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Autore: Clockwise    03/07/2013    4 recensioni
Un amore impossibile, nato dall'inchiostro vendicatore di chi, di vendetta, ha il sangue pieno. I protagonisti della mitologia classica calcano il suolo terrestre.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Foglia d’alloro
Δαφνινον Φυλλον

 
 
Vide un capannello di ragazzi in un angolo del cortile, radunati in cerchio a vedere chissà cosa. Eros si incamminò nella loro direzione, curioso di vedere cosa ci fosse di tanto interessante. Si alzò sulle punte dei piedi, maledicendo il suo inutile metro e sessantasette. Al centro del gruppo c’era suo cugino Apollo, per tutti Paul, sorridente, avvolto in un’aurea dorata di gloria e ammirazione; ai suoi piedi la carcassa di un enorme serpente.
«Cos’è successo?» chiese Eros al ragazzo più vicino. Questi gli rispose senza staccare gli occhi dalla figura di Paul:
«Quel serpente era in giardino e stava minacciando dei ragazzi, e Paul è arrivato e l’ha strangolato con le sue mani, così in un attimo. È stato incredibile.»
Eros tornò a guardare Paul che si gloriava del successo della sua impresa, attorniato dai compagni stupiti.
Signore e signori, ecco il nuovo dio della scuola.
 
«Dovevi vedere! Il pitone era proprio lì, a due metri dalla gamba di Percy, e aveva già alzato la testa e stava quasi per attaccare, e allora io, appena l’ho visto, mi sono abbassato e l’ho preso, proprio sotto la testa, sulla gola, e l’ho strangolato. Si dibatteva come un mostro, era davvero forte…»
Eros abbassò lo sguardo sulla sua fetta di pizza, ascoltando distrattamente il cugino che raccontava – per l’ennesima volta – la sua impresa ad un gruppo di curiosi raccolti intorno al loro tavolo in mensa. Sospirò, chiedendosi quante volte ancora avrebbe dovuto sorbirsi quella storia, e fino a quando Paul se ne sarebbe vantato.
«Sei stato davvero coraggioso…» mormorò una ragazza, seduta in grembo ad Paul, posandogli una mano sul braccio e guardandolo con occhi languidi.
«Oh, beh, non è stato poi così difficile… Anche se era davvero enorme e incredibilmente forte, non avete idea…»
«Sì che abbiamo idea, Paul, sarà la quinta volta che ce lo racconti. Abbiamo capito tutti quanto tu sia vanitoso» esalò Eros, seccato. Non si rese conto di avere espresso il suo pensiero ad alta voce finché non vide lo sguardo di scherno del cugino.
«Cos’è Eros, sei invidioso? Non abbatterti, magari un giorno anche tu compirai un’azione coraggiosa… magari chiederai a Psiche di uscire» buttò fuori Paul, con un ghigno, mentre la tavolata rideva. Eros sentì le guance imporporarsi. Lanciò disperato un’occhiata a Psiche, seduta qualche posto più in là, sperando che non avesse sentito, ma anche lei aveva il viso  scarlatto. Paul si accorse dello sguardo.
«Ops.» disse, senza tuttavia togliersi quel ghigno dalla faccia, fra le risate degli altri. Eros si alzò di scatto e si allontanò dal tavolo.
 
Guardò l’orologio. Era mezzanotte passata, ma non aveva sonno. Sentiva il sangue ribollire nelle vene, mentre strizzava gli occhi per osservare ogni dettaglio delle due penne posate sul tavolo. Ci aveva lavorato tutto il giorno, impiegando tutta l’energia che aveva in corpo, alimentata dalla rabbia repressa, dalla frustrazione, dall’insoddisfazione, da una strana malvagità che gli inquinava il sangue. Sì perché Eros sentiva, mentre lavorava a quelle penne, che lo odiava, lo odiava per averlo sempre messo in ridicolo, perché era così perfetto, così superbo. Bisognava fargliela pagare, dargli una lezione che non avrebbe più dimenticato.
Anni di battute per la grave deformazione della colonna vertebrale, per la grande voglia a forma di ali sulla schiena, di pavoneggiamenti per i premi in concorsi letterari, di esibizioni alla chitarra davanti alla famiglia ogni singolo Natale. Oh, Apollo era così bello, così perfetto, tutti lo amavano! Eros invece non era che uno svitato, sempre dal medico, o dallo psicologo, un povero orfanello che viveva grazie alla compassione degli zii, così solitario, così cupo. Chi mai avrebbe voluto essere amico di Eros, se c’era una persona fantastica come Apollo lì vicino?
Ah, ma Eros era sempre stato strano: abbandonato dai genitori pochi giorni dopo la sua nascita, aveva sempre avuto lo strano potere di unire le persone aggiungendo all’inchiostro di comuni penne (che a lui piaceva chiamare frecce) qualche minerale o metallo particolare e soffiandoci dentro; chi ci scriveva si innamorava – o al contrario, odiava o temeva – all’istante. Non ne aveva mai parlato con nessuno, era una cosa che lo inquietava, ma al contempo lo esaltava, e sapeva che sarebbe sicuramente finito in un qualche ospedale se l’avessero scoperto.
Rimirò le sue frecce, prima di riporle, soddisfatto, ma con una punta di senso di colpa che gli prudeva nello stomaco, nell’astuccio. La prima era una bella stilografica con qualche granello di polvere d’oro nell’inchiostro, destinata al dorato cugino, intrisa d’amore. La seconda era una comune penna a sfera nera, con qualche scaglia di piombo nel poco inchiostro rimasto, pregna d’odio e terrore.
 
Lasciò cadere la prima nella tasca della giacca di pelle del cugino, senza farsi vedere, prima di colazione.
Lasciò cadere la seconda nello zaino aperto di lei, mentre la ragazza rovistava nell’armadietto.
Poi stette a guardare, gustandosi lo spettacolo, assaporando la vendetta.
 
Paul si grattò la nuca, assonnato, mentre lasciava vagare lo sguardo per l’aula, insensibile alla lezione. Pensava ad Eros: dal pranzo del giorno prima non avevano parlato, nemmeno tornati a casa. Chissà cos’aveva. Possibile che se la fosse presa per quella battuta? No, ormai c’era abituato, perché prendersela? Abbandonò quell’argomento e si mise a pensare ad altro. Chissà cosa avrebbero servito a pranzo… Aveva tanta voglia di pasta…
I suoi pensieri furono interrotti quando il professore chiese di ricopiare sul quaderno la frase che aveva scritto alla lavagna. Svogliato, Paul tuffò una mano nell’astuccio, afferrando una bella penna stilografica dorata. Se l’era trovata quella mattina nella giacca, ma non sapeva di chi fosse. Forse l’aveva presa dalla scrivania di suo padre senza accorgersene. Poggiò la penna sul foglio e iniziò a scrivere, ma si interruppe a metà della frase, improvvisamente colto dal bisogno irrefrenabile di vedere una persona. Lasciò di nuovo vagare lo sguardo sull’aula. Eccola, due banchi avanti a destra. Ebbe una spiacevolissima sensazione allo stomaco. Non era la fame. Paul ancora non se ne rendeva conto, ma era amore.
 
Una penna, una penna… c’era di tutto in quello stramaledetto astuccio, ma nemmeno l’ombra di una penna! Sbuffando, Daphne si chinò verso il suo zaino, e rovistò fra quaderni, fogli sparsi e cianfrusaglie varie. Finalmente, nel fondo, trovò una penna a sfera nera mezza rotta. Scarabocchiò in fretta la frase alla lavagna, ma una strana sensazione la fece voltare. Un pizzicorio alla nuca, come se la stessero osservando. Effettivamente trovò che uno dei suoi compagni, Paul, la fissava insistentemente. Provò una strana sensazione allo stomaco, e si voltò di nuovo, infastidita. Daphne ancora non lo sapeva, ma era odio, era paura.
 
Paul, appoggiato con nonchalance al muro del cortile, con le braccia conserte e gli occhiali da sole, aspettava che Eros arrivasse. Gli aveva finalmente parlato, nell’ora di algebra, e il cugino gli aveva confessato di essere solo geloso; Paul l’aveva gentilmente perdonato. Il suo sguardo pigro fu d’un tratto catturato dall’ondeggiare di una chioma bruna, e all’istante, appena riconobbe a chi appartenevano quei capelli, provò una morsa allo stomaco, di nuovo. Daphne non lo vide neanche, si sedette ad una panchina poco lontano e prese a leggere un libro. Paul si ritrovò ad ammirare estasiato la sua figura: i capelli scuri e lucenti, le sopracciglia eleganti aggrottate mentre leggeva, gli occhi color caramello dietro le lenti degli occhiali, le mani delicate che sfioravano le pagine. Una vocina nella sua testa interruppe la sua beata contemplazione:
Beh? Cos’è vuoi farle un ritratto? Muovi le chiappe e invitala a uscire, idiota!
E se non mi vuole parlare? E se le piace un altro? E se non ho i capelli in ordine? E se puzzo di sudore? E se…
Stai delirando. Per l’amor degli dei, Paul, sei o non sei il ragazzo più bello e talentuoso della scuola? Sei un poeta, un musicista, canti da dio, e per di più hai un viso angelico e un fisico niente male. Ogni ragazza cadrebbe ai tuoi piedi, muoviti.
Paul dovette ammettere che la vocina interiore aveva ragione. Raddrizzò le spalle, si ravvivò i capelli e, con un sorriso spavaldo, si avvicinò a Daphne e si sedette accanto a lei. La ragazza alzò lentamente il viso dal libro e gli lanciò un’occhiata inviperita non appena lo riconobbe come il ragazzo che la fissava quella mattina e la recente superstar che andava in giro tutta boriosa perché aveva strangolato un serpentello.
Cosa diavolo vuole?
«Ciao, sono Paul» esordì il ragazzo con voce roca, ignorando la strana occhiata e sollevando gli occhiali da sole.
«Buon per te.» lo freddò lei, tornando al libro, anche se le gambe fremevano e una voce nel suo cervello le urlava di alzarsi e andarsene.
«Tu sei Daphne, non è così? Siamo nella stessa classe di letteratura» continuò il ragazzo, giustificando la risposta fredda della ragazza come un tentativo di fare la preziosa. Ma sapeva che prima o poi avrebbe ceduto. Succedeva sempre così.
«Senti, sbrigati a dirmi quello che devi dire, oppure vattene» disse la ragazza spazientita.
«Ah, io… Io…» si bloccò, improvvisamente. Non sapeva che dire. Lui, Paul, il miglior poeta della scuola, era rimasto a bocca asciutta.
Lei lo fissava irritata. Deglutì a disagio.
Invitala a uscire! strepitò la sua vocina.
Giusto, sì.
Recuperò la sua faccia-da-conquista e le disse:
«Non prendere impegni per sabato sera: ti porto in un posto dove fanno una pizza meravigliosa e…»
«C’è il concerto sabato sera.» lo interruppe, stizzita.
«Concerto?»
«Quello della scuola, al parco olimpico.»
Giusto, il concerto. La sua mente lavorò veloce.
Scuola. Concerto. Sera. Chitarra. Serenata. Bingo.
«Perfetto. Ci vediamo lì allora. Non truccarti troppo, odio i baci che sanno di rossetto.» sussurrò Paul, alzandosi e lasciando una Daphne allibita a desiderare di trovarsi in un incubo.
Paul si affrettò verso Eros che lo aspettava appoggiato al muretto e che aveva sentito ogni parola della conversazione. Lo raggiunse con gli occhi brillanti e i capelli spettinati e gli disse, infervorato:
«Mi serve una canzone d’amore. Adesso.»
 
«Davvero non capisco di cosa ti lamenti, Daphne. Hai il ragazzo più bello della scuola che ti viene dietro come un cagnolino e tu non fai che mandarlo via. È assurdo, stai perdendo un’opportunità…»
«Melissa, per favore» la interruppe Daphne. Erano nei bagni della scuola, durante l’intevallo, il giorno prima del concerto, e Daphne aspettava l’amica che si ritoccava il trucco.
«Ti ho già detto che non lo sopporto. È così presuntuoso, e superbo, si crede un dio in terra, va in giro come un galletto… Ed è tutta la settimana che mi perseguita ai limiti della decenza! Me lo ritrovo ovunque, alla porta della classe, in mensa, in cortile, mi accompagna a casa tutti i giorni.»
«Ma che cavaliere» ridacchiò Melissa.
«Cavaliere un corno, mi sta appiccicato come una cozza! E continua a dirmi che sono l’amore della sua vita, che non ha mai visto ragazza più bella di me… Che poi non capisco cosa ci trovi in me, o come mai tutt’a un tratto gli sia venuta questa voglia di uscire con me…» Davvero non capiva cosa ci trovasse Paul in lei: mora, occhi marroni, con gli occhiali, la testa per aria, non era una cima in nessuna materia, non aveva nessun talento particolare.
«Un colpo di fulmine, Daphne, un colpo di fulmine..» sentenziò l’amica con aria maliziosa.
«Sì, un colpo in testa piuttosto» rise Daphne, pulendosi gli occhiali con un lembo della maglietta. In realtà provava una strana sensazione quand’era con Paul, ma non riusciva a spiegarla all’amica: era estremamente a disagio, aveva il costante impulso di scappare via, di toglierselo di torno, come se lui fosse pericoloso.
«Però non essere troppo dura con lui.» disse Melissa, con un’ombra di preoccupazione sul viso, distogliendola dalle sue riflessioni.
«Come?»
«Dico, non essere troppo dura con lui. Quando ti chiede di uscire, o ti parla, o ci prova, ecco, non essere troppo secca, troppo antipatica, che poi ci rimane male. Guarda che i maschi sono sensibili, anche se non sembra.»
Daphne si trattenne dallo sbuffare, inforcando gli occhiali.
«Sensibile? Paul? Ma andiamo, non riuscirei a smontare il suo ego nemmeno con la peggiore delle battute. Ora usciamo di qui, sono secoli che stiamo chiuse qua dentro.»
«Secoli che non fai che parlare di quanto Paulie sia snervante, superbo, egocentrico, e tu sia una povera fanciulla indifesa…» iniziò a scimmiottarla Melissa, mentre uscivano. Daphne, ridendo, la zittì con una gomitata. Il sorriso sparì improvviso dal suo volto.
«Non ci credo, è qui» sussurrò spaventata.
«Visto? Parli del diavolo…» rise l’amica. Poi continuò, allontanandosi: «Voglio che la vostra prima figlia si chiami come me!»
Era già troppo lontana perché l’occhiataccia di Daphne potesse raggiungerla.
«Ciao, Daphne» la salutò il ragazzo con un sorriso radioso e un’occhiata seducente.
«Ciao, Paul» mormorò la ragazza rassegnata.
«Non trovi che sia una bellissima giornata?»
«Mh. Forse.» rispose annoiata, incamminandosi verso la sua classe, sperando di perdere Paul nel tragitto. Ma il ragazzo non demordeva.
«Sai cos’altro è bellissimo?»
«Cosa?» mormorò, pronta ad una nuova frase sdolcinata rubata a qualche film romantico.
«Il tuo sorriso, dolce Daphne.» disse il ragazzo, guardandola con intensità.
«Ah, sì?»
«E la sai un’altra cosa bellissima?»
«Che cosa, Paul?» chiese la ragazza, spazientita. Paul le prese un polso, costringendola a fermarsi e la voltò verso di sé, avvicinando il suo viso a quello della ragazza.
Daphne sentì un incontrollato moto di repulsa.
«Il bacio che fra poco ti darò» sussurrò Paul guardandola dritto negli occhi, con una voce morbida che, sapeva per esperienza, stendeva qualsiasi ragazza.
Un terrore cieco serpeggiò in Daphne, paralizzandola. Percepiva soltanto le mani di lui, brucianti, sui suoi polsi, e le sue labbra pericolosamente vicine. Istintivamente, trasse indietro la testa, tremando.
«No.» mormorò, allontanandosi da lui, prima di correre via terrorizzata.
Paul rimase lì, immobile, incurante delle occhiate incuriosite che i suoi compagni di scuola, passando, gli lanciavano. Rimase lì, con le labbra ancora dischiuse pronte ad accogliere quel bacio che non sarebbe mai arrivato. Rimase lì, e chissà per quanto ancora lo avrebbe fatto se sua sorella, Diane, non lo avesse afferrato per un braccio e lo avesse trascinato in un angolo del cortile.
 
«Davvero, cosa c’è che non va in me? Sono ragionevolmente bello - perché non si può dire che io sia brutto - so cantare, so suonare la chitarra - e tutte le ragazze amano i musicisti - so addirittura scrivere poesie, ma lei non mi vuole. Scappa. Ti dico che è scappata via, terrorizzata. Tu lo sai perché, Di?»
Diane sospirò, osservando il fratello, così simile a lei, che la guardava in cerca di risposte, affranto e ferito, seduto sul muretto del cortile.
«Ha avuto paura» mormorò, incerta.
«Ma di cosa? Non sono mica un mostro. Fossi stato zio Efesto, avrei potuto capire, ma…»
Un sorrisino di scusa apparve sul suo viso quando accolse l’occhiata della sorella. Non le piaceva che facesse battute sullo zio. Ma se uno è storpio, è storpio, lui che ci poteva fare?
«Forse… non sarai stato un po’ troppo pressante?»
«Pressante? Io…»
«Le fai una corte spietata senza lasciarle prendere fiato.»
Paul richiuse la bocca, zittendo la risposta che aveva sulle labbra. Forse la sorella aveva ragione, forse doveva lasciarle un po’ di tregua…
«Ma io… è così bella, Di, così dolce…»
Diane non poté trattenersi dal pensare che, a quanto era parso a lei, quella ragazza non era affatto dolce, e nemmeno particolarmente bella, ma non lo disse al fratello.
«E sai, è successo tutto all’improvviso, d’un tratto l’ho vista e ho avuto una strana sensazione alla pancia, lo sai, no? e il cuore mi batteva, e da allora non faccio altro che pensare a lei.»
«La ami, Apollo, non è così?» domandò piano Diane, abbracciandosi le ginocchia. Sentì il fratello sospirare e alzò lentamente lo sguardo su di lui. Aveva gli occhi colmi di speranza, le labbra increspate da un sorriso sognante, il volto dipinto di felicità, traboccante d’amore.
«Penso proprio di sì.» mormorò.
Diane chiuse gli occhi. Temeva quella risposta, e non sapeva proprio come dire al fratello - così innamorato, così perso – che
«Forse lei non ti ama, Paulie»
Scese agilmente dal muretto, lasciandolo solo.
 
Daphne rabbrividì, incrociando le braccia sul petto nel tentativo di riscaldarsi. Si era vestita troppo leggera, aveva solo un vestitino verde scuro contro il vento fresco di quella sera di Maggio. Cercava Paul con lo sguardo, ma non lo trovava da nessuna parte. In effetti, rifletté, non l’aveva più visto né sentito da quando aveva tentato di baciarla, il giorno prima. Si sentiva in colpa per essere scappata via in quel modo, rendendosi conto che probabilmente il ragazzo ci sarebbe rimasto male, ma era stato più forte di lei. Poche volte nella sua vita aveva provato un terrore simile: da piccola, quando un cane l’aveva attaccata e le aveva ferito una gamba, e quando, una volta al mare, aveva rischiato di annegare.
Riemergendo da quegli angosciosi pensieri, vide Eros avvicinarsi a lei. Era uno strano ragazzo, cugino di Paul, ma quanto di più diverso ci potesse essere da lui: schivo, silenzioso e solitario, Daphne aveva notato più volte che ogni tanto si metteva in un angolo e semplicemente osservava la gente, senza fare altro, osservava e basta. All’inizio della scuola lo prendevano in giro, perché aveva una brutta deformazione alla colonna vertebrale, ma lui non rispondeva agli insulti, li lasciava fare, si lasciava difendere da Paul, finché si era perso interesse per lui. Daphne non lo conosceva bene - nessuno lo conosceva bene -, per cui non seppe cosa pensare quando lui le disse:
«Apollo mi ha parlato di te.»
Daphne lo guardò interdetta.
«A-Apollo?» Cos’era, uno scherzo?
«Ah, già, volevo dire Paul.»
Il suo vero nome è Apollo? pensò Daphne esterrefatta, trattenendosi dal sorridere.
«Mi ha detto quello che è successo ieri.» continuò Eros, guardandola negli occhi. Daphne era inquieta.
«Già, continuano a chiedermelo tutti… Io davvero non so cosa mi sia preso, so solo che ho avuto una paura terribile, e ho seguito l’istinto e sono scappata via, senza nemmeno riflettere. È stato così… animale.» rispose piano, più a sé stessa che a lui. Eros annuì lentamente.
«Stanno per iniziare. Devo andare da Apollo. Ci vediamo.» disse brevemente, allontanandosi.
Funziona.
 
… I hope someday you’ll join us,
And the world will live as one.
I ragazzi raccolti sotto il palco applaudirono mentre il ragazzo che si era appena esibito si alzava dal pianoforte e, con un inchino, andava via sollevato.
Daphne vide, mentre il panico cresceva in lei, un altro ragazzo salire sul palco con una chitarra a tracolla, accolto da applausi scroscianti. Paul, sul palco, sorrise e alzò una mano per fermare gli applausi. Avvicinò le labbra al microfono.
«Questa è per una ragazza, lì fra voi, che mi ha fatto perdere la testa.»
I suoi occhi saettarono fra la folla, ma quando incontrarono quelli di Daphne si abbassarono repentinamente  sulla chitarra, Paul premette le dita sulle corde e iniziò a suonare.
Daphne lo ascoltò, lo guardò: cantava dolcemente, lo sguardo fisso sulla chitarra, la voce tremante che poco a poco acquistava forza mentre la canzone cresceva, mentre i ragazzi sotto il palco ondeggiavano a tempo di musica.
Conosceva quella canzone, e notò che Paul la interpretava a modo suo, rallentandola, accorciando le lunghe vocali, addolcendola, per adattarla alla sua voce morbida. Era bravo. Chiuse gli occhi e si lasciò cullare.
Because maybe,
You’re gonna be the one that saves me.
And after all,
You’re my Wonderwall.
Paul cercò di non pensare ad altro che agli accordi, alle parole, tentò disperatamente di non pensare a Daphne… Ma come diavolo faceva, la canzone era per lei!
Almeno cerca di non emozionarti! Almeno questo. A meno che tu non voglia perdere anche quel briciolo di dignità che ti è rimasto…
Zittì la vocina nella sua testa, concentrandosi sulla canzone. L’ultimo accordo venne salutato con un’esplosione di applausi, che gli arrivarono distorti, soffocati: non gli importavano veramente. Con un sorriso scese dal palco, sentendosi vuoto, leggero. Posò la chitarra e si diresse verso Daphne, che lo aspettava in fondo alla folla.
Daphne vide Paul venire verso di lei. Era diverso: non aveva più quella camminata spavalda e fiera, ora teneva gli occhi bassi, le spalle ferme. Era oltremodo lusingata che lui le avesse cantato quella canzone. Si era mostrato debole su quel palco, mettendo a nudo i suoi sentimenti in quel modo, ma l’aveva fatto per lei. E questo la spaventava. Possibile che gli piacesse così tanto da fargli perdere quell’armatura di superbia e sfrontatezza, e farlo rimanere così, fragile e timoroso, con mille emozioni che si susseguivano negli occhi un tempo impenetrabili mentre la guardava, immobile?
L’unica cosa che le disse fu
«Camminiamo.»
Si allontanarono dagli altri e iniziarono a passeggiare nel boschetto. Rametti spezzati, fruscii di foglie, il verso di qualche uccello notturno, il rumore delle stelle, i loro respiri. Nessuno parlava.
«Paul, io…»
«Il mio vero nome non è Paul» la interruppe il ragazzo, senza guardarla «Mi chiamo Apollo.»
Giusto, chi è che te l’ha detto? Eros?
«Sai, a scuola mi prendevano in giro. Mi chiamavano ‘pollo’, in continuazione. E cantavano quella canzoncina, Apelle figlio di Apollo, indicandomi. Nessuno giocava con me, non avevo un amico, o qualcuno che mi difendesse, e io non riuscivo a farlo. Sai, mi si seccava la bocca e le parole rimanevano incastrate in gola, e allora mi dicevano ‘Hey, sei proprio un pollo!’. È incredibilmente stupido, lo so, ma quello è stato l’inizio: poi hanno cominciato a chiamarmi ‘secchione’ o ‘cocco del professore’, perché non avendo amici mi buttavo sulla scuola, capisci? Fino a che non ho cambiato scuola, e sono venuto qui alle superiori, è stato così, e io ci soffrivo davvero. Poi ho iniziato a farmi chiamare Paul, perché era più normale, e mi sono fatto rispettare.»
La sua voce era amara, lo sguardo distante. Daphne vide accanto a lei un bimbo biondo e riccioluto abbassare gli occhi sotto un dito puntato contro di lui trattenendo le lacrime.
«Perché mi dici questo?» mormorò.
«Perché voglio che tu mi conosca, che sappia tutto di me. Perché io non sono quel galletto idiota che va in giro come se fosse il re del mondo, o almeno, non più.»
Quando Daphne lo aveva rifiutato, lo aveva lasciato lì nel corridoio, aveva finalmente aperto gli occhi, aveva capito: non era con un nome più cool o un paio di occhiali da sole che si sarebbe fatto amare.
«Speravo che così, magari, se tu davvero avessi saputo io chi sono, ecco, magari, ti sarei potuto piacere di più. Magari ti saresti potuta addirittura innamorare…» la voce si smorzò mentre la guardava. Eccola, di nuovo, la paura in quegli occhi da cerbiatto, spalancati, in cui poteva riflettersi.
«Paul… Apollo, io… non posso, davvero.»
Il cuore palpitava a mille, iniziava a mancarle l’aria nei polmoni. Ma non era quell’agitazione dolce che provava quando le si avvicinava un ragazzo che le piaceva, no, era peggio…
Vide qualcosa spezzarsi nel ragazzo, come se il suo rifiuto potesse annientarlo.
Si avvicinava, uno sguardo ferino negli occhi verdi, le labbra socchiuse.
Scappò.
 
«Cosa sta succedendo ad Apollo?»
Eros alzò incuriosito lo sguardo su Diane che, sbucata fuori dal nulla, lo guardava come se volesse leggere tutti i segreti della sua anima.
«Perché lo chiedi a me?» chiese il ragazzo placidamente.
«Eros, so benissimo quanto tu ti diverta a giocare con le tue penne.» disse la ragazza, minacciosa.
Eros deglutì. Cercando di non far trasparire nulla dal suo sguardo, disse lentamente:
«Non so di che cosa tu stia parlando.»
Diane socchiuse gli occhi. Poi si voltò, furiosa, frustando l’aria con i capelli biondi e corse verso il bosco.
Eros si azzardò a respirare, senza sapere bene se Diane l’avesse scoperto o no.
 
Apollo non poté fare altro che rincorrerla nel bosco.
«Daphne! Ti prego, aspetta» gridò disperato. Lei probabilmente non lo sentì e continuò a correre terrorizzata per il boschetto.
Voleva solo baciarla, non aveva nessuna intenzione di farle del male, o di metterle le mani addosso,  chiedeva solo un bacio… Si era aperto con lei, dannazione, le aveva raccontato tutto, le aveva mostrato quell’Apollo fragile e insicuro che credeva di aver sepolto sotto la maschera di un Paul forte e sicuro di sé. Perché continuava a fuggire allora? Solo un bacio, solo un bacio… Lo reclamava, gli spettava, lo voleva…
E Daphne correva, terrorizzata, l’aria che entrava come coltellate nei suoi polmoni. Aveva paura. Paura, cieca. La sentì pervaderla in ogni fibra del suo corpo, ma era così tanta, così tanta… troppa.
«Perdonami Apollo, perdonami» gridò, senza smettere di correre «Non è colpa tua, non sei tu, io non lo so, ho paura… Aiuto» mormorò, persa.
Lui accelerò, disperato, doveva raggiungerla…
«Ti prego, Daphne…» ululò, allo stremo. Si avvicinava, a lunghe falcate, gli occhi dorati.
Lei allungò la mano sinistra e strappò delle foglie dalla pianta più vicina, gettandole poi indietro nel debole tentativo di rallentarlo… Le foglie di alloro colpirono Apollo sul viso, ma lui non se ne curò, le lasciò scivolare sotto la maglietta.
Correvano sotto la luna, Apollo e Daphne, come un lupo e una cerva. Se il lupo non raggiungerà la cerva, morirà di fame, lei è la sua unica possibilità di salvezza. E la cerva fugge, terrorizzata, la sua unica certezza è che deve correre via dalle fauci del lupo.
Un grido, un lampo, uno schianto nella notte. Un lupo ansimante accanto ad un albero di alloro che prima, ne è certo, non c’era. Un ululato disperato. Il lupo si accascia. Dov’è la cerva?
Posso piangere, ora?
 
«Ti rendi conto di che cosa hai fatto? Ne hai minimamente idea?» Un sussurro furioso.
«Io… Non pensavo sarebbe arrivato a questo punto, io..»
«Sei un essere miserabile.»
«Fammi spiegare, tu non sai…»
Un’occhiata gelida.
La colpa che si insinua nel petto, e stringe, e soffoca.
 
«Lei dov’è?»
«Apollo, devi stare calmo, devi riposare, lo shock…»
«Dimmi dov’è, Diane.»
Un respiro tremante.
«Non c’è, Paul. Lei è…»
«È morta? È così?»
«Non c’è nessun corpo.»
Dov’è?
Silenzio.
 
Una foglia di alloro si sbriciolava fra le sue dita. Daphnos. La fragranza si spandeva nell’aria. Respirò a pieni polmoni, tentando di far entrare quell’odore dentro di sé, per riempire quel vuoto che provava. Ora c’era solo un albero. Le lacrime negli occhi non volevano scendere.







***
Storia partecipante al contest "Craving for...Myths, Legends and Folklore" di fravgolina sul forum di EFP e vincitrice dei premi speciali 'Soulmates' e 'Sadness'.
E.
  
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