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Autore: Yvaine0    04/07/2013    8 recensioni
Dean e Kameron spalano la neve. Kameron, come sempre, parla troppo. E, come sempre, parla di Pan.
Tutti parlano sempre di Pan, da quanto la nipote del vecchio Fletcher è in paese e Dean non riesce a capacitarsi del fatto che quella mocciosa viziata e capricciosa possa piacere a qualcuno.
Il suo migliore amico, sua sorella, i ragazzini Lucas, Terrence, Ginger, il vecchio Abe: tutti sembrano stravedere per lei.
Perché? Dean non lo sa. Sa solo che, da un certo momento in poi, inizia a trovarla... tenera.
«Sai cosa credo? Credo che lei ti piaccia» lo sfidò allora l'altro.
Dean scoppiò a ridere, lanciandogli un'occhiata divertita. «Oh, ma certo!» replicò con sarcasmo. Poi scosse il capo, senza riuscire a smettere di ridacchiare tra sé.
«Okay, non ti piace – ritrattò Kameron, mentre si alzava finalmente in piedi e riprendeva in mano la pala. - Però devi ammettere che non è male come pensavi all'inizio».
«No, è anche peggio» replicò l'altro in tono divertito.
«Oh, andiamo!»
Dean alzò gli occhi al cielo e sbuffò: «Posso concederti che non sia una totale idiota come pensavo all'inizio. Ti basta?»
Genere: Commedia, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
- Questa storia fa parte della serie 'Cows and jeans'
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L'uomo delle nevi si scioglie?
Da “Non le chiederò scusa” a “Chi la capisce è bravo”
 
Tutto ciò che si sentiva, nel silenzio di quella gelida giornata, erano i respiri dei ragazzi, i leggeri tonfi della neve che cadeva sui mucchi e il raschiare delle pale sul terreno ghiacciato. Se avessero continuato con quel ritmo, la macchina sarebbe stata liberata entro pochi minuti.
«Tutto bene?» domandò improvvisamente uno dei due, rompendo il silenzio quasi assoluto che li circondava.
Kameron alzò la testa per lanciare un'occhiata al migliore amico. «Non lo so. In questi giorni quasi niente è filato liscio» bofonchiò, controllando che il padre non fosse nei paraggi.
Lo aveva appena rimproverato come un bambino di fronte ai suoi migliori amici, per aver messo in pratica un'idea forse un po' stupida. Non faceva che gridargli contro da quando aveva cominciato a nevicare, gli dava del bambino, dell'idiota, dell'incapace. Kameron non era nessuna di queste tre cose, non completamente. Era un po' infantile, un po' imbranato, decisamente pigro, ma non era un totale fallito. Non lo era, vero?
«Forse, amico, dovresi iniziare a collegare il cervello» suggerì Dean con un mezzo sorriso.
Kameron rise, grato al suo amico di non aver gravato ulteriormente sul suo umore. Dean era fatto così: sdrammatizzava, a modo suo. Minimizzava i problemi altrui e ingigantiva i propri. Non era il tipo di persona che si mostrava preoccupata, che si faceva gli affari altrui; era cinico e sarcastico, ma Kameron lo conosceva come le sue tasche, sapeva come interpretare le sue battute sarcastiche, le sue occhiatacce, le sue risate. Lo conosceva e, sebbene fosse probabilmente l'unica persona in zona ad apprezzarlo, non si pentiva di aver attirato l'antipatia di tutti i compagni di scuola pur di rimanere al suo fianco. Dean era un bravo ragazzo, dopotutto. Non molto socievole, forse; poco incline a scambiare chiacchiere cortesi con il prossimo e pieno di pregiudizi, ma sotto a quella scorza da stronzo aveva un buon cuore. Insomma, un buon muscolo cardiaco, che funzionava correttamente – come avrebbe detto lui. Era forse l'unica persona in grado di capire perché Pan si fosse innamorato di lui, a poterci credere senza troppi problemi.
Quando gli venne in mente la sua amica, Kameron si morse il labbro inferiore e lanciò un'occhiata indecifrabile al suo amico, che rispose inarcando le sopracciglia senza nemmeno smettere di spalare la neve. Kameron aveva una domanda sulla punta di quella sua maledettissima lingua, ma aveva paura a porla. Anzi no, non paura: timore. Il suo migliore amico non poteva fargli paura, dopotutto, no? Aveva un pessimo carattere, ma il peggio che sarebbe potuto succedere era...
«Tu invece quand'è che colleghi il cervello?» sputò, prima ancora di riuscire a iniziare la lista di motivi per cui sarebbe stato meglio stare zitto. Dopo tutto, però, Kameron non era mai stato un ragazzo riflessivo, tendeva a fare ciò che gli veniva in mente, stupendosi poi delle conseguenze delle sue azioni. L'automobile incastrata nella neve ne era un esempio lampante.
«Eh?» fu la fredda risposta di Dean; aveva un sesto senso per captare in anticipo le sciocchezze del suo amico e aveva come la sensazione che fosse giunto il momento per una di queste. Sembrava proprio non stancarsi mai di fare passi falsi; come doveva definirlo, questo, masochismo?
Kameron si appoggiò al bastone della pala, dopo averla affondata nella neve di fronte a lui. Neve mossa, visto che la stavano spalando, per cui questa si affloschiò e lui cadde in avanti, ridendosela della grossa.
Dean alzò gli occhi al cielo e, senza accennare a dargli una mano per rialzarsi, tornò al proprio lavoro.
L'altro però non sembrava intenzionato a rialzarsi. Lo fissava, seduto per terra, in attesa di una risposta. Risposta che Dean, non avendo capito la domanda, non avrebbe dato; ecco perché qualche istante dopo Kameron riprese la parola: «L'hai trattata male».
Dean avrebbe preferito che se ne stesse zitto a fare l'uomo delle nevi seduto per terra, a quel punto. «Le passerà» tagliò corto. Probabilmente avrebbe dovuto chiedergli a chi si riferisse, prima di rispondere, ma sapeva benissimo a chi si riferiva. Kameron non faceva che parlare di lei, di Pan, da quando lei era arrivata. Dopo la festa del raccolto, in particolare, aveva la pretesa di insegnargli come avrebbe dovuto comportarsi con lei, di rimproverarlo. Ma a Dean non importava niente degli insegnarmenti di Kameron, non ne aveva alcun bisogno. Sapeva come comportarsi con le persone.
«Sono passati tre mesi, ti pare le sia passata?» insistette l'altro.
Dean gli lanciò un'occhiata infastidita: era necessario che capisse di essere inopportuno e irritante. «Non è colpa mia se è una bambina capricciosa e rancorosa» sputò, poi.
E a quel punto Kameron rise, perché, insomma, chi al mondo era più rancoroso di Dean McDonnel? O se non al mondo, comunque tra paese e dintorni. «Senti chi parla!» esclamò, senza smettere di ridere.
Dean lo guardò di nuovo male. Smise di lavorare, piantò a sua volta la pala nella neve e vi si appoggiò – senza cadere, al contrario dell'altro. «Allora, sentiamo, dove vuoi arrivare?» ringhiò. Non aveva voglia di affrontare quella conversazione. Era del tutto inutile farlo. Lui non aveva sbagliato, aveva semplicemente detto quello che pensava, il fatto che quella sciocca ragazzina se la fosse presa e l'avesse piantato lì due minuti prima della loro esibizione alla festa del raccolto era del tutto ininfluente. Anzi, forse era addirittura una conferma di ciò che le aveva detto: era una codarda, sapeva solo scappare.
«Da nessuna parte. Dico solo che potresti essere meno stronzo con lei. Cosa ti ha fatto di male?»
Dean serrò i denti e fissò l'amico in silenzio per qualche istante, poi scosse il capo e riprese a lavorare: «Kameron, devi smetterla con questa storia. Non mi scuserò con lei» proclamò, sperando di poter chiudere lì il discorso.
«Sai cosa credo? Credo che lei ti piaccia» lo sfidò allora l'altro.
Dean scoppiò a ridere, lanciandogli un'occhiata divertita. «Oh, ma certo!» replicò con sarcasmo. Poi scosse il capo, senza riuscire a smettere di ridacchiare tra sé.
«Okay, non ti piace – ritrattò Kameron, mentre si alzava finalmente in piedi e riprendeva in mano la pala. - Però devi ammettere che non è male come pensavi all'inizio».
«No, è anche peggio» replicò l'altro in tono divertito.
«Oh, andiamo!»
Dean alzò gli occhi al cielo e sbuffò: «Posso concederti che non sia una totale idiota come pensavo all'inizio. Ti basta?»
«No, non basta. Perché?»
Lui si strinse nelle spalle con noncuranza. «È amica di mia sorella, non può essere così cretina in fondo. Aggie sa il fatto suo. - spiegò. - Ed è tornata» aggiunse poi.
Kameron rimase in silenzio qualche istante, mentre riprendeva a lavorare. E Dean apprezzò il fatto che avesse finalmente chiuso il becco, almeno finché non ricominciò a blaterare: «Anche io temevo non tornasse, sai?»
«Lo so». E in cuor suo, quando Pan era partita per far visita alla sua famiglia in città, Dean aveva davvero sperato che sarebbe tornata. Non tanto perché sentisse la sua mancanza – anzi, non gli era parso vero di tornare alla normalità per qualche giorno –, ma perché era sicuro che in caso contrario sarebbe stato un duro colpo per tutti: per Kameron, Agatha, i piccoli Lucas, anche per Terrence e Ginger, ma soprattutto per Abe. E indirettamente, anche per lui. L'ultima cosa che voleva era vedere di nuovo Abe gironzolare per casa come un fantasma, smettere di lavorare e fissare il muro per ore. Che qualcun altro voltasse le spalle a Kameron, che a sua sorella fosse strappata un'amica. Non l'avrebbe sopportato e, sicuramente, non sarebbe riuscito a perdonalo, mai.
Ma lei lo aveva stupito: era tornata. Era tornata dalla città, si era rimboccata le maniche, lo aveva stupito e continuava a farlo. Nell'ultimo periodo era persino riuscita a cucinare qualcosa senza renderlo immangiabile. Forse, stava iniziando a pensare, quella ragazza non era poi così male. Viziata, egocentrica, incapace, isterica, codarda e sciocca, ma almeno non era un traditrice, a quanto pareva. Con un po' di impegno sarebbe riuscita a diventare persino facilmente sopportabile.
«È una buona amica».
«Mi fa piacere» commentò Dean con disinteresse.
Kameron, però, non si accontentò di quella reazione, aveva voglia di parlare. E Dean odiava quando a Kameron veniva voglia di parlare, perché diventava seriamente intollerabile. Lo odiava perché poi non stava zitto un secondo e non gli permetteva di chiudersi nel suo indispettito mutismo; se lui voleva chiacchierare anche Dean doveva farlo.
«Non è come Matthew, lei non se ne andrà».
«Kam, non me ne può fregar di meno. E non voglio parlare di lui». Serrò nuovamente i denti. L'ultima cosa di cui aveva bisogno era rivangare il passato. La prossima volta ci avrebbe pensato due volte, prima di fermarsi ad aiutare quel deficiente del suo migliore amico. Unico amico.
«No, certo – bofonchiò Kameron in risposta. - Tu non parli di niente, però non smetti un attimo di pensare».
Dean rise amaramente. «Pensa che tu fai il contrario».
Fu il turno di Kameron di ridere, nonostante avesse tutta l'intenzione di affrontare con lui un discorso serio. «Okay, a parte gli scherzi, – si ricompose presto, - non dovresti fare così. Gli amici servono a questo, no?».
Dean sbuffò e gli rivolse una breve occhiata di rimprovero, prima di rispondere: «No, Kameron, gli amici servono a soccorrerti quando stai per essere preso a sberle da tuo padre, servono a spalare tutta queste neve con te per risolvere il casino che tu hai combinato, servono a farsi quattro risate quando qualcosa va male. Gli amici dovrebbero capire quando chiudere il becco e quando...». Le parole gli morirono in gola. Gli amici non lasciano che qualcuno rimanga da solo pur di rimanere al proprio fianco, gli amici, piuttosto, si sacrificano. Ecco una cosa che Dean non si era mai perdonato: Kameron era stato completamente solo al liceo, a causa sua. Se non fosse sempre stato così stronzo, forse quella marmaglia di gente ottusa non avrebbe voltato le spalle anche al suo amico.
Sbuffò, cercando di ignorare i sensi di colpa che gli attanagliavano lo stomaco, mentre Kameron lo guardava tranquillamente, in attesa che finisse di parlare. «Non ho voglia di parlare e basta» concluse.
«Mi prometti che ci proverai?»
Sì, Dean aveva avuto tutta l'intenzione di chiudere il discorso, ma Kameron era davvero – davvero – duro di comprendonio. «A fare cosa?» rinchiò rabbiosamente, senza nemmeno guardarlo.
«Secondo me dovreste darle una possibilità».
«Se ti dico che va bene, chiudi il becco?».
«Andata!».
«Oh che bello» concluse Dean in tono sarcastico ed esasperato. E poi dicevano che non era un tipo paziente!
 
Dean non era stupido, nonostante fosse pieno di pregiudizi. Si fidava di Kameron, si fidava di sua sorella e si fidava del vecchio Abe. A volte, doveva ammetterlo, si era chiesto perché quei tre trovassero quella ragazza così ...perbene. Lui, guardandola, vedeva solo una ragazzina con troppi capelli e pretese, una mocciosa venuta dalla città, che di come vivere alla fattoria non aveva che una vaga idea. Era una piantagrane ed era inutile cercare di nascondere il fatto che Pan Fletcher causasse più danni di quanti non ne sapesse riparare. Da quando l'aveva conosciuta – e, cavolo, erano ormai otto mesi che l'aveva tra i piedi – era riuscito a trovare una sola buona qualità in lei: le determinazione. Per quanto lui la scoraggiasse, per quanto lei stessa non facesse che combinare disastri e fallire in ogni suo tentativo di fare alcunché, non aveva ancora gettato la spugna. Era stata licenziata quattro volte, da quattro persone diverse, prima di trovare un lavoro fisso. Forse il fatto che quel posto glielo avesse poi procurato Ginger, la donna più disponibile e paziente di tutto il paese e dintorni, era oltremodo significativo, ma non poteva negare che, dopo tanta insistenza, Pan fosse davvero riuscita a trovarsi un lavoro. Aveva raggiunto il suo scopo, dopo tanta fatica.
Era questo il motivo per cui negli ultimi giorni aveva smesso di sputarle addosso veleno: rispetto verso qualcuno che non aveva mollato e ce la stava facendo. Più che averla accettata, Dean aveva deciso di non gli metterle più i bastoni tra le ruote.
Kameron tuttavia non apprezzava abbastanza il gesto, non capiva il suo sforzo e premeva affinché Dean accettasse di fare qualche ulteriore passo avanti. Dean non aveva idea del perché in quei giorni stesse davvero facendo quel che gli era stato chiesto – quando aveva accettato il compromesso, era ben intenzionato a dimenticarlo in fretta –, ma si era ritrovato a farlo. In parte. Quello che gli serviva, soprattutto, era un buon motivo per darle la possibilità di riscattarsi. Ecco perché aveva cominciato ad osservarla, una volta caduta abbastanza neve da impedirle di allontanarsi dalla fattoria. E, sorprendentemente, l'aveva trovato.
La convivenza forzata lo aveva portato a rivedere diversi aspetti del carattere di Pan Fletcher – o di quello che lui credeva avesse. Tanto per cominciare, non era così viziata come si impegnava a far sembrare. Quando gli abitanti della fattoria Fletcher si erano trovati in difficoltà, sommersa da una nevicata epica, la ragazza si era subito rimboccata le maniche per rendersi utile, senza lamentarsi una sola volta. E Dean l'aveva apprezzato, molto. Una delle qualità che più ammirava nelle persone era proprio la disposizione al sacrificio, probabilmente per via della totale indisposizione ad esso che aveva riscontrato in suo fratello maggiore, nel momento del bisogno. Aveva iniziato quindi a tollerare la sua presenza, nonostante non gli piacesse particolarmente, e i suoi sforzi per rendersi utile.
Si era sorpreso quando lei aveva chiesto aiuto al vecchio Abe per imparare a cucinare ed era rimasto impressionato dal rapporto di familiarità che aveva visto nascere tra il vecchio e la nipote. E questo, sì, gli era piaciuto. Era stato felice di vedere qualcuno della famiglia interessarsi, finalmente, ad Abe. Quando Maggie era morta e Harvey non si era più fatto vivo, Abe aveva sofferto molto; era stato abbandonato a se stesso e Dean a volte credeva davvero che gli avesse offerto un lavoro alla fattoria per avere compagnia, oltre che per aiutarlo.
Abe e Dean erano persone orgoglioso e schive, burbere; nessuno di loro sarebbe mai riuscito ad ammetterlo ad alta voce, ma si erano affezionati l'uno all'altro.
Vedere che qualcuno si dimostrava finalmente il suo affetto a quel vecchio brontolone aveva sorpreso e rallegrato Dean. Eccolo, si era detto: eccolo il buon motivo per cui provare a rivalutarla. E così aveva fatto.
Aveva passato i giorni di reclusione alla fattoria ad osservarla, a studiarla con occhio diverso, più comprensivo. Ogni volta che si trovava a ridere (bonariamente) per una gaffe di Pan e lei, arrossendo, cercava di allontanarlo, Dean si sentiva un cretino. Iniziava a sentirsi in colpa per come l'aveva trattata in passato, in particolare per le cattiverie dette il giorno della festa del raccolto; una parte di lui, comunque, continuava a darsi dello stupido per aver cambiato così in fretta: chi gli diceva che poteva davvero fidarsi? Non poteva mica farsi infinocchiare dalla buona fede di Kameron.
Quella ragazza lo metteva a disagio, tutto d'un tratto.
Poi Abe era caduto dalle scale. Dean non sapeva esattamente perché, ma si era ritrovato a prendere a male parole Abe, pur di farlo ragionare e accettare di sedersi su una maledetta sedia a rotelle, e a controllare più spesso se Pan stesse bene, piuttosto che il vecchio.
Si era preoccupato per lei, quando l'aveva vista pallida in volto, profondamente turbata per l'accaduto al nonno, mentre cercava di recuperare un minimo di autocontrollo. Si era preoccupato per lei quando l'aveva vista con lo sguardo perso nel vuoto in corridoio, durante l'orario di visita. Si era premurato di portarle da mangiare. Le aveva detto di tornare a casa per la notte, ma lei era rimasta in ospedale, che era proprio ciò che Dean sperava facesse. Aveva iniziato ad apprezzarla.
A casa si erano ritrovati come unici alleati contro i capricci del vecchio Abe. Lei si occupava della casa e controllava il nonno, per poi correre a chiamarlo ogni volta che dava di matto. E, Dean l'aveva notato, si stava sforzando di non stare col fiato sul collo del vecchio, di lasciargli l'indipendenza che voleva, nonostante non l'avesse esplicitamente chiesta.
Non l'avrebbe mai ammesso ad alta voce – e tantomeno a se stesso – ma gli faceva piacere che lei fosse tornata a parlargli, anche se più per necessità che per propria volontà.
In ogni caso, una cosa Kameron l'aveva detta giusta: Dean pensava troppo. Il problema era che analizzava sempre gli altri ma mai se stesso. Era troppo impegnato a curarsi degli altri, di tutto ciò che sbagliavano, troppo impegnato ad aiutarli senza che se ne accorgerssero, con discrezione, per preoccuparsi di essere gentile con loro o del perché si comportasse in un determinato modo. Non gli importava; sempre in primo piano nella sua mente c'era la lista delle cose da fare, dei doveri che si era assunto senza nemmeno chiedersi il perché – gli bastava sapere che erano cose che avrebbe dovuto fare. Era così impegnato a pensare a queste cose, che tutto ciò che notava erano i bisogni degli altri e i loro errori, che intralciavano i suoi compiti. Non dava molto peso ai sentimenti, alle emozioni, ai cambi d'umore. Doveva lavorare, per sé e per gli altri.
Ecco perché, arrivato a quel sette gennaio, Dean agì senza pensare.
Quando Pan entrò in camera per raccattare i libri, Dean riusciva a pensare solo una cosa: sarebbe tornata a scuola e non avrebbe più avuto un'alleata a casa, non tutto il giorno. Non si chiese perché la cosa lo turbasse, né perché sentisse il bisono di fare qualcosa prima che le cose cambiassero. Nella sua lista delle cose da fare si era aggiunta una voce: farsi perdonare. Circa. Non era nemmeno del tutto sicuro che quello fosse l'unico scopo, ma era sicuramente una cosa che andava fatta.
«Kameron ti aspetta in cucina» le disse quindi, mentre in camera sua lei si guardava attorno in cerca di libri.
Era sulla soglia, ma non entrò, pensando che non sarebbe stato rispettoso.
«Sì, sì, lo so» rispose in breve; gli lanciò una rapida occhiata e tornò a raccogliere i suoi libri per i compiti. Compiti. Non gli mancavano per niente; non aveva più quelli scolastici, ma se ne dava anche di più da solo, ora che non doveva più pensare alla scuola.
Dean continuava a guardarla, mentre parlava. «Lo sta riempiendo di domande idiote» aggiunse, riferendosi implicitamente all'interrogatorio da parte del vecchio Abe a Kameron, ormai di routine.
Lei annuì tra sé, mentre raccoglieva qualche volume. «Sembra che il nonno ci stia prendendo gusto, in effetti».
«A metterlo in imbarazzo, dici?» Era perfettamente d'accordo con lei. Sembrava starci prendendo gusto, in realtà il vecchio era realmente preoccupato dalla prospettiva che Kameron Towell fosse interessato a sua nipote. Il che, inutile dirlo, era assurdo, davvero assurdo.
«S-sì, a metterlo in imbarazzo» mormorò.
A Dean venne da ridere, un po' per l'espressione smarrita di Pan e un po' al pensiero che Kameron provasse qualcosa per lei – o lei per lui. Assurdo. «Dovrà pur far qualcosa, pover'uomo, no?» commentò con un pizzico di ironia.
«Già, prendere in giro il tuo migliore amico».
Abbozzò un sorriso scettico. «Il vecchio crede che tra voi ci sia... del tenero». L'aveva già definita un'ipotesi assurda?
La osservò scrollare le gracili spalle, mentre attraversava la stanza con in volto una buffa smorfia indispettita. «Sembra che una ora non possa più avere amici maschi senza il proprio nonno prepari le nozze...»
Dean scoppiò a ridere. «Non credo che sia pronto a cedere la tua mano a Kam, sai?» buttò lì, ironico. Si ritrovò a pensare che nemmeno lui sarebbe stato pronto a lasciarla andare via con Kam, se anche quello avesse assurdamente davvero chiesto la sua mano.
Pan si fermò davanti a lui, abbozzò un sorrisetto e «Poco male» sussurrò, forse sperando di non essere udita. Ma Dean udì benissimo e la trovò incredibilmente tenera. Forse era un briciolo crudele da parte sua, intraprendere una conversazione del genere nonostante sapesse benissimo che lei era cotta di lui, ma non era riuscito a farne a meno. Non si era nemmeno interrogato tanto sulla possibilità che fosse poco carino farlo, a dirla tutta, aveva semplicemente detto ciò che gli era venuto in mente. Dean non era molto diverso da Kameron, da quel punto di vista, dopotutto: parlava senza rifletterci molto.
E senza riflettere agiva.
La trovava tenera, in quel momento, rossa in volto e con l'aria incerta, probabilmente in attesa che lui si togliesse di mezzo e la lasciasse passare. Fu proprio in preda a quel moto di tenerezza che, senza nemmeno chiedersi cosa stesse facendo, si chinò su di lei per baciarla.
E allora...
Allora lei fece un balzo indietro e Dean rimase con un palmo di naso, lo sguardo fisso nel vuoto, la bocca socchiusa e la schiena leggermente piegata in avanti. Come un perfetto idiota.
«Che ti prende?» domandò scocciato. Non riusciva a spiegarsi il moto di delusione che lo aveva appena attraversato. Che diavolo le prendeva? Era cotta di lui, lo sapevano tutti! Aveva letto quel... quel suo diario, aveva scritto un sacco di sciocchezze da ragazzina isterica e innamorata che lo avevano imbarazzato da morire. E lui non avrebbe dovuto leggerlo, era vero, ma doveva capire che diavolo avesse in quella sua testolina ipersensibile e bacata. E a dirla tutta, una volta scoperto, avrebbe preferito rimanere nell'ignoranza. Poi però ci aveva fatto il callo e ora era addirittura... deluso? Era davvero deluso dal fatto che si fosse allontanata, che l'avesse respinto? Non riusciva a capirci più niente. Maledetta principessina di città!
Boccheggiò, cercò di rispondere, poi abbassò lo sguardo e scosse il capo: «Niente» riuscì a biascicare.
Dean sbuffò, contrariato e incredulo. «Qual è il tuo problema?» Davvero, qual era? Che fosse un po' fuori di testa era chiaro, ma non credeva sarebbe arrivato a respingerlo quando lui avesse cercato di baciarla. Era... assurdo! C'era qualcosa in Pan Fletcher che non fosse assurdo? Anche il suo sentirsi rifiutato era davvero assurdo. Da quando gli importava di lei in quel senso? Aveva a malapena iniziato a sopportarla, no? Giusto? Lei lo turbava, maledizione.
Strinse le labbra, confusa, e lo guardò senza dire niente.
L'aspetto più preoccupante della faccenda, forse, era che Dean continuava a trovarla maledettamente tenera. Gli... gli piaceva? Davvero? Santi numi, perché?! Perché proprio a lui quella disgrazia? Dove diavolo era finita la sua coerenza?
E allora si ritrovò a dirlo, senza riuscire ad impedirlo. «Quelle... - sbuffò, a disagio. In che guaio si stava cacciando? - Erano tutte chiacchiere?»
Capisci, dannazione, non farmelo ripetere. Sarebbe stato oltremodo imbarazzante ammettere di aver letto il suo diario e suonare addirittura deluso dall'eventualità che ciò che vi aveva letto potesse non essere vero. Maledizione a te, Dean, maledizione!
Lei si accigliò, non capiva. «Cosa?» chiese.
Ovviamente non aveva intuito. Ovviamente. Quella ragazza sembrava progettata apposta per metterlo in difficoltà. Arricciò un labbro in una smorfia esasperata e spalancò le braccia; «Si può sapere che ti è preso?» insistette. Non avrebbe ammesso un bel niente. Avrebbe dovuto capire, non poteva non capire. Se non avesse capito, non gli importava. Magari sì, okay, ma non aveva nessuna intenzione di pronunciare esplicitamente la sua preoccupazione idiota da ragazzo con gli ormoni in subbuglio. Cretino. Enorme cretino!
«Un... un giramento di testa» rispose infine. E a Dean vebbe da ridere, perché era tremendamente buffa mentre inventava quella scusa improbabile, le guance rosse e l'espressione sempre più smarrita.
Stupida principessa in difficoltà, si ritrovo ad apostrofarla mentalmente, in preda ad un altro moto di tenerezza.
Allora rise. «Ti faccio questo effetto?» domandò sornione. In fondo, mica era un principe azzurro lui.
Lei spalancò la bocca, pronta a rispondergli male, ma non riuscì a dire nulla, sempre più rossa e sconvolta. Così Dean optò per rincarare la dose: «Peccato. Pare che io sia un baciatore niente male» concluse, soffocando una risatini. E se ne andò, pensando che dopotutto gli si prospettava un'avventura divertente.
Insomma, lei aveva paura, era evidente. Dean aveva avuto bisogno qualche – lungo – istante per superare la frustrazione del rifiuto, ma poi aveva intuito: era spaventata. Probabilmente era solo colpa sua se Pan non si fidava di lui, ma non si sarebbe arreso. Le avrebbe dato tempo e avrebbe insistito. Prima o poi sarebbe crollata, era ovvio. Era questo che pensava mentre scendeva le scale e tornava in cucina.
Come fece il suo ingresso, sorridendo tra sé, Abe brontolò qualcosa e sfilò via sulla sua sedia a rotelle, prima che “il ragazzo impertinente” lo prendesse a male parole. Dean rise e si avvicinò alla credenza per prendere un sorso d'acqua.
Kameron si stava grattando la testa con aria impacciata e un po' stupida, quando: «Che hai da ridere? Il vecchio mi odia!E dice un sacco di sciocchezze...» bofonchiò.
Dean scrollò le spalle, mentre metteva il bicchiere sotto il getto del rubinetto. «La tua amica è completamente fuori di testa».
Kameron inarcò le sopracciglia e poi tornò a guardarsi attorno, imbarazzato. «Sarà una dote di famiglia – tirò ad indovinare, incerto. Poi domandò: - Che ha fatto?»
L'altro sogghignò: «Ho cercato di baciarla e si è allontanata» disse con naturalezza, un attimo prima di nascondere il volto dietro il bicchiere, non senza continuare ad osservare di sottecchi l'amico.
«Ah, cap- … Cosa? Cos'hai fatto?» guaì sconvolto il ragazzo, balzando in piedi. «Dean!»
Lui finì di bere, poi spalancò le braccia come a dimostrare la propria innocenza: «Cosa?».
Kameron rimase a fissarlo a bocca aperta per qualche istante, boccheggiando per la sorpresa, poi scoppiò a ridere a gran voce: «Avevo ragione io!» gridò entusiasta.
Dean aveva capito benissimo a cosa si stesse riferendo, ma fece finta di nulla. «Non so di cosa tu stia parlando».
«Lei ti p- - fece per strillare, poi però ricordò la presenza del vecchio Abe nella stanza accanto e abbassò il tono: - Lei ti piace!»
«No, pezzo di idiota, io naturalmente cerco di baciare tutte le ragazze che mi passano davanti!»
Kameron ridacchiò ancora, incredulo ed entusiasta. «Non ci credo». Era più di quanto potesse sperare: i suoi migliori amici si piacevano a vicenda e... sì, stava già immaginando un “per sempre felici e contenti”, doveva ammetterlo. Pazzesco!
Nemmeno io, si ritrovò ad ammettere a se stesso Dean. «Non farti strani viaggi mentali».
«Perché? Voglio dire, è fatta! Siete... lei è... tu...»
Dean rise amaramente. «Hai ascoltato quel che ho detto? Si è scansata!»
«Pazzesco!».
«Già. Chi la capisce è bravo».
Kameron scrollò le spalle a tornò a sedersi al suo posto. «Io la capisco».
Dean gli lanciò lo strofinaccio per asciugare i piatti, la prima cosa che gli capitò sotto mani, ridendo: «Tu non capisci proprio niente» lo corresse.
«Che c'è, sei geloso, Dean?»
«Non ne ho bisogno» concluse con un sorriso sornione.
Kameron gli fece una linguaccia, fin troppo entusiasmato dalla novità. «Sì, be', ma lei ti ha respinto» gli ricordò, per iò pure gusto di vedere la sua espressione contrariata.
«Oggi – precisò l'altro, scompigliandosi distrattamente i capelli biondi; - ma non lo farò per sempre».



//Se proprio devo dire qualcosa, dico che vi adoro. Vi adoro perché mi avete aspettato tutto questo tempo e non me lo merito. E adoro Kameron, ma odio profondamente questo miggin moment, che è stato un parto. E non è nemmeno uscito un figliolo particolarmente carino, ma sempre di un figlio si tratta, per cui ci si accontenta, da mamme. (Che cacchio dico? D:)
Sto per fare la muffa su questo computer, quindi scappo. Ringrazio Martowl per essersi offerta per betarmi il capitolo, anche se poi ho fatto da sola. Grazie. :)
E grazie a chi continua a scrivermi, siete adorabili.
Per quanto riguarda questa One Shot... sotto con le critiche, me le merito! ^^
  
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