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Autore: _Tarya_    07/07/2013    1 recensioni
Per l'Independence Day, dal punto di vista di Arthur, anche se un po' in ritardo. Ispirato alla canzone "Let her go" di Passenger.
Si sente stupido, parecchio stupido, perché Alfred non se lo merita neanche. Non merita le lacrime che versava i primi anni, quando il dolore era ancora fresco e tutto gli ricordava lui. Non merita le urla di rabbia, i mobili rotti, le bottiglie lanciate contro il muro. Non merita i mal di testa che ha ogni cinque luglio, quando si sveglia a pomeriggio inoltrato, cercando di ricordare quanto alcohol il suo corpo è riuscito a sopportare questa volta. Non merita il vuoto che gli ha lasciato dentro.
Non merita che stia male, eppure Arthur in quel momento vorrebbe solo cessare di esistere.
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: America/Alfred F. Jones, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Staring at the bottom of your glass
Hoping one day you’ll make a dream last
But dreams come slow and they go so fast

You see her when you close your eyes
Maybe one day you’ll understand why
Everything you touch surely dies



 

Arthur sospira, mandando giù l'ultimo sorso di whisky rimasto nel bicchiere. Chiude gli occhi, assaporando il bruciore nella gola, che lo fa sentire un po' più vivo, perché è ciò di cui ha bisogno in quel momento. Ha bisogno di sentire che esiste ancora, che è lì, nonostante tutto. Stringe i palmi, conficcando le unghie nella carne e si morde il labbro inferiore, così forte da farlo quasi sanguinare. Magari il dolore fisico allevierà un po' l'altro dolore, cerca di convincersi. Ma sa che non succederà. Forse lo distrarrà un po', forse lo farà concentrare sul sapore del sangue che gli invada la bocca, ma non gli farà dimenticare di lui. Non gli farà dimenticare il fatto che è colpa sua se se n'è andato, se l'ha abbandonato.

Perché Arthur sapeva benissimo che stava sbagliando. Sapeva che non lo doveva più trattare da bambino. Sapeva che se fosse andato avanti così un giorno lo avrebbe lasciato.

Sospira di nuovo, e si versa un altro bicchiere di whisky. L'ennesimo bicchiere di whisky. Ormai ha perso il conto di quanti bicchieri ha bevuto. Ma la bottiglia non è ancora finita, non possono essere molti. Chhiude gli occhi, mentre l'alcohol gli brucia la gola. Li riapre di scatto, non riuscendo a sopportare i ricordi che gli ritornano in mente. Non riuscendo a sopportare il sorriso e gli occhi blu cielo che vede appena serra gli occhi.

Perché, si chiede, perché ci sta ancora male? Sono passati più di due secoli, eppure lui è ancora lì, ogni quattro luglio, a bere e a cercare di dimenticare.

Si sente stupido, parecchio stupido, perché Alfred non se lo merita neanche. Non merita le lacrime che versava i primi anni, quando il dolore era ancora fresco e tutto gli ricordava lui. Non merita le urla di rabbia, i mobili rotti, le bottiglie lanciate contro il muro. Non merita i mal di testa che ha ogni cinque luglio, quando si sveglia a pomeriggio inoltrato, cercando di ricordare quanto alcohol il suo corpo è riuscito a sopportare questa volta. Non merita il vuoto che gli ha lasciato dentro.

Non merita che stia male, eppure Arthur in quel momento vorrebbe solo cessare di esistere.

Fissa l'orologio nel muro, cercando di riconoscere i numeri. È quasi mezzanotte. Be', almeno anche quel giorno è quasi finito. Anche un altro anno è passato, senza che Arthur riuscisse a dimenticare.

E gli ha anche dovuto fare gli auguri. Gli ha dovuto sorridere e stringergli la mano, come se fosse felice per lui. Come se Alfred non capisse, poi. Sì, è stupido, ma non a quel punto.

Beve un altro sorso, e si domanda perché rovina sempre tutto. Perché tutti lo abbandonano. E a questo pensiero sente gli occhi riempirsi di lacrime. Non ha pianto tutto il giorno, ce l'ha fatta, almeno questo anno. E ora, mentre l'orologio suona mezzanotte sente le lacrime che premono agli angoli degli occhi. Fissa il bicchiere, non azzardandosi a chiudere gli occhi, sicuro che se lo facesse, non riuscirebbe a fermare il pianto.

Non resiste.

La prima goccia cade proprio nel bicchiere, in mezzo al liquido ambrato, creando cerchi sulla superficie. E la prima lacrima non è per Alfred, né per gli altri che lo hanno lasciato. No, per loro piangerà dopo, e lo sa.

La prima lacrima è per sé stesso. Per lui, che non riesce a far avverare nessun sogno, per lui, che non sa come trattare gli altri, per lui, che non capisce il valore delle cose prima di perderle.

La seconda lacrima cade sul tavolo in legno, su una macchia lasciata da una tazza di té. Ed è per Alfred. Per Alfred, che non ha mai capito quanto Arthur lo amasse, per Alfred, che non ha idea di quanto Arthur stia male per colpa sua, per Alfred che non sa che Arthur gl vuole ancora, e comunque, bene.

Poi arriva il pianto vero. E a questo punto Arthur non sa esattamente per cosa sta piangendo. Sente le lacrime solcargli le guancia, e non riesce neanche ad alzare la mano per asciugarle. Abandona semplicemente la testa sul tavolo, e chiude gli occhi.

Sa che quando si risveglierà sarà passato tutto, in fondo ha resistito così tanti anni... E si addormenta, questa volta non scacciando il pensiero di Alfred dalla mente.

  
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