, e non c’era il rischio che qualcuno ti sorprendesse.

Era a terra che dovevi stare attento: ogni genere di pericolo stava in agguato nel buio degli anfratti e al riparo dei muri di cemento, dove la sua vista da arciere non poteva notarli.

Certo l’uomo, come ogni animale, percepiva istintivamente il movimento, e lui era stato addestrato ad affinare questo suo senso, per un’autentica questione di vita o di morte.

Eppure non gli era bastato. Non era servito né l’esercizio né la sua forza di volontà: alla fine era stato spezzato.

Certe notti aveva ancora il terrore di svegliarsi circondato dalla devastazione che lui stesso aveva causato, dagli amici che aveva contribuito a fare uccidere, e allora addormentarsi avrebbe significato trovarsi di nuovo senza controllo, fuori dal suo elemento, come se invece di stare di vedetta sopra una torre fosse stato in balìa dei pericoli nascosti negli angoli del suo cuore. Perciò in quelle notti non voleva dormire.

 -Non fa un po’ fresco quassù?- domandò la voce di una donna.

Clint si voltò di scatto, portando automaticamente una mano sull’arco accanto a lui e abbassando la testa in posizione da combattimento. Si rilassò solo dopo aver realizzato che si trattava di Natasha.

-E’ inconcepibile che ti abbia colto alle spalle così facilmente. Se fossi stata un nemico a quest’ora saresti già morto.-

L’uomo trasse un sospiro rassegnato, come se non gli importasse molto se la predizione della rossa si fosse effettivamente realizzata.

-Se prima dell’invasione aliena fosse andata così sarebbe morta meno gente- si limitò a dire, e si voltò di nuovo a guardare giù.

Dondolò le gambe nel vento, seduto in un punto impossibile del cornicione. Altalenando con il corpo avanti e indietro rifletté che una spinta più forte delle altre lo avrebbe fatto cadere.

Improvvisamente un altro paio di gambe si aggiunse alle sue, e Natasha gli si sedette accanto, pericolosamente in bilico su quel tetto.

-Questa è solo la colpa dei sopravvissuti, Clint. Loki ha preso te per un puro caso. Sarebbe potuto toccare a Fury, o a Maria, è solo che a loro non è capitato.-

-Non è solo questo…- disse lui, rifiutandosi di guardarla.

-Dovresti dormire, hai una faccia che fa spavento.-

-Non ci riesco. Può darsi che sogni il momento in cui ero controllato da quello stupido scettro. E’ stato come se qualcosa mi si infilasse dentro, in ogni parte del corpo e in ogni angolo del cervello.-

Ondeggiò con più insistenza, mentre la rossa non lo perdeva di vista un minuto.

-Siamo spie, Natasha. E assassini. Ci è già capitato, durante le missioni, di ritrovarci in circostanze “particolari” con gli obbiettivi, ma noi avevamo sempre il controllo. Siamo stati addestrati per essere sempre un passo avanti a tutti, e avere in ogni occasione un piano di riserva. Anche in situazioni pericolose eravamo preparati, capisci?-

-Ci hanno allenato a resistere. Alla tortura fisica e psicologica-

-Esattamente. Ma io non mi sono mai sentito così…- si raccolse le gambe tra le braccia, trovandosi in un equilibrio ancora più precario di prima. Natasha era pronta a scattare verso di lui al minimo segno di pericolo.

-Così…- continuò tentennando, come se non riuscisse o non volesse dirlo. Lei gli lasciò tutto il tempo di cui aveva bisogno.

-Così violato- concluse. –E’ stato come se lui avesse visto la parte più intima di me, quella in cui sono più vulnerabile e l’avesse usata come voleva. Non mi sono mai sentito qualcuno così dentro da provare il bisogno fisico di levarmelo di dosso.-

-Clint…- si limitò a dire, con una umanità che chi la conosceva poco non le avrebbe mai attribuito, ma sempre senza toccarlo, per paura che si scostasse e finisse per cadere.

-Torna a dormire, Nat, non c’è bisogno che resti a farmi la guardia.-

Lo ignorò.

-Hai provato a parlarne con qualcuno?-

-Mi hanno già mandato da ogni strizzacervelli a disposizione dello Shield. Sono degli idioti, tutti quanti. In sostanza se ne stanno seduti a prendere appunti e dicono che devo impegnarmi per tornare alla mia vita normale. Che devo risolvere i miei casini da solo lo sapevo già, ma non voglio sentirmi dire che devo impegnarmi. Come se mi piacesse ricordare una cosa del genere e stare così male.-

Una mano alzata di lei bloccò la sua disquisizione.

-Intendo, ne hai parlato con qualcuno di noi Vendicatori? Perché non sei venuto da me?-

Gli occhi grigi dell’arciere mantennero tutta la loro fierezza mentre la guardava: non un’ombra di paura, non una traccia di debolezza.

-Ti ho attaccato. Sai che quando ero sotto il controllo di Loki potevo vedere e sentire tutto? Era come stare dietro un vetro, senza poter fare niente per impedire al mio corpo di uccidere e ferire i miei amici, e ogni volta la cosa che mi controllava ne era felice. Non voglio rischiare che succeda ancora. Tutti dicono che è finita, ma cosa ne sanno di magia? Ti avrei ucciso. Se non mi avessi fermato so che l’avrei fatto e non sarei riuscito a resistere. Se dovessi aggredirti di nuovo…-

Lei cercò di sdrammatizzare. -Penso che vincerei io, esattamente come la prima volta.-  

Non parve sortire alcun effetto. -Se dovesse capitare un’altra volta uccidimi- mormorò lui.

-Non capiterà.-

-Nat, sto parlando seriamente. Non riuscirei a vivere sapendo di aver ammazzato altra gente innocente, non sopporterei la vergogna di sentirmi ancora così usato.-

Nel suo sguardo nacque un’incrinatura di preghiera, sottile come una crepa che minaccia di allargare la sua ragnatela e spezzare tutto il vetro. Lo sguardo di lei si fece severo e risoluto, cercando di riempire le fratture viste negli occhi del suo vicino.

-Promettimi che lo farai. Per favore- insistette, con un filo di voce, combattendo contro l’umiliazione di abbassarsi a supplicare.

-Lo prometto- gli rispose alla fine.

Clint sembrò sollevato da quelle parole, come se si fosse tolto un gravoso peso dalle spalle.

-Adesso verresti giù?-

-Perché?-

-Come diavolo pensi di dormire qui?-

-Ti ho detto che non voglio dormire- ripeté l’arciere guardando le strade sotto di loro.

La rossa si unì a lui in quella contemplazione profonda. Nessuno dei newyorkesi che si aggiravano a terra li avrebbe mai notati: erano come due spettri che sorvegliavano una città in rovina, osservando ogni sforzo dei suoi abitanti per ricostruirla ma senza alcun interesse particolare, perché nessuno avrebbe potuto ricostruire loro. Cercando qualcosa da dire, Natasha si alzò in piedi.

-La vita a New York riprenderà come prima, quando l’avranno rimessa a nuovo. Vedrai che anche per te sarà così.-

Lui voltò la testa per guardarla, abbozzando un sorriso. –Non ti ho neppure chiesto cosa ci fai sul tetto.-

Con le mani sui fianchi gli rispose: -Sento di avere ancora qualcosa da fare prima di andare a letto. Non mi piace lasciare le cose a metà.-

Detto questo, lo afferrò saldamente con entrambe le mani e lo tirò con se sul pavimento della torre, lontano dal cornicione, e unì le labbra alle sue.

Il movimento era stato talmente improvviso che il cecchino non aveva avuto il tempo di reagire. Forse l’insonnia gli stava davvero facendo perdere colpi. L’unica certezza era che abbassava notevolmente le sue difese.

Con gli occhi chiusi, le sue paure più intime a ribollirgli dentro, non aveva più la forza di lottare. La mancanza di riposo gli faceva girare la testa, e la bocca di Natasha accoglieva la sua come un rifugio sicuro.

Si appoggiò a lei pesantemente, mentre tutta la sua volontà di dimostrarsi forte gli scivolava addosso e si perdeva in quel cielo ventoso, troppo lontano dalla terra per avvertirne i rumori. Si lasciò andare al tepore del corpo di lei, mentre le loro lingue si incontravano, e trovò che fosse giusto.

-Vieni- gli sussurrò, e lo aiutò a sedersi con lei contro un muro esterno, restando sempre all’aperto. Sapeva che Clint non amava essere al chiuso più di quanto non amasse la propria vulnerabilità.

Seduti uno accanto all’altra, l’uomo cercò di baciarla ancora, quasi a soffocare in quel momento, che gli sembrava il più perfetto mai vissuto. Lei si chinò e assecondò i suoi movimenti, accogliendo ancora una volta la sua bocca, impedendogli di respirare di nuovo dolore e senso di colpa.

Quando lui posò la testa sulla sua spalla si mise a guardare in alto. Adesso la vista di New York era ostruita dal parapetto di cemento, e l’unica cosa visibile era il cielo: niente stelle, in quel cielo, solo l’alone della perenne illuminazione cittadina su una distesa polverosa di blu.

Chiuse gli occhi, circondando con un braccio la vita della donna, un gesto che, sperava, avrebbe confortato tutti e due senza far capire troppo che era lui ad averne bisogno.

Quando sentì il suo respiro farsi regolare, Natasha capì che stava dormendo.

Il suo problema, pensò, era che Clint era troppo buono. Lei aveva lavorato per i servizi segreti russi, poi per lo Shield, e in nessuna circostanza si era trovata ad essere tanto danneggiata. O magari era successo, ma Natasha non si fidava di nessuno per natura. Sapeva che la gente era disposta a fregarti alla prima occasione, ed era una veterana nel campo dello spionaggio: i tradimenti e gli abusi te li devi aspettare, l’importante è rialzarsi subito e andare avanti senza pensarci, perché se pensi a quello che ti è successo ti distruggerai.

Lui non riusciva a farlo.

Pensando razionalmente, l’attacco all’elivelivolo e l’assassinio di tutta quella gente non era stata assolutamente opera di Clint, quindi non aveva senso per lui incolparsi in quel modo. Ma Natasha pensò che, probabilmente, il suo amico era semplicemente diverso da lei. Era una cosa che non capiva, ma con la quale avrebbe potuto convivere.

L’altra no.

Sapeva dell’esistenza di cose che potevano rendere gli uomini ombre di sé stessi, eppure la consapevolezza che fosse toccato a lui non riusciva a mandarla giù. Sapere che qualcuno aveva ferito il suo compagno così profondamente non lo poteva davvero accettare.

Prima dell’attacco a New York aveva sfoderato tutte le sue armi ingannatrici; avrebbe fatto di tutto per riprendersi Clint, dovunque fosse stato portato.

Vedendolo adesso cominciò a credere di essere arrivata troppo tardi.

Avrebbe dato tutto perché fosse capitato a lei. Lei sarebbe riuscita a rimettersi in piedi stoicamente, senza l’aiuto di nessuno, perché era così che era stata abituata a fare. Il dolore subìto lo avrebbe cancellato procurandone altro ai suoi avversari. Non c’era spazio per gli affetti nel cuore arido degli assassini.

Tuttavia con Barton era diverso. Capì che i suoi sentimenti erano duri a morire, e questo andava bene, perché avrebbe potuto darne un pochino anche a lei, che il cuore credeva di averlo perso da tempo.

Quando stava insieme a lui sentiva per la prima volta di avere una famiglia, qualcosa che non aveva mai conosciuto, ma per cui nutriva l’istinto ancestrale di proteggerla.

Possessivamente, strinse il suo abbraccio attorno al biondo.

Lui era il suo cuore, lei sarebbe stata la sua spada.

Se lui non fosse riuscito a tirare fuori abbastanza violenza da combattere i suoi demoni, allora ci avrebbe pensato lei.

Non si era mai definita una brava persona, ormai era rassegnata all’etichetta di assassina. Era una criminale che non si sarebbe pentita, una macchina plasmata per combattere.

Non come lui. Lui aveva cuore; Loki aveva ragione, ce l’aveva, ecco perché era stato spezzato.

Natasha decise che sarebbe sprofondata ancora di più nella perdizione dell’omicidio, se questo avesse significato proteggere quello che rimaneva di lui.

Clint era l’unico che la tenesse sveglia la notte.

Perché non riusciva a dormire quando lui soffriva, e allora andava a cercarlo.

 

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Bruce e Hulk

 

C’era da dire che ne aveva fatta di strada.

Non tutti i fisici nucleari riuscivano a sopravvivere ad un fascio di radiazioni gamma, a sopportare l’idea di convivere per sempre con il pericolo di trasformarsi in un mostro verde rabbioso, a passare anni a nascondersi dai militari in paesi del terzo mondo e a contribuire a salvare una città. 

Ne aveva passate tante, Bruce, per essere uno che sarebbe stato felicissimo di trascorrere la sua esistenza nella tranquillità di un laboratorio.

Ma la vita ama sorprenderti, farti vivere esperienze che non ti aspetti, e non necessariamente piacevoli.

La prima volta che l’Altro si era manifestato, ad essere sinceri, non era stato per colpa dei raggi gamma. Bruce aveva capito che in lui c’era qualcosa che non andava fin da quando era bambino. Era come se volesse comportarsi in un modo, ma avesse dentro una forza martellante  che lo spingeva continuamente nella direzione opposta. Specialmente quando era in pericolo o molto stressato, cosa che, con un padre come Brian Banner, capitava di continuo.

All’inizio aveva pensato che si trattasse della schizofrenia, la stessa malattia che aveva suo padre, e che avvelenava il suo già orrendo carattere. Aveva letto che era ereditaria, ed era terrorizzato all’idea di diventare come il suo vecchio.

Bruce non voleva fare del male a nessuno.

Quando invece l’Altro era comparso davvero, una volta tornato in sé la prima cosa a cui Bruce aveva pensato era stata di uccidersi.

Appena scoperto che la causa di tanti morti e tanta distruzione era lui, sperò che bastasse il solo senso di colpa ad ammazzarlo. Si sentì ancora più male quando non accadde niente, perché forse non si sentiva abbastanza responsabile. 

Non importava quanto Tony insistesse nel definirlo un eroe, lui non lo era.

Era un abominio, un criminale: si portava dentro un mostro, quindi era solo logico che fosse un mostro lui stesso.

Sì, perché, per quanto la gente pensasse che lui e Hulk fossero la stessa persona, in realtà non lo erano.

Si trattava di due entità che si davano battaglia per l’unico corpo a loro disposizione. Bruce poteva sentirlo lottare per uscire quando si trasformava, poteva udirlo gridare dentro di lui quando l’Altro si arrabbiava.

Lo aveva visto con i suoi occhi difendere la propria vita, quando lui aveva cercato di spararsi in bocca.

Inoltre, essere capace di compiere una strage con le proprie mani non portava Bruce a credere che all’Altro importasse di lui.

Stark gli aveva detto che forse la trasformazione vera e propria era occorsa perché Hulk aveva voluto proteggerlo da qualcosa che lo avrebbe di sicuro ucciso, ma non voleva accettare che ci fosse qualcosa di buono in quella situazione.

Poco importava che avesse salva la vita con ogni mutamento, Bruce considerava quel prezzo un pegno troppo alto da pagare, e se l’Altro avesse avuto davvero a cuore il suo benessere, avrebbe smesso di manifestarsi.

Nessuno dei suoi colleghi sapeva cosa volesse dire convivere con una voce, una presenza dentro la propria testa. Non voleva essere un malato di mente, ma alla fine non era stato poi così diverso.

Nessuno di loro sapeva cosa significasse perdere il sonno e pregare di riuscire a dormire, perché magari l’Altro avrebbe potuto reagire allo stress nel suo corpo; avrebbe voluto uscire e prendere il suo posto.

Passeggiava per la Stark Tower cercando di calmarsi, restando il più possibile vicino alla gabbia fatta per lui e trasportata fin lì. Sì, gabbia, alla fine di questo si trattava.

Si tolse gli occhiali e con due dita si stropicciò gli occhi. Era distrutto, sfinito dopo due notti insonni.

In quello stato nessuno sapeva che in ogni superficie riflettente, ogni specchio, ogni finestra, riusciva a vedere lui.

L’Altro, con la sua mole imponente, la sua espressione rabbiosa, lo fissava sotto forma di riflesso, come se il vetro catturasse l’interno dei suoi occhi, dove Hulk si nascondeva, dibattendosi per uscire.

-Non guardarmi così- disse Bruce. In quei momenti gli parlava, forse per calmarlo, forse perché sopportare quelle visioni in silenzio era troppo devastante.

-Non ho chiesto io di averti qui dentro, come tu non hai scelto di avere me.-

Si sedette contro il vetro di una delle immense finestre, dando la schiena all’immagine riflessa, ma riuscendo comunque, con la coda dell’occhio, a catturare un lampo di pelle verde.

-Se mi avessi lasciato morire sarebbe stato tutto più facile. Non capisco perché non me l’hai permesso, dato che mi odi tanto.-

Dentro di sé avvertì un brontolio: l’Altro si stava agitando.

-Visto che vuoi vivere così disperatamente, perché non prendi il controllo del tutto e non mi cancelli per sempre? Io non sono così forte, credo che potresti farlo se lo volessi. Perché non mi fai morire e non mi lasci in pace?- disse girandosi, e crollando contro la finestra, con la fronte contro il vetro. Il suo respiro appannava l’immagine verde davanti a lui, e la sua mano ne toccava una cinque volte più grande.

-Non è giusto. Io non voglio ferire le persone, e non dovresti neanche tu. E’ sbagliato. E’ meglio che sia io a morire.- 

Strinse il pugno, e l’inquietudine che gli riempiva il petto aumentò. Davanti agli occhi chiusi sorprese per un istante uno dei ricordi di Hulk: quando Iron Man era precipitato dal cielo, e lui era saltato a prenderlo; l’aveva protetto con il suo corpo durante la caduta, lo voleva vedere sveglio.

Bruce sbatté le palpebre, come a risvegliarsi da un brutto sogno.

Stentava a credere che l’Altro avesse fatto una cosa del genere, sebbene i suoi amici gliene avessero parlato.

-Ok, magari Tony ti piace, ma che mi dici di me? Non mentirmi, lo so che non mi sopporti, riesco a sentirlo.-

Gli pareva sempre un po’ stupido parlare da solo così. Certo, tecnicamente stava parlando a Hulk, ma lui non poteva rispondergli se non con sensazioni, e il non udire nessuna voce gli faceva apparire il suo intero discorso una battaglia contro i mulini a vento.

Bruce si sentiva frustrato, e doveva controllarsi. Sarebbe stato un guaio se non ci fosse riuscito.

Nuovi ricordi dell’Altro gli balenarono in testa: tutte scene in cui lui era in pericolo di vita, e l’unica cosa che voleva fare era scappare, mentre alla fine, circondato e senza via di scampo, vedeva sé stesso trasformarsi e combinare un macello.

Non c’era bisogno di ricordarglielo, lui lo sapeva: sapeva che, per tutta la vita, aveva sempre preferito subire, piuttosto che ferire.

Avrebbe sopportato ogni genere di abuso pur di evitare di fare del male a qualcuno, anche se si fosse trattato di difendere la sua vita.

Per Bruce la sua esistenza non valeva tanto quanto quella degli altri, era sempre quello che sfilava il bastoncino più corto dal mucchio.

Poi Hulk era arrivato, e si era infiammato. Ogni volta, quando avrebbe dovuto restare ucciso, l’Altro c’era.

E ora riusciva a capire anche perché il gigante verde lo odiasse: lui non si difendeva mai, agli occhi dell’Altro era debole, una creatura fragile, che tuttavia per qualche motivo andava protetta, scatenando un’ondata di feroce violenza che impedisse a chiunque di avvicinarglisi.

Il dottor Banner respirò un respiro pesante di esasperazione, e guardò il volto scuro dell’Altro nella trasparenza del vetro.

-Dimmi perché lo fai? Perché continui a salvarmi?- sussurrò.

La faccia non cambiò espressione, si limitò a soffiare, senza suono.

Bruce decise di arrendersi per quella sera, e vedere se riusciva a dormire per qualche ora, almeno. Davanti a lui, nel corridoio, la finestra che aveva di fronte gli restituì l’immagine di sé stesso, con l’imponente massa dell’Altro alle spalle.

Rassegnato, si prese la testa tra le mani, poggiandola sulle ginocchia piegate e sperando di riposarsi per quel che restava della notte, quando udì una voce grave e infossata che sembrò far vibrare i suoi stessi polmoni dire: -Bruce…-

La sua testa scattò attenta, gli occhi marroni che cercavano la fonte della voce.

Sapeva che era stato l’Altro, ma si rifiutava di crederlo. Certo, gli aveva parlato altre volte, alcune persino usando il suo cognome, ma non l’aveva mai chiamato “Bruce”.

L’uomo affondò di nuovo la testa al riparo dal mondo esterno, al riparo da quel tormento ambiguo che non voleva riconoscere come una forma di malato affetto, e chiuse gli occhi con quella voce che ancora una volta non lo lasciava solo.

 

____________________________________

Thor e Loki

 

 

Prima di diventare il dio degli inganni lui era semplicemente Loki.

I ricordi di quando giocava con suo fratello, e guardava con ammirazione suo padre e sua madre, erano lontani e nebbiosi, destinati a sparire come la bruma mattutina.

Avrebbero dovuto essere più consistenti, ma era incredibile come invece fosse bastata la verità per demolirli.

Le bugie potevano essere dolci, ma la realtà era devastante, e le avrebbe distrutte tutte quante.

Loki preferiva vivere con le falsità: aveva deciso di credere che i compagni di suo fratello lo ammirassero per la sua arguzia, anche se non combatteva come loro; aveva scelto di sperare che i suoi genitori gli volessero bene, anche se era chiaro che ai loro occhi il primo era sempre Thor; si era illuso che suo fratello potesse amarlo come lo amava lui, anche se il legame di sangue glielo avrebbe impedito.

Poi tutto era crollato, e lui aveva odiato la verità. Se fosse diventato abbastanza bravo a mentire, decise, un giorno sarebbe riuscito a creare una menzogna indistruttibile, capace di dargli l’amore che desiderava, anch’esso una falsità troppo flebile per resistere.

Nella sua cella ad Asgard ebbe il suo bel da fare a convincersi che non era andata, che nonostante tutti i suoi sforzi, alla fine aveva perso ancora. 

Persino suo fratello, che il sangue avrebbe potuto costringere a stargli vicino, lo considerava un criminale, e ora che era libero dagli obblighi di parentela, era normale che Thor lo vedesse come uno squilibrato.

Concordava che non fosse normale non sentirsi per niente in colpa dopo aver provocato un simile massacro su Midgard, ma in sua difesa poteva dire che non era cominciato così.

Persino progettare l’invasione dei giganti del ghiaccio ad Asgard era un piano nato esclusivamente con l’intento di essere riconosciuto come un vero asgardiano: non voleva fare del male a nessuno. Aveva evitato di uccidere persino Heimdall, sebbene avesse potuto farlo, impedendo così definitivamente a Thor di tornare.

Non l’aveva fatto perché tutto quello che voleva era appartenere a qualcosa, avere qualcuno, la sua famiglia, degli amici, tutto ciò a cui uno ha diritto per il solo fatto di essere uomo.

Ma lui non lo era. Era un mostro, uno degli Jotun le cui storie spaventano i bambini asgardiani.

Perciò decise che non gli sarebbe più importato niente.

Non aveva bisogno di una casa, né di una famiglia o dell’amore. Si sarebbe formato come l’incarnazione del male fine a sé stesso perché era così che l’avevano fatto diventare. Lui ci aveva provato, ma si vede che doveva andare così.

Non importava neppure che non traesse più soddisfazione dai suoi crimini, perché chi come lui rappresenta i vizi e la corruzione non prova qualcosa di puro come la felicità, e neanche la tranquillità.

E quando la notte sognava la sua pelle che si sgretolava e rivelava un’epidermide blu fredda come un cadavere, i suoi occhi che cambiavano colore, arrossandosi come se venissero riempiti di sangue, le mani che lo afferravano e che, in tutti e due i mondi che avrebbero dovuto essere suoi, volevano solo ucciderlo e massacrarlo, allora Loki si svegliava urlando.

Di giorno invece, Thor veniva a trovarlo, e si fermava dietro il cristallo della sua cella. Senza sbarre non avrebbe potuto allungare le mani verso nessuno.

-Sembri stanco- disse la voce di Thor, oltre il vetro che li separava.

-Sono annoiato- mentì. –Qui dentro non posso fare niente.-

-Hai abbastanza da mangiare? Non sei mai stato così pallido.-

-Smettila di compatirmi!- Loki si alzò e gli si mise di fronte, faccia a faccia, con gli occhi azzurri dell’altro che scrutavano i suoi furibondi.

-Tu mi hai messo qui. Non fingere che ti dispiaccia.-

Thor si umettò le labbra, e scosse la testa rattristato.

-Invece mi dispiace, ma non potevo lasciarti andare dopo quello che hai fatto a Midgard.-

Il moro cominciò a marciare avanti e indietro, inquieto come un leone in gabbia.

-Perché insisti nel venire a trovarmi? Non farlo, non ti voglio qui.-

Per tutta risposta, il biondo si sedette, incurante di sporcare il suo mantello sul pavimento.

-Sono giorni che ti osservo. La mattina hai negli occhi la stessa espressione che avevi quando eravamo bambini.-

Il prigioniero si bloccò, i capelli lunghi e disordinati a nascondere gran parte del suo viso.

-Non so di cosa tu stia parlando…-

-Parlo di quando avevi gli incubi e venivi in camera mia, perché non volevi che nostro padre sapesse che avevi paura.- 

Il corpo di Loki tremava di rabbia trattenuta, e da dietro la cortina di capelli ribatté: -Non sono affari tuoi.-

-Sì, invece, sei mio fratello…-

Un pugno si abbatté sul vetro. –Non sono tuo fratello! Non lo sono mai stato! Tuo padre mi ha solo preso per usarmi come merce di scambio, ma non era me che voleva. Nessuno mi voleva. Persino la mia stessa gente mi voleva uccidere!-

L’azione esplosiva e inaspettata aveva spinto Thor a sobbalzare sul posto, e a scattare in piedi fulmineo. Osservò l’uomo in nero ansimare, grondando furia cieca con ogni respiro, sul viso una maschera di collera.

-Tu non hai la minima idea di quello che avrei fatto per te. Non te ne sei mai accorto, vero? Non ti sei mai preoccupato di quello che avrei potuto provare io.-

La sua voce era simile ad un ruggito basso, raggelante, mentre parlava con tutto il suo odio.

-Volevo solo che tu mi vedessi come un tuo pari. Volevo solo che tu mi volessi bene…-

-Io te ne voglio.-

-Non è vero!- un nuovo pugno, che spezzò la pelle della sua mano e lasciò sul vetro una macchia di sangue. La guardia corse a vedere che cosa stesse succedendo, richiamata da tutto quel fracasso, ma Thor l’allontanò alzando una mano. In quel frangente, dovevano esserci solo loro due.

-Tu hai sempre odiato gli Jotun. Spasimavi di ucciderne il più possibile, ti ho sentito mentre lo dicevi. Anche io sono uno di loro. Ho provato ad essere un asgardiano, ma sono un mostro dello stesso stampo, come quelli che tu hai ucciso, come quelli che io ho ucciso!-

Il biondo fu sopraffatto dal vortice di emozioni che proveniva dai suoi occhi, e che sembrava scavare profondamente nell’animo di entrambi. 

-Ho ucciso il mio vero padre affinché quello che mi aveva cresciuto e che io avevo amato mi ricambiasse- sussurrò contro il vetro con voce spezzata. Le sue iridi lampeggiarono di rosso, prima di diventare lucide.

-Loki… Ero più giovane e troppo presuntuoso. Se potessi cancellare il tempo in cui sono stato tanto egoista lo farei subito, ma purtroppo non sono nato saggio. Tu neanche, ma sei sempre stato il più sensibile.-  Si appoggiò nella stessa posizione del fratellastro, come se avesse potuto toccare le sue mani, la sua fronte, ricacciare indietro quelle lacrime.

-Non hai mai capito quanto ti amassi…- bisbigliò il moro, e si allontanò per poi sedersi di nuovo per terra.

Il dio del tuono rimase dov’era, abbattuto e sconsolato come un pugile sconfitto che sente di non essersi impegnato abbastanza, incolpandosi di non essere riuscito a salvare suo fratello.

Sperò di recuperare la conversazione, e con tono rassegnato domandò: -Hai ancora paura di quegli incubi sui giganti del ghiaccio?-

Loki voltò solo la testa, e il biondo fu preoccupato che l’altro gli avrebbe vomitato addosso un’altra montagna di insulti, senza leggere la sincera apprensione nella sua voce.

I bambini asgardiani crescono con le favole in cui gli Jotun fanno la parte dei demoni e dei mostri. Tutti cercano di essere coraggiosi, ma non c’è nessun ragazzino che, dopo storie così terrorizzanti, riesca a dormire sonni tranquilli.

Loki era il fratello minore. Aveva una camera sua, anche se era più piccolo, e Thor ricordava come, nelle notti più buie, quando il vento spegneva le fiammelle delle lampade e la luna illuminava ogni cosa di blu, Loki sgusciasse nella sua stanza avvolto in una coperta fin sopra la testa, come un viaggiatore che si protegge da una tempesta sotto il suo mantello.

Era impossibile confondere la sua sagoma così minuta: lui era sempre stato il più piccolo a palazzo, nessun bambino all’infuori di quelli della famiglia reale ci era mai stato.

E quando si arrampicava sul suo letto Thor alzava le lenzuola perché lui ci si infilasse sotto, veloce come una lucertola, e poi lo guardasse cercando di non tremare. Era testardo già da piccolo, e non voleva ammettere di avere avuto paura; gli diceva sempre che non gli andava di dormire da solo quella sera. Thor gli diceva che se fossero stati insieme i mostri non li avrebbero presi, e lo lodava ogni volta, dicendogli quanto era stato coraggioso ad attraversare i corridoi bui di notte. A quelle parole il viso del più piccolo si illuminava d’orgoglio.

La sera andavano a dormire e si svegliavano insieme, quando la luce del sole aveva terminato di scacciare tutti gli incubi.

Instillare la paura in un piccolo serve a farlo crescere trasformandola in odio. Con loro due aveva funzionato: sia Loki sia Thor erano diventati due adulti che disprezzavano gli Jotun, e il consolarsi dai brutti sogni si era trasformato in giochi di guerra.

Ora che aveva scoperto di essere uno di loro, Thor era sicuro che Loki fosse tormentato da questi incubi più di prima, glielo provava la sua aria distrutta quando andava a trovarlo, l’espressione che aveva quando sembrava che volesse a tutti i costi dire qualcosa e che invece mascherava con l’arroganza. Era la stessa di quando era bambino.

Contrariamente a quello che si era aspettato, Loki parlò, molto piano. Il tono velenosamente abrasivo della sua voce preoccupò Thor molto più di uno sfogo d’ira.

-Quegli incubi mi spaventavano prima, ma adesso che so, mi atterriscono,- e sorrise piegando la bocca in una smorfia storta, inquietante.

-Semmai… vorrai parlarne… Sappi che io sono qui. Devi solo chiedere di me- provò a rassicurarlo Thor.

-Certo. Sei sempre qui. Anche se sto sotto la tua ombra o dentro una cella tu ci sei sempre, solo che non ti accorgi mai di me.-

-Dico sul serio. Non voglio che tu stia più male di quanto ti spetti. Fai conto che sia come quando eravamo bambini.-

-Non puoi invertire il corso del tempo, Thor.-

Il biondo si accorse che era la prima volta, quella sera, che lo chiamava per nome. –Anche se vorrei tanto che tu credessi ancora che sono il tuo vero fratello. Almeno saresti obbligato ad amarmi.-

Detto questo si chiuse in un mutismo ostinato.

Non riuscendo a smuoverlo di più, Thor lasciò la prigione e tornò a palazzo.

Il dio degli inganni pensò di avere fatto la cosa giusta. Avrebbe voluto confidargli il suo incubo, ascoltare le parole di suo fratello che lo consolava. Più di tutto avrebbe ambito a strapparsi quell’ultimo pezzo di cuore che glielo faceva desiderare, l’amore inottenibile attorno a cui aveva sempre girato la sua vita.

Ma non disse niente. Se doveva soffrire, tanto valeva farlo fino in fondo.

-Sentiti in colpa, fratello- mormorò a sé stesso. –Così non sarò solo.-

Nessuno notò le guardie, che entrarono da una seconda porta, inosservate e silenziose, reggendo uno spesso filo e un grosso ago d’argento.

Loki li vide arrivare, lo sapeva già, ma la sua espressione non vacillò. Si rifiutava di avere paura.

 

Il giorno dopo, Thor lo trascorse a palazzo, vagando per i corridoi dorati e passando davanti ad ancelle e servitori come se non li vedesse. Non riusciva ad impedire a suo fratello di occupare la sua mente.

Era in pensiero per lui: per quanto Loki potesse sostenere il contrario, si vedeva che non stava bene.

Oggi avrebbe dovuto convincerlo a confidarsi, a parlargli.

Andò nella sala del trono in cerca di suo padre per chiedere consiglio su come comportarsi.

Lo trovò che passeggiava nella sala, parlando con la regina Frigga.

-Padre, madre- salutò.

-Thor- lo accolse Frigga: aveva le lacrime agli occhi.

-Madre, perché piangete? Cosa è successo?-

-Io e tua madre ci siamo trovati in disaccordo su un argomento, ma adesso abbiamo convenuto che la decisione presa è la migliore- rispose Odino per lei.

-Quale decisione?-

La regina si voltò di scatto verso suo marito. –Non glielo hai detto- la sua voce tremava. –Come hai potuto non dirglielo?-

Thor fissava i genitori, non sapendo cosa aspettarsi. Alla fine si risolse a domandare: -Dirmi cosa?-

-Della punizione di Loki- spiegò Odino, -Sapevo che non saresti stato d’accordo, perciò te ne ho tenuto all’oscuro fino alla fine.-

-Di che parli? Loki non è stato già imprigionato?-

-Questo è per la guerra che ha scatenato a Midgard. La punizione che ha appena ricevuto riguarda il suo stesso essere bugiardo e ingannatore.-

Il biondo si paralizzò.

-In modo che non possa più usare la sua lingua per scopi empi ho dato disposizione che la sua bocca venisse cucita.-

Thor non riuscì a far uscire le parole. Quando ce la fece non riconobbe la sua voce. –Ma come… come farà a mangiare? A parlare?-

-Il filo non è comune, e lui è pur sempre un dio, non preoccuparti per il cibo. In quanto alla parola, questo è un castigo che ha il solo scopo di togliergliela.-

Il tono del padre degli déi era freddo, severo mentre gli spiegava, come se quella pena la dovesse ricevere lui, e non suo fratello.

Non aspettò di essere congedato. Corse subito nelle segrete, e spinse di lato la guardia per entrare.

La cella di suo fratello non era cambiata, lui sì: i capelli lunghi incorniciavano il suo volto cereo come le scomposte fronde di un salice.

Gli occhi simili a due braci verdi lo fissavano sopra le labbra serrate, impunturate dal filo che entrava dal labbro superiore e usciva da quello inferiore. Da ogni punto trasudava sangue colato fino al mento.

-Fratello…- proferì sottovoce Thor, sconvolto. L’altro non fece niente, non smise per un attimo di squadrarlo.

 

Quella notte Thor dormì vicino a lui, appoggiato al muro di pietra della prigione. Loki se ne accorse perché si svegliò sudando freddo, il suo sonno infestato dagli spettri degli esseri che fin da piccolo volevano ucciderlo, preso tra due fuochi senza un posto sicuro dove andare.

Quando cercò di gridare il filo che gli teneva chiusa la bocca si tese sotto il movimento, scavando nei buchi che foravano la pelle. Per quanto male facesse non si sarebbe mai spezzato, era come essere avvolti da una catena.

Ansimò rumorosamente dal naso nel tentativo di calmare quella dolorosa iperventilazione, e fu allora che vide suo fratello.

Dormiva fuori dalla sua cella, per vegliarlo, apparentemente, ma Loki non credeva che avesse pensato a tutte le eventualità. Vedeva il fratello agitarsi lievemente, come se lui stesso fosse tormentato da qualcosa, forse dalla preoccupazione per lui.

Il suo primo desiderio fu di attirare la sua attenzione, di raccontargli il suo incubo, perché tanto erano soli, in quella prigione sempre buia.

Ma non poteva chiamarlo, e non poteva parlargli.

Decise che per questo stesso motivo non valeva neanche la pena picchiare contro il vetro per svegliarlo. Sarebbe stato inutile, lo avrebbe solo umiliato di più.

Si sedette a terra, appoggiandosi alla lastra di vetro. Continuò a soffiare la sua frustrazione, la sua amarezza e la sua paura. Thor non poteva davvero riportare indietro il tempo, recuperare i giorni in cui erano ancora fratelli ed erano ancora felici, senza intrighi, senza battaglie, senza sangue.

Da bambino poteva credere alle bugie, ora che era adulto doveva riconoscere che la verità faceva davvero male, e lui non era ancora abbastanza bravo da creare una menzogna che la sopraffacesse.

Questa volta doveva tenersi dentro i mostri che lo seguivano, e sperare che lo finissero in fretta, anche se non era sicuro che avrebbero avuto tanta pietà.

“Fratello…” pensò, chiudendo gli occhi senza dormire. Il sangue sul mento ormai si era seccato.

 

 

N.d.A.

In questa storia ho provato ad immaginarmi i Vendicatori alle prese con una notte insonne e/o tormentata da incubi. La notte è uno di quei momenti magici, tranquilli, intimi soprattutto; è uno di quegli attimi in cui è più facile che i pensieri profondi vengano a galla e si manifestino anche quando non li si vuole vedere.

Credo che tutti i nostri eroi si sforzino il più possibile di fare i duri (cosa che capisco e condivido), ma in realtà muoiano dalla voglia di ricevere un abbraccio. Ammettiamolo, un abbraccio sincero è qualcosa che scioglie anche il più duro dei gusci, ma ci vuole la persona giusta. Per questo ho diviso la fic in momenti dedicati alle coppie.

Per alcuni non si è conclusa benissimo, ormai direi che sapete che l’angst è il mio prezzemolo, ma sostanzialmente mi piace pensare che non sia mai finita qui. La storia è ambientata dopo “The Avengers”, quindi confido che sappiate che qualcosa d’altro nella loro vita succederà^^

Bruce ho deciso di appaiarlo con Hulk primo per mancanza di un altro personaggio adatto, avendoli già accoppiati tutti, secondo perché trovo che la sua situazione personale lo tormenti più di quanto dia a vedere.

Ho deciso di interpretarla in questo modo: a Hulk Bruce non piace quando non si difende e preferisce subire, ma vuole proteggere lui e sé stesso, infatti esce anche quando Bruce ha paura o rischia grosso.

Ripeto: interpretazione personale di amore/odio tra Bruce e Hulk, ma mi piace^^

La faccenda di Loki e del filo che gli chiude la bocca: non ho trovato molto, ma pare che, nella mitologia nordica, si dica che Loki abbia perso una scommessa con dei nani, i quali pretesero in pagamento la sua testa. Lui però disse che potevano averla solo a condizione che non prendessero nessuna parte del collo. Siccome tagliargli la testa avrebbe implicato necessariamente lasciarne un po’ attaccato, decisero invece di cucirgli le labbra. Suppongo che poi si sia liberato in qualche modo, ma su questo non ho trovato niente.

Se ne sapete di più correggetemi, mi raccomando.

Voglio leggere le leggende nordiche!

P.S.

Il titolo è una rivisitazione del proverbio: “Dormire il sonno dei giusti”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  
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