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Autore: cheesecake94    18/01/2008    7 recensioni
Per la maggior parte della gente, la vita passava dagli occhi, dalla voce, ma per lei erano le mani il centro focale del suo essere, quelle mani che attraverso il pianoforte potevano allontanare ogni male.
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Kelsi Nielsen
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Solo un’ispirazione da un attimo… penso che stasera aggiornerò “Quando si dimentica di respirare”, ma oggi mi sento in vena di dolcezza e sono di buon umore, così ho deciso di abbandonare un poco il dramma. Spero che questa incontri il vostro favore, come al solito fatemi sapere che ne pensate se vi va di dedicarmi un minuto del vostro tempo. Se possibile, leggete con il sottofondo di “Moonlight Sonata” (Au Claire de le Lune) di Chopin, anche se non è propriamente una song-fic. Parla di amicizia (lo so, sono ripetitiva, ma siete in tanti a scrivere delle storie romantiche e sono coooosì romantiche che ancora non mi sento all’altezza di tentare). Buona lettura! Alice.

 

 

 

La signora Darbus attraversò il palcoscenico a grandi falcate, con il solito passo teatrale e l’aria soddisfatta e sorniona del gatto che ha appena terminato di succhiare un’aringa. I “venerdì culturali”, ossia un’ora di ogni venerdì pomeriggio dedicata ad arte, musica e spettacolo, erano una sua trovata, e ne andava incredibilmente fiera.

“Sono lieta di presentarvi Noki Haiatsu, celebre pianista che oggi si esibirà per noi in una selezione delle più toccanti composizioni di Chopin. Lasciate che le vostre anime si sollevino in volo, aprite lo spirito al soffio vitale dell’arte!” inneggiò enfaticamente.

L’interesse del pubblico era palpabile. Zeke e Chad giocavano a carte mentre Gabriella e Taylor ripassavano silenziosamente la lezione di chimica; Jason dormiva saporitamente, e Ryan e Sharpay discutevano della loro ultima produzione. Lo sguardo di Troy era ancora rivolto al palco, in attesa di decidere a quale attività si sarebbe dedicato nel corso di quell’ora; per questo fu l’unico a notare Kelsi lasciare di soppiatto il teatro mentre le prime note del brano si diffondevano nell‘aria.

La cosa lo insospettì: non era da Kelsi abbandonare qualsiasi cosa avesse a che fare con la musica. Quando, dopo alcuni minuti, non la vide fare ritorno, si alzò altrettanto silenziosamente e iniziò a cercarla per la scuola.

Troy vagò di aula in aula, di laboratorio in laboratorio, e solo quando stava per darsi per vinto riuscì a trovarla, seduta dietro la poderosa lavagna dell’aula di algebra. Il suo viso era nascosto tra le ginocchia, le mani intrecciate di fronte ad esse, saldamente serrate l’una nell’altra.

Come per chiudere fuori il resto del mondo.

Senza fare rumore, le si sedette accanto, poi delicatamente, per non spaventarla, sfiorò la sua schiena.

Lei sollevò il viso; le lacrime scorrevano ancora copiose attraverso le sue guance, e gli occhi arrossati raccontavano molto più di quanto lei stessa, probabilmente, avrebbe voluto ammettere.

Il dolore che era racchiuso in quello sguardo, come una lancia, gli spezzò il cuore.

“Ehi, Playmaker, cosa c’è che non va?” le chiese dolcemente.

“Nulla.” gli rispose, inspirando profondamente nel tentativo di impedire alle lacrime di continuare a bagnarle il viso, nel tentativo di impedire alla sua voce di tremare come lei sapeva avrebbe fatto. “Solo una giornata storta.”

Eppure, lo sforzo fu vano, e non appena ebbe terminato di parlare abbassò di nuovo il viso ed ancora si abbandonò ai singhiozzi. Tremiti inconsulti scuotevano le sue spalle esili, e Troy si ritrovò a pensare che tutta quella disperazione avrebbe distrutto animi più forti e menti più salde della sua.

Con un solo gesto le si avvicinò il più possibile e le mise un braccio attorno alle spalle, appoggiando la mano libera alle sue, ancora serrate l’una nell’altra.

Sta chiudendo fuori anche me, eppure io pensavo che noi fossimo amici.

“Coraggio, calmati, va tutto bene. Io sono qui, va tutto bene.”

Troy non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse passato quando lei, finalmente, smise di piangere, probabilmente solo troppo stanca per continuare. Sollevò il viso e lo guardò, e di nuovo il ragazzo sentì il suo cuore spezzarsi alla vista di tanta tristezza.

“Va meglio adesso?”

“Sì, certo. Va tutto bene. Mi dispiace tanto.” gli rispose asciugandosi gli occhi con la manica del vestito.

“Qual è il problema?”

“Non c’è nessun problema, davvero.”

“Se vuoi parlarmene, io sono qui.”

“Non c’è niente da dire, sul serio. L’ora culturale è finita, penso che me ne andrò a casa adesso.”

“Ti do un passaggio.”

“Non serve.”

“Finiscila. Ti do un passaggio.”

In silenzio, come rassegnata, lei annuì. Si avviarono al parcheggio, salirono in macchina e Troy mise in moto, il tutto senza dire una parola. Solo quando furono usciti dal cortile della scuola il ragazzo si rese conto di non avere la minima idea di dove dirigersi. Era così strano. Dopo il musical, dopo l’estate al Lava Springs, era certo che Kelsi fosse una loro amica, eppure non sapeva nemmeno dove abitasse.

“Dove vado?”

“Jester Road. E’ proprio qui dietro.”

Meno di dieci minuti dopo, Kelsi era in piedi di fronte alla porta di casa. Aveva ringraziato calorosamente Troy per averla accompagnata, forse con troppo trasporto, ma d’altra parte il suo comportamento le era parso così strano.

Nessuno si occupava mai di lei, a nessuno interessava la sua vita oppure il suo benessere. Lei lo sapeva bene, di essere invisibile, e che il ragazzo più popolare e desiderato della scuola si fosse preoccupato per lei le sembrava davvero inverosimile. Certo, negli ultimi mesi aveva passato parecchio tempo con Troy e con gli altri, ma loro erano questo: persone con cui passare del tempo, piacevolmente, ma nulla di più. L’unica differenza rispetto all’anno passato è che loro ora sapevano che lei era viva, mentre prima probabilmente la consideravano uno spazio sprecato sull’annuario della scuola.

Lei, in fondo, non era che la piccola stramba con abiti troppo grandi che aveva sempre le dita sul pianoforte o una matita in mano di fronte ad un pentagramma… lei non aveva amici.

Mai ne aveva avuti e mai ce ne sarebbero stati.

Improvvisamente, le tornarono alla mente le note di quella melodia, Moonlight Sonata, e di nuovo scoppiò in lacrime, seduta sulla porta di casa.

Non avrebbe mai trovato il coraggio di entrare, non dopo averla sentita suonare, non oggi, non in quel modo.

Si trovava esattamente nella stessa posizione di poco prima, di nuovo le sue mani erano strette l’una nell’altra.

Era vero, volevano chiudere fuori tutto quel mondo che l’aveva sempre rifiutata.

Per la maggior parte della gente, la vita passava dagli occhi, dalla voce, ma per lei erano le mani il centro focale del suo essere, quelle mani che attraverso il pianoforte potevano allontanare ogni male.

Tranne la morte, ovviamente.

I singhiozzi la scuotevano ancora. Nelle ultime settimane non aveva fatto altro che piangere, si sentiva così stanca, così svuotata.

C’erano solo lacrime in quella casa, ed anche fuori. C’erano solo lacrime in lei.

Nemmeno si accorse che Troy era tornato indietro. C’era qualcosa che lo aveva spaventato, in lei, e voleva tentare di parlarle ancora. Bastò uno sguardo per rendersi conto che aveva avuto ragione.

Di nuovo, la strinse a sé, come meglio poteva. Era un abbraccio vuoto, senza anima, perché lei non lo lasciava avvicinare abbastanza da darle calore davvero, lo teneva a distanza.

Chiudeva il mondo fuori.

“Mi stai facendo paura Kelsi, davvero. Io non posso lasciarti qui così, ma nemmeno aiutarti, se non mi parli. Perché non vuoi confidarti con me?”

“Mio padre.” disse lei finalmente. “Mio padre era un musicista. Io vivevo con lui, è stato lui ad insegnarmi a suonare. Quella di oggi… era la nostra musica.” Prese fiato, senza smettere di piangere. “Non riesco ad entrare in casa, non ci riesco. C’è solo… silenzio, lì dentro, c’è solo oscurità.” Il suo discoro era sconnesso, come i compiti a casa della scuola elementare dove bisogna riordinare dei brani spezzati. Come se avesse cominciato dalla fine per arrivare al principio. “Aveva il cancro. E’ morto due settimane fa, e quella casa è così… vuota, desolante. Lui mi manca da spezzare il fiato. Io non sono capace di vivere in un mondo dove lui non c’è. Non so come si fa…”

Di nuovo, scoppiò in un pianto dirotto, lasciando Troy a guardarla spaesato. Non sapeva che dire, come le fosse stato possibile non dire loro della malattia del padre, della sua morte, in tanto tempo. Suo padre era morto due settimane prima ed i suoi amici non ne sapevano niente.

Ed anche ora, li stava chiudendo fuori.

 

Solo altre due cose: è una two-shots, e non è Trelsi, parla solo di amicizia. Che ne pensate? Si accettano suggerimenti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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