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Autore: momo_no_hana    07/07/2013    3 recensioni
"Come può non notarlo? Come può non accorgersi dei sentimenti che provo per lei? Eppure dovrebbe essere la persona che mi conosce meglio in assoluto, colei che riesce a capire cosa mi passa per la testa con un solo sguardo..."
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Riza Hawkeye, Roy Mustang | Coppie: Roy/Riza
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Avevo postato ieri sera questa one-shot ma (gomene, me ne sono accorta solo stamattina) ho avuto qualche piccolo problemino con i dialoghi ^^" ...adesso dovrebbe essere tutto ok...quindi....buona lettura! Ciao a tutti! Questa è la prima fan fiction che pubblico, su una coppia che mi sta particolarmente a cuore... Spero vi piaccia e che possiate lasciare tanti commenti (ovviamente anche negativi... sono sempre utili a migliorare!). I personaggi non sono di mia proprietà, ma appartengono a quel genio di Arakawa-sensei e la storia non è a scopo di lucro... detto questo: buona lettura!

FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All Rights Reserved.





Era una fredda mattina autunnale e, come al solito in questo periodo, la nebbia e la pioggia rendevano il paesaggio ancora più uggioso e cupo.
L’irregolare ticchettio delle gocce sul vetro attirò l’attenzione di Roy Mustang, il quale, appena svegliatosi, sospirò pesantemente. “Ancora pioggia. Anche oggi.”
Puntellandosi sui gomiti si mise a sedere sul letto e facendo leva sulle braccia si alzò vacillando, prima di raggiungere lentamente la finestra.
Appoggiò una mano sul vetro freddo –rabbrividendo un istante a quel contatto-, per poi far scattare la serratura e allungare una mano sotto l’acqua. La pioggia cadeva incessantemente , colpendo implacabile le mani e il viso del colonnello, mentre una lacrima solitaria scivolava lentamente lungo la sua guancia, andando a mischiarsi confusamente con la pioggia.
“Inutile”.
Questo limpido e devastante pensiero lo accompagnava ormai ogni giorno, da mesi, e la sensazione di impotenza si faceva via via più stretta e dolorosa a mano a mano che il tempo passava.
Alzò gli occhi al cielo, come a cercare una spiegazione, una risposta, nonostante sapesse non sarebbero mai arrivate.
Si passò una mano sul viso, mentre cercava di scrutare un cielo che probabilmente non avrebbe più rivisto.
Nero, oscurità, tenebra.
La sua vita non era –e non sarebbe più stata- la stessa da quando aveva perso la vista.
 
 
Tutto il suo impegno, tutti gli sforzi fatti, i sacrifici e le rinunce per migliorare questo Paese e cancellare la corruzione dall’esercito erano svaniti quel giorno nei sotterranei di Central City, dove gli era stata sottratta la vista, ma, soprattutto, dove tutti i suoi sogni e aspirazioni si erano infranti.
 
Perso nei suoi cupi pensieri, Mustang si voltò di soprassalto nel sentire lo scatto della serratura di casa. “Dannazione!” imprecò tra sé e sé, rendendosi conto di quanto fosse vulnerabile e succube di tutto ciò che lo circondava.
«Colonnello! Sono io!; nel sentire la voce familiare del tenente Hawkeye tutto il suo corpo si rilassò all’improvviso, e Roy si lasciò scivolare lungo la parete, rimanendo accovacciato nel buio della camera da letto.
«Colonnello, è sveglio? Posso entrare?»
«S-sì, venga pure avanti tenente, s-sono in camera»
A Riza non sfuggirono le note tremanti nelle parole del suo superiore e, preoccupata, si diresse rapidamente nell’altra stanza, chiudendosi delicatamente la porta alle spalle.
 
Non appena raggiunse la camera trovò il colonnello adagiato lungo il muro, la testa tra le mani e il viso nascosto dalla folta frangia nera.
«Colonnello, non si sente bene?»
«N-no, va tutto bene tenente. Stavo solo ascoltando la pioggia e… riflettendo» rispose prontamente Mustang: mai e poi mai si sarebbe mostrato debole e sconsolato, soprattutto davanti a Riza Hawkeye.
Si alzò e a tentoni raggiunse il centro della stanza, mentre il suo sottoposto gli andava incontro, afferrandolo saldamente per un braccio. Solo da lei, e da nessun’altro, Roy avrebbe accettato di essere sostenuto e aiutato, anche se la cosa lo faceva star male.
«Dobbiamo sbrigarci se non vogliamo arrivare tardi in ufficio» esordì lei, tentando di allontanare almeno per un attimo quel senso di pesantezza venutosi a creare.
“Già, il lavoro…” pensò Mustang.
Nonostante la sua condizione, il colonnello aveva deciso di non abbandonare l’esercito e , soprattutto, la sua fedele squadra, restando a Central City sotto il diretto controllo del Comandante Supremo Grumman. Ovviamente quel lavoro fatto di diplomazia e lunghe giornate alla scrivania non faceva per lui –gli mancava l’azione diretta dei combattimenti e l’affiatamento con i suoi uomini sul campo di battaglia-, ma, ormai, tutto questo era solo un lontano ricordo.
Nonostante tutto sapeva che non si sarebbe mai ritirato –il suo orgoglio non gliel’avrebbe mai permesso-, avrebbe continuato a fare del suo meglio, a cercare (per quanto possibile) di offrire protezione a chi si trovava sotto di lui. In fondo, pur con i suoi impedimenti, l’eroe di Ishbar non aveva mai smesso di credere nel suo ingenuo sogno.
 
 
 
Quel rituale si ripeteva ormai ogni mattina da mesi: Riza si presentava a casa sua, lo aiutava silenziosamente e rispettosamente a prepararsi, per poi accompagnarlo in ufficio e restare al suo fianco, esattamente come aveva promesso anni prima: fino all’inferno.
“Già” pensò, mentre aiutava il colonnello a prendere l’uniforme e la camicia “fino all’inferno… mi spiace non aver potuto essere al tuo fianco anche laggiù”.
Il fatto era che il tenente provava un enorme senso di colpa che non la abbandonava mai (seppur provasse a cacciarlo con tutte le sue forze). Si sentiva in colpa per non averlo protetto fino all’ultimo e, anche se sapeva perfettamente che ciò che era accaduto andava ben oltre le sue possibilità, non riusciva a togliersi quel peso dal cuore.
E sopra ogni cosa –più di non essere stata un buon soldato, un’impeccabile spalla-, più di non essere riuscita a proteggere il suo superiore, quello che la faceva soffrire di più era non essere riuscita a salvare dall’agonia l’uomo che amava.
Sì, perché Riza amava il colonnello (ormai se n’era resa conto da un po’), ma per nessun motivo gli avrebbe rivelato i suoi sentimenti. Non voleva peggiorare la situazione, non voleva turbarlo o rovinare il rapporto che, negli anni, si era consolidato tra loro.
Un rapporto fatto di rispetto, fiducia, equilibrio. Già, equilibrio. Riza era terrorizzata al solo pensiero di guastarlo, perché perdere il colonnello avrebbe significato perdere una delle sue ragioni di vita, una parte di sé stessa.
 
Persa nei suoi pensieri, Riza non si accorse che, nel frattempo, Mustang si era infilato la camicia e, silenziosamente, cercava di infilare i bottoni nelle asole, affidandosi unicamente al tatto e alla memoria. Ma l’impresa sembrava più complicata del previsto.
«Aspetti, le do una mano!», iniziò rapidamente ad abbottonare la camicia del suo superiore cercando (come sempre) di soffermarsi il meno possibile sulla sua figura tonica e muscolosa, non potendo però evitare di arrossire mentre sfiorava inavvertitamente i suoi pettorali.
“Grazie al cielo non può vedermi arrossire” si disse tra sé e sé “ma cosa mi prende oggi? Perché sono più agitata del solito?”. Cercando di cacciare quei pensieri raccolse i pantaloni del colonnello, accompagnandolo fino alla porta del bagno.
Per fortuna in queste situazioni riusciva a cavarsela da solo, altrimenti questa mattina Riza avrebbe avuto il suo bel da fare per restare calma e impassibile come sempre.
«Tenente», la voce di Mustang la fece riscuotere: <>
«Pensavo, ecco… le andrebbe di fermarsi qui a cena stasera?», la richiesta colse impreparata la donna che, tuttavia, cercò di mantenere un tono neutro (nonostante avesse la mente affollata da mille pensieri). «Come desidera».
 
 
 
 
“Come può non notarlo? Come può non accorgersi dei sentimenti che provo per lei? Eppure dovrebbe essere la persona che mi conosce meglio in assoluto, colei che riesce a capire cosa penso anche solo da uno sguar… già, uno sguardo”. Mustang, seduto alla sua scrivania, non faceva altro che continuare a ripensarci da tutto il giorno (nonostante avesse pile di documenti in braille da firmare). “Forse, semplicemente, l’ha capito da un pezzo ma, non contraccambiando, finge di ignorare quello che provo per lei. Già, che stupido sono! Perché rovinare tutto arrivati fin qui? E per cosa poi? Per rovinarle definitivamente la vita costringendola a seguire per sempre un invalido come me?” e, mentre si logorava con queste elucubrazioni, lo colse un pensiero improvviso, doloroso quanto indispensabile. “La congederò. A costo di apparire duro e irriconoscente  chiederò il suo trasferimento. Merita molto di più che continuare a farmi da balia ogni giorno”.
In più Mustang sperava che così facendo i suoi sentimenti si sarebbero pian piano spenti, liberando il suo cuore da quella dolce morsa in cui era imprigionato.
“Solo… se solo potessi rivedere il suo viso un’ultima volta…”
 
 
Erano ormai le otto di sera e gli uffici di Central City si erano svuotati da un po’, mentre Mustang e Riza raggiungevano l’auto, parcheggiata a pochi isolati di distanza. Entrambi erano molto silenziosi, ciascuno avvolto nei propri pensieri. Mustang aveva appurato che avrebbe comunicato quella sera stessa la sua decisione al tenente, prima di pentirsene.
Arrivati sotto casa del colonnello, Riza lo aiutò a scendere e, lentamente, salirono le scale della palazzina, fino ad arrivare al terzo piano.
Non appena entrati finalmente Mustang prese la parola «Sa tenente, era da un bel po’ che pensavo di mostrarle le mie doti culinarie, ma…» con un gesto della mano accennò ai suoi occhi «ora come ora penso che se provassi a cucinare qualcosa forse ceneremmo tra una settimana, quindi… mi dica cosa le andrebbe di mangiare che ordino qualcosa»
A quelle parole Riza sentì una fitta al cuore –detestava vedere il colonnello in quello stato-, ma si sforzò di stare al gioco e alleggerire l’atmosfera. «Beh, potrei sempre cucinare io» propose «non sarò un cuoco eccelso come lei, ma se non ha troppe pretese so cucinare una pastasciutta più che passabile».
Mustang si grattò la testa imbarazzato «Beh, siccome l’ho invitata io a cena mi sembrerebbe assurdo e sconveniente farla cucinare. Non vorrei si disturbasse tanto tenente e…»
«Nessun disturbo» tagliò corto lei «non si preoccupi>> aggiunse poi più dolcemente. «Su, vada a cambiarsi, nel frattempo io penso al resto» concluse, senza lasciare al moro alcuna possibilità di ribattere.
 
“Dannazione! Sono solo un peso, un enorme peso per tutti, specialmente per lei!” pensò stizzito, mentre di dirigeva in camera per togliere la pesante uniforme.
Poco dopo si ripresentò con la camicia leggermente sbottonata e un paio di pantaloni leggeri, proprio mentre Riza stava servendo la pasta.
«Ha un profumo invitante», Mustang si accomodò sulla sedia, mentre inspirava l’aroma del cibo <> provò a indovinare.
«Sì signore, spero sia di suo gradimento» rispose, prima di versargli un bicchiere d’acqua.
Doveva restare lucida e distaccata. DOVEVA. Perché sapeva benissimo che, se solo si fosse permessa il lusso di abbassare leggermente la guardia, questa sera non ce l’avrebbe più fatta, avrebbe ceduto. E non poteva, non doveva permetterselo.
Mustang sospirò «Tenente, almeno quando siamo soli potrebbe essere un po’ meno formale? Sembra quasi che tutto questo sia un peso per lei», accennò con la mano alla tavola davanti a sé.
“Dannazione!” si disse Riza “non pensarlo. Non pensare nemmeno per un istante che tutto questo mi pesi, anzi! Ma non posso, non posso…”
«Mi dispiace, non volevo che fraintendesse. Mi fa piacere l’invito.» rispose, cercando di controllare il tono della propria voce che, forse, risultò fin troppo fredda, visto che il colonnello riprese a mangiare silenziosamente, senza più proferire parola fino alla fine della cena.
 
«Tenente», spezzò il silenzio solo dopo un po’, facendo sussultare la donna che nel frattempo stava lavando i piatti.
«Sì?»
«Ecco,  ho pensato a lungo sugli sviluppi futuri dell’esercito, del mio e, soprattutto, suo lavoro e… domani mattina chiederò direttamente al Comandante Supremo di trasferirla in un'altra zona» disse tutto d’un fiato.
«Cosaa?!» gridò lei, lasciandosi scivolare dalle mani un piatto, che si infranse fragorosamente al suolo.
Il rumore fece sobbalzare Mustang «Tutto bene? Cosa è successo?» chiese allarmato.
«No, no che non va bene!» proseguì lei infuriata -sì, per la prima volta stava veramente perdendo il suo proverbiale controllo-. Tremava visibilmente e, girandosi di scatto, urlò: «Crede che io le sia stata vicino tutti questi anni, tutto questo tempo solo per essere liquidata in questo modo?!»
«La prego si calmi tenente, non è come crede! Io… »
«No! Non ho intenzione di andarmene, non ci sto, non così… perché?» chiese infine, mentre la rabbia lasciava il posto ad un enorme senso di vuoto e fallimento. Sì, fallimento: perché se dopo tutti questi anni il colonnello aveva deciso di allontanarla doveva sicuramente aver sbagliato qualcosa.
«Tenente… lo faccio per lei. La prego di comprendermi…non voglio che lei passi il resto della sua vita a sopportarmi, costretta a seguirmi in ogni cosa. Non voglio stroncare le sue possibilità e il suo futuro, perché la mia coscienza non mi darebbe mai più pace».
Pronunciare quelle parole fu estremamente doloroso, perché avrebbero significato perderla, in tutti i modi possibili in cui si può perdere una persona.
«Cosa crede?» sibilò Riza, avvicinandosi a grandi falcate al suo superiore. «Crede di essere un peso per me? Crede che io stia facendo tutto questo solo per eseguire un ordine?». Lo afferrò per il colletto della camicia, facendolo sussultare (non si aspettava di certo un gesto del genere).
«Tenente…»
«Crede che potrei buttare via tutti questi anni senza alcun rimpianto? Che potrei dimenticare tutto quello che abbiamo affrontato come se non fosse successo nulla? Crede che rinnegherei la promessa che le feci anni fa?». Riza stava perdendo del tutto il controllo –e se ne rendeva conto fin troppo bene-, ma ormai non poteva più farci nulla: le parole uscivano da sole come un fiume in piena, riversando quello che aveva tenuto nascosto per fin troppo tempo.
«Ah, la promessa… beh… » cercò di interromperla Mustang, ma senza successo.
«Ma soprattutto crede davvero che abbandonerei l’uomo che amo solo perché si sente un peso?», ormai le lacrime le rigavano le guance, cadendo sulle mani del colonnello, adagiate sulle cosce.
 
Quelle parole, insieme al contatto con quelle piccole gocce, fecero trasalire Mustang «Tenente, ma… cosa significa?»
«Significa che sono una povera illusa innamorata da anni di lei, troppo stupida e avventata per tenere la bocca chiusa!» rispose, mollando la stretta sulla camicia e allontanandosi. «Mi scusi. La prego, dimentichi tutto quello che ha sentito questa sera. Domani mi presenterò dal Comandante Supremo per il mio trasferimento» sentenziò, riacquistando la solita compostezza, prima di prendere il cappotto e dirigersi verso l’uscita.
Mustang (ancora sconvolto dalle parole della donna) rimase imbambolato per qualche secondo, ma, sentendo la porta di casa aprirsi, scattò in piedi correndo verso l’uscita. «Dannazione, aspetti tenente!», inciampò in una sedia e per poco non rovinò a terra «Maledizione, Riza!» gridò a pieni polmoni, facendola bloccare sull’uscio.
“Riza?” pensò lei confusa, mentre Mustang le si avvicinava a tentoni, come le mani protese davanti a sé.
La donna si girò, mentre la mano di Roy incontrava la sua, che sussultò a quel contatto.
«Aspetta, ti prego. Lasciami rispondere a quello che hai appena dettò» continuò lui.
«No, per favore… dimentichi ogni parola, facciamo finta che…»
«No! Non facciamo finta, non più! È da anni che fingo come un vigliacco e questa volta» deglutì «questa volta non posso più tirarmi indietro!»
«Cosa intende dire?» chiese Riza con un filo di voce « cos… !»
Le mani di Mustang avevano lentamente cominciato a salire lungo le braccia di Riza, per poi passare alle spalle e infine al viso, che ora studiava minuziosamente con la punta delle dita.
Le guance, la fronte, gli occhi, il profilo del naso, la bocca…
«Colon… ?» Riza non fece in tempo a formulare la domanda che le labbra di Roy si posarono delicatamente sulle sue, in un contatto leggero ma, allo stesso tempo, infinitamente profondo.
«Cosa… cosa significa?» chiese lei sbarrando gli occhi, lasciando trapelare tutto il suo stupore dal tono di voce.
«Significa che ti amo anche io» rispose semplicemente Mustang «ma sono talmente codardo che in tutti questi anni ho sempre cercato di fuggire dalla realtà, di nascondere quello che provavo per paura di un tuo rifiuto, per paura di rovinare tutto».
Riza trasalì, non poteva crederci, non poteva essere vero. Per tutto questo tempo si erano nascosti l’una dall’altro mentre la felicità era sempre stata sotto il loro naso, ma nessuno dei sue era mai stato così coraggioso da provare a coglierla… o almeno fino a quel momento.
 
«Riza? Ti prego, dì qualcosa! Questo silenzio mi spaventa… sai, non posso vederti e non so se, insomma… ecco… cosa ne pensi? ».
Non ci fu bisogno di altre parole: Riza annullò nuovamente la distanza tra loro rispondendo al bacio di poco prima, schiudendo le labbra affinché le loro lingue potessero ingaggiare una danza passionale e selvaggia.
«Credo che la cosa sia di tuo gradimento » sentenziò alla fine Roy, carezzandole dolcemente una guancia. «Vorrei… vorrei solo poterti veder sorridere>> aggiunse poco dopo, con la voce leggermente incrinata.
Per tutta risposta Riza condusse la mano di Roy fino alle sue labbra, dischiuse in un sorriso –un sorriso che era e sarà sempre e solo per lui-
«Grazie » sussurrò Mustang, stringendola tra le braccia «grazie… ».
 
 
Finito di sistemare la cucina (compreso il povero piatto infranto al suolo), Riza accompagnò Mustang in camera per aiutarlo a cambiarsi. Paradossalmente ora si sentiva molto più in imbarazzo di prima, mentre gli sbottonava la camicia.
«Come mai tutta questa vergogna? » domandò Roy, cogliendola di sorpresa.
«Ecco… in effetti io… ma, ma come fa a saperlo? » chiese la donna all’improvviso, arrossendo completamente.
«Beh, sento il cuore batterti talmente forte che potrebbe uscire dal petto» rispose tranquillamente lui, per poi prenderle le mani e posarle un delicato bacio a fior di labbra. «E poi, ti prego, d’ora in poi dammi del tu, perlomeno quando siamo soli>>.
«V-va bene»  rispose lei, cercando di riacquistare un po’ di autocontrollo –dopotutto era pure sempre il tenente Hawkeye, la lucidità fatta a persona-.
Ma ormai le era diventato impossibile fingere tutta quella compostezza (non dopo gli eventi di quella sera), così si fece avanti: «Mi lasci restare qui per questa notte… » sussurrò timidamente, dandosi poi mentalmente della stupida. Chissà cosa avrebbe pensato adesso di lei!
Invece Roy rise teneramente: «Se vuoi puoi restare qui per sempre».
  
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