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Autore: Shin83    03/07/2013    3 recensioni
[Contest: All But Stark]
Tony vuole uscire dai suoi attacchi di panico, cercando aiuto all'unico membro degli Avengers che potrebbe capirlo, Steve.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Steve Rogers/Captain America, Tony Stark/Iron Man
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa One Shot ha partecipato al contest All But Stark organizzata da The Rainbow Side of Marvel


 


La vie c'est ça, un bout de lumière qui finit dans la nuit.
(Louis Ferdinand Céline)



 

Da quando la villa di Malibu era stata distrutta avevo deciso che fosse il caso di starmene un po’ a Washington, visto che anche la Stark Tower a New York era ancora in fase di ristrutturazione.
Pepper faceva la spola tra una costa e l’altra per tenermi d’occhio e non lasciarmi per troppo tempo da solo. A me in qualche modo quella situazione andava bene; però c’erano delle notti quando lei era in California che sembravano non finire mai e ogni tanto gli attacchi di panico venivano a farmi visita.

Avevo una casetta nella capitale, attrezzata con un piccolo laboratorio, condizione imprescindibile in qualsiasi posto dovessi vivere. Stare con le mani in mano per troppo tempo poteva farmi andare fuori di testa, persino più che pensare al portale di Loki o alla mia compagna con qualche problema di surriscaldamento. E, inoltre, non ero proprio il tipo da ricamo a punto croce o decoupage.
Non volevo comunque strafare, l’avevo promesso a Pepper, mi concentrai quindi solo su alcuni potenziamenti di Mark VII e mi dedicai a frivolezze come l’informatica e quei trabiccoli che andavano tanto di moda tra la gente comune, soprattutto tra i ragazzi. Stavo pensando di far mettere in commercio uno StarkPad, molto più figo di quegli aggeggi con la mela.

Sentivo però la necessità di stare quotidianamente in contatto con qualcuno che non fosse Pepper.
Quindi, poco dopo gli avvenimenti causati da Killian, mentre ero ancora in California a sistemare un paio di cose prima del momentaneo trasloco a D.C., contattai Rogers.
Volevo, in qualche modo, esorcizzare i demoni newyorkesi, e magari farlo assieme ad uno dei miei ex compagni sarebbe stato più semplice e meno doloroso.
Banner era sempre in giro, e pensavo di poter dare una seconda opportunità a Capitan Ghiacciolo. In fondo, a parte quel suo essere completamente fuori contesto, non sembrava così male. Volevo finalmente conoscere meglio quel dannato Steve Rogers di cui mio padre tanto parlava quando ero un ragazzino e verificare se fosse così straordinario come lo descriveva. Ok, in combattimento non era affatto male, anzi, ma come persona non lo avevo potuto ancora constatare. Sapevo solo che conosceva bene Il Mago di Oz e che aveva bisogno di una rinfrescata all’armadio. Per il resto, era un mistero, per quanto non presagisse nulla di cattivo.
Per questo motivo, feci bypassare l’archivio dello S.H.I.E.L.D. da JARVIS, santo AI, e riuscii a trovare tutti i suoi contatti.
A quanto sembrava, si era fatto sistemare a Brooklyn, vecchio nostalgico.
Stupii anche Pepper, quando le parlai di questa idea, la trovava ragionevole e non poteva credere che fosse venuta proprio da me.
“Beh, questi attacchi di panico hanno avuto almeno un risvolto positivo, ti hanno fatto funzionare la sfera logica del cervello anche per questioni che esulano dal tuo laboratorio o dalle tue armature…” Aveva sentenziato Pepper, a conclusione del nostro discorso.
 
Sentivo Rogers via telefono, le prime volte. Ovviamente, non si aspettava affatto che io provassi ad instaurare un rapporto di qualunque tipo con lui. Quindi provai ad essere onesto fin da subito, raccontandogli degli attacchi di panico, di quello che era successo a Pepper e che avevo voglia di tornare a New York, prima o poi, senza che questo comportasse l’uso di alcun psicofarmaco.
Sebbene per lui quello che era successo a causa di Loki e dei Chitauri non era stato tanto traumatico quanto, invece, lo era stato per me, era pur sempre una persona che aveva visto il suo migliore amico volare giù da un burrone, che era rimasta congelata per settant’anni e che adesso si trovava completamente da solo in un mondo che non era il suo.
Pensandoci, in questo viaggio che volevo intraprendere, non avrei potuto trovare compagno migliore.
 
Le prime telefonate furono piuttosto formali e brevi, sicuramente era abbastanza imbarazzato a ritrovarsi a parlare con me, chissà che idea si era fatto o meglio ancora, che idea io gli avevo dato di me. Quindi, cercai di mettere un po’ da parte la mia esuberanza per farlo sentire a suo agio.
Dopo avergli spiegato la questione Mandarino, durata un paio di telefonate, gli dissi che mi stavo preparando per spostarmi a Washington, fino a che le mie due residenze principali fossero tornate agibili e fossi stato in grado di rimettere piede nella Grande Mela. Lui l’aveva trovata una buona idea e mi aveva detto: “Saremo più vicini, magari potrei anche venire a trovarti qualche volta, è da un po’ che vorrei fare un giretto nella capitale come turista.”
“Perché no, lo spazio ci sarà.” Avevo risposto.
Via via le nostre conversazioni telefoniche si erano fatte più rilassate e ogni tanto mi concedevo anche il lusso di prenderlo in giro.

Nel periodo del trasloco, non riuscivamo a sentirci tutti i giorni, ma una volta finito di sistemarmi, la nostra “routine” ricominciò regolarmente, anzi, un pomeriggio decisi di osare: riuscii a convincerlo ad installare Skype sul suo pc. Certo, dovetti seguirlo passo passo per farlo, ma almeno mi divertii per un paio d’ore.
Ok, Tony, ho aperto il pc e sono su Google, cosa devo fare, adesso?” mi aveva chiesto Steve dall’altro capo del telefono.
“Digita S-K-Y-P-E nella stringa di ricerca e premi invio.”
Ci sono
“Ecco, adesso clicca sul primo risultato e cerca Download.”
“Mmm, fatto anche questo.”
“Bravo nonnetto, fai progressi.”
“Ora cosa devo fare?”
“Clicca su download e aspetta che il setup si scarichi. Dopo devi cliccare sul file scaricato e seguire le istruzioni dell’installer. Se hai problemi io resto in linea.”
Era stato più semplice del previsto fargli installare il software. Forse, piano piano, iniziava a capire come girano le cose nel Ventunesimo secolo. Aveva addirittura un indirizzo di posta elettronica, era stato Fury a farglielo fare per alcune comunicazioni dello S.H.I.E.L.D.
Il bello, però, arrivò al momento di scegliere il suo nickname su Skype. Lui, naturalmente, voleva lasciare Steve Rogers, io non volli dargliela vinta in alcun modo.
Capitan Verginello era da escludere, uno perché ancora non eravamo ad un tale livello di confidenza per cui mi potessi permettere di prenderlo in giro su questa cosa, non volevo mandare a puttane tutto quanto; due perché rischiava di attirare malintenzionati, e l’ultima cosa che gli ci voleva era adescare maniaci sessuali su internet.
Dopo svariate proposte, la scelta ricadde su Capsicle18, sembrava un po’ l’username di un adolescente, ma in fondo lui era proprio quello, un teenager di novant’anni.

La prima videochiamata era stata buffa, fu uno spasso vederlo fare tutte quelle espressioni incredule durante la chiamata. Aveva visto alieni, portali, semidei, era stato su un Helicarrier, eppure riusciva ancora a meravigliarsi per le piccole cose. Per questo mi piaceva la sua compagnia.
E forse, per la prima volta in vita mia, sentivo come se fossi io quello che doveva prendersi cura di qualcun altro. Di solito erano Pepper, Rhodey, Happy o Jarvis a fare attenzione che non combinassi o mi mettessi nei guai. Con Steve, ero io quello che doveva aiutarlo, magari erano soltanto sciocchezze tecnologiche; ma lui era contento di imparare cose nuove ed io riuscivo a sentirmi utile.
 
Un giorno mi chiese di fargli vedere la mia villetta di Washington. Il caso volle che fossi collegato dallo StarkPad, così fu facile fargli fare il tour guidato della casa.
Partii dalla zona giorno: un open space con cucina bianca ultra moderna,  con tanto di isola e frigorifero gigante, perfettamente in ordine, tanto io non la usavo mai se non per farmi il caffè.
Proseguii con la sala da pranzo/salotto, il tavolo da otto appena sotto la finestra che dava sulla strada, il grande divano ad elle in pelle nera e tavolino di vetro appena di fronte, il mega televisore LCD sulla parete opposta, non potevo non fargli vedere anche la libreria, laccata bianca.
Un lungo corridoio collegava la zona giorno con quella notte: due grandi stanze da letto e un bagno. Quella degli ospiti era appena più piccola di quella mia e di Pepper, la nostra aveva il bagno privato.
Steve rimase colpito dal colore delle pareti delle camere.
“Indaco.”  Avevo precisato io. “Pepper si è appassionata al Feng Shui, o come si chiama, e dice che questo colore aiuta ad avere un sonno tranquillo. Sarà, ma a me non cambia molto.”
“Si vede che la casa è stata arredata da una donna.”
“Grazie del complimento.”
“Bè, insomma, Tony, non sei proprio un maestro di buon gusto.”
“Io? Io? Ha parlato Mister Pantaloni Beige.”
Scoppiammo entrambi in una risata.
Mi ci voleva proprio.

Ero sempre più convinto di aver avuto una buona idea nel contattare Rogers. E’ vero che, quando stavo da solo, la notte facevo ancora fatica a dormire, ma almeno con la scusa dell’”appuntamento quotidiano”, non me ne stavo ore ed ore in laboratorio, giù nello scantinato. E questo faceva contenta Pepper.
 
Passavamo un sacco di tempo a parlare di libri, di film, io gli raccontavo quello che combinavo in laboratorio e lui mi parlava della sua passione per l’arte. Ogni tanto mi faceva vedere i suoi schizzi, era davvero bravo.
Aveva ragione mio padre, Steve era davvero una persona speciale. Anche con poco, riusciva a mettermi a mio agio, e per quel paio di ore che passavamo “assieme” riuscivo a non pensare a nulla.
A parte le prime telefonate, in cui spiegai  a Steve le mie intenzioni, non tornammo più sull’argomento attacchi di panico, né tantomeno ci addentrammo in discussioni sulla guerra o sul suo amico Bucky, o del fatto che era rimasto ibernato per tutto quel tempo. C’era una sorta di tacito accordo: senza dircelo apertamente, pensavamo entrambi che quelle erano discussioni sarebbero state per quando ci saremmo incontrati di persona.

In primavera, Pepper dovette tornare stare a Los Angeles per un periodo più lungo del solito, io ancora non mi sentivo in grado di stare troppo tempo da solo, quindi chiesi a Steve se avesse avuto voglia di venire a farsi quel famoso giro turistico nella capitale. Lui rimase entusiasta della proposta e anche Pepper fu d’accordo.
 
Decidemmo che Steve sarebbe rimasto da noi per una decina di giorni. Feci preparare la sua stanza e andai personalmente a prenderlo in aeroporto. Era un mercoledì di metà maggio.
Era da quasi un anno che non ci si vedeva, e una volta che Steve uscì dal terminal e mi raggiunse, ci concedemmo un abbraccio tra amici.
Ormai per me lo era, a dispetto di tutto quello che potevo immaginare solo un anno prima.
Era sempre lo stesso, sempre vestito terribilmente, con quei pantaloni retro e la camicia a quadri. Cambiava solo un dettaglio…
“I capelli! Finalmente hai fatto sparire quel ciuffo da ottantenne!”
“Sono andato a tagliarli stamattina, prima di partire.” Aveva ammesso con un mezzo sorriso imbarazzato.
“Forza, andiamo, Washington ci aspetta!”
Caricata la valigia in macchina, ci dirigemmo prima verso casa così da poter lasciare il suo bagaglio.
Facemmo un giro per il quartiere, Cathedral Heights, l’avevamo scelto perché era abbastanza tranquillo, almeno nella capitale, e ci fermammo in un pub vicino casa per cenare. Fu una bella serata, una di quelle tra amici e birra, normale per la gente comune, ma per due come noi non lo era affatto, era speciale.
Quella notte mi svegliai solo una volta, mi capitava di rado dormire così bene e di solito solo se c’era Pepper con me.

Avevo promesso a Pepper che fintanto che ci fosse stato Steve a casa, non sarei sceso in laboratorio. Fu discretamente difficile, ma ce la feci.
Eravamo sempre in giro, Steve era stato a Washington durante la guerra nel pieno dei suoi “Tour patriottici”, ma non era riuscito a vederla veramente.
Andammo quindi al Campidoglio, alla Reflecting Pool, al Congresso, alla Casa Bianca, visitammo il visitabile, senza farci mancare nulla.
Patriottico com’è, stava al settimo cielo, sembrava un bambino al parco giochi. Andammo anche alla biblioteca del quartiere un pomeriggio, visto che era rimasto colpito dall’ottima collezione di libri francesi che avevamo in casa; infatti volle anche prenderne uno in prestito, visto che leggeva sempre qualche pagina prima di andare a dormire.
 
Quella mattina mi alzai un po’ più tardi del solito, il giorno precedente avevamo camminato davvero tanto, avendo fatto un tour dei vari Memorial, ed ero andato a letto distrutto. Non appena mi svegliai, sentii un magnifico profumo di caffè e dolci. Andai in cucina e trovai Steve alle prese col preparare la colazione: caffè, succo d’arancia e muffin ai mirtilli, ne aveva preparati per un esercito.
“Buongiorno Tony!” mi salutò sorridente.
“Buongiorno Steve.” Risposi io, stropicciandomi gli occhi e sbadigliando. “Hai preparato la colazione dei campioni, vedo.”
“Eh, già. Mi piace fare i muffin, ma sono sempre da solo, e quindi non li cucino quasi mai, per non buttarli via…”
Ecco un’altra cosa che mi piaceva di lui: quella autentica ingenuità che trapelava dai suoi occhi e dal suo sorriso. Non si direbbe nel vederlo combattere, ma una volta messa via la tutina a stelle e strisce si trasformava, aveva conservato con il passare del tempo un po’ della sua antica innocenza nonostante tutto; era così profondamente diverso da me.
“Mi dispiace che oggi sia il tuo penultimo giorno qui, Steve.” Ammisi.
“Anche a me.” Replicò lui, alzando lo sguardo verso di me, con un velo di malinconia che gli solcava l’espressione.
“Oggi Ferrovecchio avrà un po’ da sistemare, qui in cucina,” dissi per cercare di cambiare discorso.
“Ma no! Gli darò una mano io.”
“Non se ne parla, tanto avrà da fare con il resto della casa, c’è da dare una ripulita prima che torni Pepper. Semmai andiamo a fare un po’ di spesa.”
“Ok, come preferisci.”
Fu una giornata piuttosto tranquilla e stranamente silenziosa. In serata, decidemmo di stare a casa, anche perché nel pomeriggio si era messo a piovere e non sembrava voler smettere.
Steve aveva insistito per preparare lui la cena, senza l’aiuto di Jarvis e lo lasciai fare.
Ci abbuffammo di roastbeef e patate arrosto, una delizia. Erano anche rimasti dei muffin e dei mirtilli dalla colazione, cercai di sistemarli in un piatto per portarli in salotto e mi spaparanzai sul divano accendendo la tv. Steve sparì per un paio di attimi per prendere un libro in camera sua e quando tornò si accomodò sul divano in un modo che mi sorprese alquanto: si sdraiò appoggiando la testa sulle mie gambe.
“Ti dà fastidio se sto così? Da sdraiato leggo meglio.” Disse, mostrandomi il volume.
“No, no, tranquillo, fai pure.”
Rimanemmo così per una decina di minuti, leggendo lui e io guardando un filmaccio in tv. Poi di punto in bianco Steve mi chiese: “Come va, Tony?”
“Ho un po’ la pancia piena, i tuoi muffin sono buonissimi e non riesco a smettere di mangiarli.”
“Non intendevo quello. Come va col sonno, con gli attacchi di panico? Dopo le prime telefonate non ne abbiamo più parlato. Sapevo che era un argomento di cui discutere di persona. Adesso siamo qui, tranquilli. Ti va di dirmi qualcosa?”
Rimasi  un po’ interdetto, sapevo che sarebbe venuto fuori il discorso, ma Steve, ancora una volta, riuscì a stupirmi con la naturalezza con cui me l’aveva chiesto.
“Va bene, inizio io.” Continuò, mettendo giù il libro, quando capì che non sapevo come cominciare. “Sogno spesso Bucky che cade giù al treno, ho ancora stampata in mente la sua espressione di quel momento. Almeno una notte a settimana non riesco neanche a mettermi a letto per dormire. Ho comprato un sacco da boxe e me lo son messo in camera da letto. Quando non dormo, lo prendo a pugni. Riderai, ma ho la fobia dei ghiaccioli, non riesco a mangiarli. E ogni tanto vago per Brooklyn a cercare i posti dove andavo - o dove mi hanno picchiato - prima della guerra e di tutto questo. Qualche volta, quando sono al pc, riguardo i vecchi filmati che mi vedono protagonista della propaganda. Un paio di volte ho avuto la tentazione di chiamare Peggy in Inghilterra. Mi sento tremendamente solo ed inadeguato, ma da quando ci sei tu un po’ meno e va molto meglio.” Terminò con un sospiro, tirando indietro il capo per guardarmi negli occhi. “Ora tocca a te.” Mi sorrise, ancora sdraiato con la testa sulle mie gambe, e non potei non trovarlo buffo, visto che non si era mosso neanche di un millimetro.
“Ok. Ci provo. Se la gente mi parla del portale, inizia a girarmi tutto e mi manca il respiro. Sento la mancanza delle mie armature, ma ho convinto Pepper a poter ricostruire Mark VII. Vorrei operarmi per togliere l’Arc Reactor. La notte mi sveglio dalle tre alle cinque volte, dipende se sono da solo o con la mia compagna. Sogno ancora il portale e anche Pepper che va in autocombustione. Vorrei tanto tornare a New York per vedere cosa stanno combinando alla mia Stark Tower. E non avrei mai pensato di fare amicizia con te. Su una cosa mio padre aveva ragione: sei una persona straordinaria.” Lo vidi arrossire a quest’ultima frase, ma non disse nulla.
“Come va adesso? Buttare fuori le cose, ogni tanto serve.”
“Un po’ meglio, in effetti…”
“Certo, non è facendo questo elenco che la nostra vita cambia, ma magari è un inizio.”
“Grazie, Steve.”
“Sai cosa diceva Céline?  “La vita è questo, una scheggia di luce che finisce nella notte.” Pensaci, è proprio così. Ne sappiamo un po’ qualcosa, io e te. Io, nel buio del fondale marino e tu in quello del portale. Siamo profondamente diversi, Tony, ma in qualche modo siamo legati. Siamo delle schegge, cerchiamo di rimanere luminosi finché ci è possibile.”
Quelle parole mi colpirono, io lo vedevo sempre come un ragazzino ingenuo, nonostante la sua reale età, ma la verità era un’altra.
“Riesci sempre a sorprendermi, Steve. Mi piace quella citazione, e riflettendoci, è proprio come dici tu. Magari però io sono un po’ più luminoso di te.” E con un gesto, indicai l’Arc Reactor.
“Tu, invece, non cambi mai.” Rise lui.
“Dovremmo rivederci presto, Capitano.”
“Certo, e la prossima vieni tu a trovarmi, senza attacchi di panico, ok?”
“Promesso.”
Rimanemmo tutta la notte su quel divano, ci addormentammo come due bambini, lui con il libro ed io con il telecomando in mano. Non ci svegliammo neanche una volta.
 
Purtroppo arrivò anche il momento dei saluti. Come per l’arrivo, accompagnai io Steve in aeroporto e ci salutammo con lo stesso abbraccio di dieci giorni prima.
Le nostre videochiamate continuarono regolari nei mesi seguenti.
Ci rivedemmo a Luglio, in occasione del suo compleanno, riuscendo a mantenere la mia promessa e raggiungendolo a New York.


 


Questa che avete letto è la One Shot che ho scritto per il contest All But Stark organizzato dalla pagina Facebook The Rainbow Side of Marvel.
E' il primo contest a cui partecipo e anche se non sono riuscita ad arrivare tra le prime tre classificate, sono comunque contenta del giudizio ottenuto e soprattutto sono riuscita a mettermi in gioco senza combinare tanti pasticci.

Le direttive del contest erano quelle di inserire gli elementi che si trovano nell'immagine che ho postato, in più non essendo il Lemon un obbligo, il pairing doveva essere incentrato sull'amicizia, quindi per me è stata doppiamente dura rendere Tony e Steve solo amici (pre slash? why not).

Spero vi sia piaciuta, grazie a chi mi ha votato nel sondaggio e grazie, come sempre, a mamma Marti per il betaggio, che tanto per cambiare l'ho fatta diventare matta coi verbi.
  
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