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Autore: Efthalia    05/07/2013    13 recensioni
Divertitevi a leggere le cronache di una povera ragazza (io, LOL) che aspetta l'autobus.
"Beh, ma cosa mai può accadere?" vi chiederete.
Leggere per scoprire!
Genere: Comico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Salve a tutti!
Premetto che tutto quello scritto in questa fic narra fatti (purtroppo per me) realmente accaduti. L’ho scritta, oltre che per ricordare il piccolo trauma come un vecchio ricordo (anche se è accaduto il 28 giugno 2013), anche per avere delle vostre opinioni: siete mai stati così sfigati?
Leggete e lasciate un commentino, se volete:)




Sofferenze.

 
Era una giornata piuttosto calda, il sole della Sicilia probabilmente era molto incacchiato, dato che voleva spaccare anche le pietre.
Io mi trovavo a scuola per “cuttigghiare” (N.d.A. significa farsi gli affari degli altri) i risultati miei e quelli degli altri miei compagni di classe con una mia amica del mio paese e sua sorella, dato che la scuola si trova in città.
La mia amica e sua sorella, però, dovettero andarsene per far visita ad un parente in ospedale al centro della città, così rimasi con le mie amiche di classe (che sono della stessa città).
Abbiamo passato un po’ di tempo insieme a ridere, a sparlare ecc… poi arrivarono le fatidiche ore 10.30, ora in cui dovevano andarsene.
Così, io, sola come un’eremita, mi misi ad aspettare quel maledettissimo autobus che salta una corsa sì e l’altra pure.
Dovete sapere che la fermata si trova in una zona dove passano solo macchine, non vi è alcuna abitazione, quindi, oltre che a sentirmi sola, c’erano anche persone che mi chiedevano indicazioni stradali, ragazzi e pedofili che suonavano il clacson e persone che guardavano come se fossi una prostituta audace.
Miseriaccia (N.d.A.  eh sì, anche io ho una vena alla Weasley!), mi sentivo uno schifo! Mi sentivo radiografata!
Dato che non ne potevo più di tutta quella maledettissima gente, decisi di chiamare mio padre per un passaggio, ma, ironia della sorte, proprio quel giorno si erano rotti i freni dell’automobile.
Imprecai mentalmente e gli chiusi il telefono in faccia, troppo incavolata per salutarlo.
Chiamai così mia madre per far sì che dicesse a mio nonno di venirmi a prendere ma, altra ironia della sorte, mio nonno era andato a Vaccarizzo (località balneare di Catania) per affittare la sua benedettissima casa.  
Non le feci nemmeno finire la frase che chiusi anche a lei il telefono in faccia.
Allora alla mia mente non propriamente sana gli venne una bella idea: chiamare l’amica che era andata in ospedale per sapere se l’autobus c’era, era partito o aveva comunque fatto qualcosa.
-Ale, tranquilla! L’autobus parte alle undici dal capolinea e io lo prendo, ok?- disse lei rassicurante.
-Ok, però avvisami quando parte!- dissi prima di salutarla e chiudere la chiamata.
Dopo circa diciotto secondi di tranquillità, arriva una chiamata da mia madre.
-Zio ha detto che verso mezzogiorno può venirti a prendere, capito?- urlò mia madre dal telefono, convinta che se parlasse normalmente io non potrei sentirla.
-Ok, mamma. Mi ha detto Kawla che alle undici l’autobus parte dal capolinea, quindi tranquilla- dissi io leggermente alterata da tutte quelle chiamate.
Lei chiuse il telefono a mo’ di vendetta per quello che avevo fatto prima e io, leggermente accigliata e molto incacchiata, misi un po’ di musica.
Passarono le undici e Kawla non mi aveva ancora chiamata.
Diamine, erano le undici e due, perché miseriaccia non è ancora partito?
Undici e tre, undici e quattro, undici e cinque…
UNDICI E UN QUARTO.
Ero così rossa in faccia che potevo essere scambiata senza troppe cerimonie per un grasso pomodoro.
Decisi di richiamare Kawla.
-E’ partito l’autobus?- chiesi con una nota leggermente alterata.
-No, non ancora. Ma tu sei sola?- chiese lei ingenuamente.
Io? Sola? No, sono in compagnia della mia mente che è fuori come il c*lo di un babbuino, di otto formiche e tre ragni. Stai tranquilla, mi sto divertendo da paura.
-Sì, sono sola- dissi io cercando di non sbraitarle quello che avevo in mente di dirle.
-Ah-
-Ehm, se non hai soldi nel telefono mi fai l’addebito, così capisco che l'autobus è partito- dissi, prima di risalutarla e chiudere.
Volevo urlare, davvero.
Volevo che degli alieni venissero da me e mi riportassero nella mia maledettissima casa.
Quella maledetta casa in cui volevo mettere piede in quel preciso istante per poi non uscire mai più.
Volevo che Harry Potter si Materializzasse da me per poi fare una Materializzazione Congiunta e riportarmi a casa (poi ovviamente doveva portare con sé Draco Malfoy e farci una foto insieme).
Volevo che Edward Abat Jour Cullen (sì, ero proprio disperata) venisse da me, mi portasse sulla schiena (che gli si sarebbe spezzata in un nanosecondo) e mi portasse a casa.
INSOMMA, VOLEVO TORNARE A CASA!
Ero immersa in questi pensieri quando notai l’orario: le undici e trentasette.
Cercai di non ruggire come un leone nella savana e ririchiamai Kawla.
Rimasi sorpresa quando sentii la sua voce, perché se fossi stata in lei, avrei già gettato il telefono nell’Oceano Pacifico e non me ne sarei andata da lì prima di vedere che uno squalo bianco lo mangiasse.
-Ale, l’autobus è partito alle undici e mezza- mi anticipò Kawla.
-E perché non me lo hai detto?-
-Oh, l’ho dimenticato-
Cercai di non parlare, altrimenti l’avrei insultata. Gli avrei sbraitato dei grossi insulti in aramaico, hindi, cinese, giapponese, mongolo, indiano, urdu, bengalese, armeno, greco, latino, telugu  e tutte le altre cinquantanove lingue con cui è stato tradotto Harry Potter.
-Ok, allora ciao- risposi meccanicamente.
Per non urlare tutta la mia rabbia, decisi che infilzarmi le unghia nel palmo della mano sarebbe stato più opportuno, e così feci.
Cinque interminabili minuti dopo l’amichevole chiamata di Kawla, mi arriva una chiamata da mio zio.
Eh sì, praticamente tutta il mio albero dinastico, persino i morti, sapeva che io ero sola come una rincitrullita ad aspettare quel benedettissimo autobus.
-Alessia, io dovrei  uscire verso mezzogiorno e la tua fermata mi viene di passaggio, quindi posso venirti a prendere. Se tu sai che l’autobus passa, non vengo, se sai che non viene, vengo. Se hai messaggi me lo fai sapere tramite quelli- disse lui.
Cercando di fare mente locale e capire la lingua di mio zio, che in quel momento mi sembrava gujarati, risposi.
-La mia amica mi ha detto che l’autobus è partito, tranquillo. Comunque, se sempre ci sono problemi, facciamo che se passa non ti invio niente, se non passa te lo faccio sapere tramite sms- dissi io tecnicamente.
Mio zio fece un attimo di silenzio per capire quello che avevo appena detto, poi acconsentì e chiuse.
I minuti scorrevano lentamente, la gente chiedeva sempre più indicazioni stradali e io stavo diventando simile a una ragazza d’Utopia, visto l’abbronzatura.
 
Pronto a correree eeeeeee …
Grazie per avermi fatto male
Non lo dimenticheeeeròòòòò
Cantò Marco Mengoni per l’ottava volta di seguito.
 
Era l’ottava volta che ascoltavo quella canzone, sintomo che i miei neuroni stavano scomparendo uno dopo l’altro.
Trattenni l’impulso di gettare il telefono sotto le ruote di una BMW e aspettai, fin quando qualcosa non mi fece fare un tuffo al cuore (che poteva concorrere alla trasmissione “Stasera mi tuffo!”) e mi pietrificò, manco fosse passato il Basilisco.
L’autobus, il maledetto, stronzissimo,   کمینے autobus passò da sopra il ponte con una lentezza esasperante, come se volesse sottolineare la mia sfiga.
Non era passato dalla mia fermata.
Non lo aveva fatto.
Per un folle istante lo immaginai con la faccia *TrollFace*.
Decisi di informare mio zio, così gli inviai un messaggio.
In un nanosecondo, però, mi arrivò un altro messaggio.
 
Vodafone: il tuo credito è insufficiente…
 
No, non era possibile.
Avevo sicuramente il malocchio.
Quella giornata… uno schifo.
Allora chiamai mia madre con l’addebito, le feci sapere con tutta l’esasperazione nella voce che l’autobus era passato sopra il ponte e che mio zio DOVEVA venirmi a prendere.

Tempo di quarantadue secondi e l’autobus si piazza davanti il mio campo visivo.
Lo fermo come se fosse Jake Gyllenhaal che si allena a correre per il suo nuovo film e, finalmente, posso bearmi della puzza di sudore di ottomilasettecentoventidue persone incastrate a forza lì dentro.
Quattordici secondi e mi arriva una chiamata: mio padre.
La prendo subito e senza sapere cosa diamine vuole, gli dico che deve informare mio zio che ho preso l’autobus, poi gli chiudo il telefono in faccia.
Lì c’è Kawla tranquilla e serena, senza sapere che io ho appena affrontato le pene dell’inferno.
-Ma… perché non sei nell’altro autobus?- chiedo, i denti digrignati per non urlare.
-Quale autobus?- chiese lei inarcando il sopracciglio.
Mi esce un suono di gola e il mio telefono vibra per l’ennesima volta: mia madre.
-Alessia- e inizia a urlare quello che deve dirmi. Non mi prendo cura di quello che dice e cerco di interromperla.
Tutto l’autobus mi fissa.
Inizio ad assomigliare nuovamente ad un grasso pomodoro.
-Mamma, no! Digli a zio che non viene! Ho appena preso l’autobus!- cercai di alzare un po’ la voce ma nel frattempo mantenerla bassa (?).
Quando capisce quello che gli ho appena detto inizia a sbraitare come non mai.
-No! No! No! No! Ma… Alessia!- manco se le avessi appena detto che domani devo sposarmi con il tizio cinquantottenne che vende pesci marci in piazza!
Le chiudo il telefono in faccia per l’ennesima volta.
Kawla mi guarda impassibile.
Decido di star zitta, di non dire nulla per il bene della mia gola, di Kawla e di tutte le altre ottomilasettecentoventi persone che ci circondano, e il male del mio cervello, che urla vendetta.
Il viaggio si presenta straordinariamente veloce.
Adesso devo solo affrontare mio padre, mia madre, mio zio, il mio cane, il mio delfino peluche con cui dormo ogni notte, il mio vicino di casa e i suoi gatti.
Ma chissenefrega!
Per la prima volta vidi la mia casa sotto una nuova luce, la luce che mi disse di non uscire mai più di casa senza avere almeno ventisette persone a un millimetro di distanza da me.
  
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