Fanfic su artisti musicali > Ed Sheeran
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Autore: itslarryscomingout    08/07/2013    0 recensioni
La ragazza lo guardò con stupore. Si passò una mano sul volto, strofinandosi poi gli occhi. Si avvicinò cautamente, incerta. E se fosse stata solo una casualità? Chi diceva che era proprio quello?
Continuò a camminare, fino ad arrivare ad una distanza di pochi metri. Ed alzò la testa, guardandola. La ragazza era ferma, immobile, lo guardava ad occhi sbarrati.
"Non è possibile."
Disse solo, in un sussurro, scuotendo la testa. Ed la guardò inarcando un sopracciglio. E se... riguardò la rosa bianca che aveva nelle mani, sorridendo poi lievemente, aggiustandosi la visiera del cappellino senza staccare gli occhi della ragazza difronte a lui.
Lei si avvicinò, a quel punto, sentendo le gambe molli.
"Edward?" pronunciò incerta. Ed sorrise, guardandola di nuovo.
"Ed-Edward sei tu?", pronunciò lei, sentendo la gola secca e gli occhi umidi. Avrebbe voluto piangere. Lui si avvicinò lievemente, porgendole la rosa. Lei l'afferrò incerta attenta a non sfiorarlo. Si concentrò sul fiore abbassando la testa. Era puro, bello, bianco, profumato.
"Perché non mi hai detto che eri tu?", sussurrò allora lei, lasciando che una lacrima le rigasse il volto. Si sentiva presa in giro. E Ed a quella visione sentì piccolo piccolo.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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A Edward, che beve(va) una birra
che ricordava il mio nome.

 





Non si sa perché, ma certe volte si ci sveglia con la malsana voglia di fare ciò che non si ha mai fatto. Battere le barriere, i limiti, le paure e cercare di fare passi avanti per raggiungere un sogno, un obiettivo, una parola o un gesto. Nessuno sa perché, ma ti alzi e non fai che dirti ‘Provaci. Fallo. Cos’hai da perdere?’
E Hannah questo se l’era detto e ridetto più di una volta. Ci aveva pensato secondi, minuti, ore e attimi fino ad avere il mal di testa talmente forte da farle sembrare di essere in una vita non sua.
“Esco” aveva mormorato a nessuno in particolare chiudendo la porta con forza dietro le sue spalle. Non lo seppe, ma forse quello fu il suo semplice tentativo di chiudere anche i problemi, le ansie, i dubbi, le paure in quella casa fin troppo spoglia e malandata.
Si era messa il cappuccio in testa, perché faceva freddo. Quel giorno molto probabilmente avrebbe piovuto e la gente l’avrebbe spintonata di qua e di là cercando di trovare un portone, la macchina o semplicemente un passaggio da qualcuno che da bravo si era portato l’ombrello da casa. Ma era okay.
Infilò le cuffie attaccate al suo cellulare nelle orecchie e pian piano s’incamminò chissà dove. Non accese neanche la musica. Voleva solo ovattare i rumori che ormai invadevano i suoi timpani in modo fin troppo burbero e doloroso. Inutile dire che non si sentiva mai pronta a quella vita. Era come essere un peso, per tutto e tutti. Perché nessuno ormai la sopportava più. Dopo tre mesi anche Claire si era stufata di bussare alla sua porta nel tentativo di consolarla. Ma era okay comunque.
Lei non aveva bisogno della compassione delle persone, né delle attenzioni soffocanti e stupide della gente. Ormai era diventata un flusso di apatia con le gambe. Era buffo descriversi da soli così, ma a lei veniva da ridere. E rideva, da sola, con la gente che la guardava in modo strano o che bisbigliava commenti insensati alle sue orecchie. Ma anche quello era okay.
 
Alzò il viso dalle scarpe succinte e scucite sul lato e guardò le persone che camminavano nella direzione opposta alla sua. Erano tutti così indaffarati a fare la spesa, correre, parlare di lavoro, che nessuno in realtà si godeva quella vita in modo tranquillo. Nessuno rideva, nessuno parlava di cibo, nessuno si teneva per mano, nessuno viveva seriamente. Tutti troppo impegnati a fare qualcosa. Tutti troppo impegnati per accorgersi di lei.
Scansò una signora vestita di tutto punto e svoltò a destra. Una folata di vento la fece rabbrividire e pensò che quello non era veramente luglio. Che estate era mai quella?
Ad ogni modo continuò a camminare a passo deciso. 
Dove sto andando?
Parole, gesti, profumi, colori.
Tutti sfumati, senza senso, senza emozione, senza vita.
Questa città mi soffoca.
Strinse gli occhi in una fessura rallentando il passo e fermandosi a guardare i vestiti nelle vetrine. Erano bellissimi su quei manichini. Sorrise un po’, sentendo l’adrenalina scorrerle nelle vene. Si tolse le cuffie dalle orecchie e le posò nella tasca del pantalone.
Che cosa ne sto facendo della mia vita?
Ed entrò, attirata da un vestito decisamente non adatto a lei. Era corto, bianco, con uno scollo a cuore. Sì avvicinò al vestito, toccandolo esitante. Era così distante dai suoi soliti gusti.
“Posso provarlo?” disse allora ad una commessa, girandosi. La ragazza annuii, avvicinandosi a lei e chiedendole la taglia. “La più piccola che avete” mormorò, quasi vergognandosi. Perché non mangiava come prima? Il suo corpo era troppo, troppo magro. E notare che quella ragazza la guardasse quasi con invidia, le faceva ribrezzo. Prese velocemente il vestito, sussurrando un ‘grazie’ con poco fiato dirigendosi automaticamente nel camerino.
Perché m’invidi? Io mi faccio schifo così.
Non aveva la borsa, i soldi li teneva nascosti nella custodia del cellulare, così posò soltanto quello sul puff scolorito e impolverato. Difronte a lei lo specchio. Si guardò per un attimo, facendo una smorfia, così si girò, evitando l’immagine. Si tolse velocemente i vestiti arricciando il naso quando i piedi nudi toccarono il pavimento sporco. Afferrò l’abito bianco e lo guardò con astio.
“Ti odio, vestito inanimato” borbottò, infilandolo. Quasi inciampò e rise lievemente, mantenendosi alla parete. Si aggiustò la stoffa che le scendeva morbida sul corpo e chiuse gli occhi, tirando un lungo respiro.
Sarai bellissima.
Spalancò gli occhi, girandosi. Si guardò inizialmente solo i piedi, risalendo poi pian piano con gli occhi sul corpo evitando di correre. Si perlustrò più volte il corpo, guardandosi con occhio critico.
Sei bruttissima.
Si girò di lato guardando come sembrasse. Distese le labbra in un sorrisino notando che sembrava più piena, meno magra.
“Faccio schifo” rise di nuovo. Alzò gli occhi al cielo, pensando che stava diventando pazza. La gente avrebbe pagato per essere come lei, invece lei si odiava. Odiava toccare le ossa e vedere il viso pallido, privo di vita se non per quelle piccole lentiggini sul naso e sulle guance. Se lo sfilò velocemente, quasi come se il tessuto le stesse bruciando la pelle e indossò i suoi vestiti, sentendosi meglio all’istante.
 
“Lo prendo” disse al ragazzo che stava dietro la cassa e che la guardava masticando a bocca aperta una gomma. Picchiettò le unghie sul bancone, aspettando che le facesse lo scontrino. Pagò e uscì di corsa senza neanche rispondere al ‘buona giornata’ e si ritrovò sulla strada. Sentì una gocciolina colarle sullo zigomo e se la ripulì guardando il cielo, senza neanche capire se era una lacrima o solo le nuvole che improvvisamente troppo piene volevano far scatenare un temporale.
Fece spallucce e continuò a camminare su quella strada, rimettendosi il cappuccio sulla testa. Le rimanevano alcuni spiccioli, così decise di prendersi un frappè alla nocciola dal primo Starbucks che trovò sulla strada e, buttando maleducatamente lo scontrino a terra, bevve piano mentre le prime gocce di pioggia le bagnavano la felpa.
Anche il cielo piange, forse si sente solo, pensò.
Mezzora dopo era ormai fradicia e si era anche tolta il cappuccio dalla testa. Le piaceva la pioggia, era rilassante. Si morse il labbro stringendosi di più le gambe al petto. Aveva freddo, e quello in realtà non le era mai piaciuto. Però era okay.
Socchiuse gli occhi perché l’acqua che le colava dalle ciglia era diventata fastidiosa e posò lo sguardo sulla strada difronte a sé. Era deserta. Nessun’automobile, nessuna persona, nessun colore in particolare. Solo rumore e pensieri affollati in una nuvola invisibile che le colpiva le orecchie.
Si alzò, felice che la busta del vestito fosse impermeabile, e pian piano, piede dietro l’altro, ritornò a casa. Lì dove le pareti erano troppo strette, i profumi troppo lontani e i sogni troppo distrutti solo per vivere.
 
“Sono a casa” mormorò a voce alta lasciando le scarpette di tela –fin troppo bagnate- all’entrata. La mamma non le rispose nemmeno. Stava cucinando il pranzo. O almeno così diceva il profumo di carne che le fece storcere il naso.
“Tesoro, dove sei stata?” Disse la donna una volta che Hannah entrò nella cucina. Lei non rispose, semplicemente prese il telecomando e accese la tv. Che le importava di dove era andata?
Cambiò canale, mettendo quello di musica. Sorrise quando passò una canzone familiare. La donna le mise il piatto con due hamburger davanti e lei sentì lo stomaco stringersi solo a guardarlo. Cominciò a tagliare in piccoli pezzettini la carne, muovendo la testa a ritmo.
“Oh baby, give me one more chance” canticchiò a bassa voce, posando il coltello. Mangiò un pezzo di carne e poi alzò la testa con una smorfia quando la musica si arrestò di colpo. Guardò il televisore, trovandolo spento.
“Hai intenzione di non parlarmi più?” borbottò la donna richiamando la sua attenzione, lanciando la forchetta nel piatto, causando un’orribile rumore. La ragazza non rispose, continuò solo a mangiare in silenzio giocando con il cibo incastrato nella forchetta.
“E perché sei bagnata?”
“Forse perché ha piovuto?” rispose ironica la ragazza, alzando gli occhi al cielo, masticando piano. La sedia ormai troppo scivolosa per farla rimanere seduta in modo stabile e tranquillo.
La donna allora si arrese e mangiò, in silenzio. Hannah si sentì solo meglio.
E mangiò entrambi gli hamburger con gusto.
Da quanto non mangiavo così?
Strinse gli occhi, sentendosi piena. Prese il piatto e lo posò nel lavello, rintanandosi nella sua stanza.
 
Aprì lentamente gli occhi, sentendosi in un altro mondo.
Li richiuse, sperando di riaddormentarsi ma ormai il cervello era troppo sveglio per permetterle qualche altra ora di sonno. Si girò, aggiustandosi i capelli sulla fronte. Non le servì neanche abituarsi alla luce, perché era praticamente buio fuori. Si alzò, sbadigliando e guardando l’orologio digitale sul comodino.
Erano le otto passate, cavolo! Si diresse in bagno chiudendosi dietro la porta a chiave. Si tolse i vestiti ed entrò nella doccia. Aprii l’acqua fredda e respirò a fatica, ma non si mosse. Anzi, lasciò che il corpo le facesse venire degli spasmi per il freddo prima di regolare l’acqua. Si lavò lentamente i capelli e poi il corpo. Non si soffermò più sui polsi guariti e chiusi. Puliti, come nuovi e pronti ad accogliere una nuova storia, una nuova sofferenza. Si sciacquò e poi uscì, infilandosi velocemente l’accappatoio. Tamponò i capelli lunghi e mossi con un asciugamano, asciugandosi. Ritornò nella sua camera, pronta a vestirsi. Indossò la biancheria e poi tirò fuori il vestito dalla busta.
“Io non piaccio a te e tu non piaci a me, ma per stasera dobbiamo adeguarci, mh?” Disse, infilandolo. Sospirò quando lo infilò e rientrò in bagno prendendo il phon nel mobile asciugando velocemente i capelli. A guardarli ricordavano un campo di grano.
Sono pazza, pensò.

Prese la borsetta a tracolla, guardandosi i piedi.
Sbuffò afferrando il cellulare, le chiavi e dei soldi.
“Ma’, esco.”
Balbettò, uscendo e traballando su quei trampoli che aveva come scarpe. Chiamò con il gesto della mano un taxi e uscì, mentre l’aria fredda le investì le gambe nude.
“Posso farcela, no?”
E quasi non ci credette neanche quando chiese all’autista di portarla al ‘Cable’, poco distante da casa sua.
Il viaggio durò fin troppo poco, ma fu affollato da troppe domande senza una risposta effettiva.
‘Perché sono qui?’
‘Cosa volevo fare?’
‘Il trucco mi fa lacrimare gli occhi.’
‘Ho paura.’
Formulò quell’ultimo pensiero e scese dall’auto, pagando il tassista. La musica house le arrivò alle orecchie ovattata, così camminò spedita verso l’entrata, facendo lo slalom tra le persone per passare. Pagò l’ingresso, mostrò la carta d’identità che le dava la maggiore età, ed entrò, sentendo l’ansia salirle nell’avere troppa gente addosso. Spintonò le persone e si diresse verso il bancone.
Voglio bere, voglio vedere cosa prova mia mamma, pensò.
“Un cola e Malibu” gracchiò quando il barman si avvicinò a lei. Quello le sorrise posando lo sguardo sul suo petto in mostra, così lei girò il viso che si era arrossato.
“Ti odio ancora di più, ora” borbottò, ma nessuno la sentì, se non le sue stesse orecchie. Prese il bicchiere che il ragazzo le aveva portato e guardandolo un attimo, pensò di essere diventata pazza. Stava bevendo ed era lì con l’idea di volersi ubriacare. Mandò un’occhiata al ragazzo dietro al bancone e tracannò tutto senza neanche pensarci di più.
In poco l’alcool le raggiunse la gola, facendogliela bruciare. Arricciò il naso e alzò gli occhi diventati lucidi al soffittò, lì dove luci colorate le investirono le pupille, facendole girare la testa. Posò il bicchiere e si mantenne al bancone. Con un gesto richiamò il ragazzo.
“Senti… Voglio ubriacarmi” borbottò aggiustandosi la borsa sulla spalla. “Dammi qualcosa di forte.”
“Woh, vacci piano” ridacchiò quello, prendendo però una bottiglia orribilmente rosa. Versò il liquido in un bicchiere e poi, giratolo, mise una cannuccia e glielo porse.
“Beh, buona sbronza” disse lui. Lei alzò il bicchiere come cenno di ringraziamento e senza soffermarsi sull’odore o sul contenuto, tracannò.
Questo era… Era sul serio più forte. Fece una smorfia e scosse la testa, sentendo la gola bruciare in modo orribile. Guardò il bicchiere notando che era vuoto, così lo poggiò sul marmo, guardandolo.
“Cos’era? Faceva schifo!” urlò quasi, ridacchiando.
“Ehy, bambolina, ti avevo avvertito di andarci piano” disse quello facendo spallucce, servendo poi altre persone.
“Ci vediamo dopo. Prepara qualcos’altro di forte, eh!”
E sgusciò via, tra la gente.
 
Un’ora dopo era già abbastanza brilla. Sentiva la testa leggera, il cuore piccolo e indistruttibile, i piedi ormai abituati a quelle scarpe alte. Forse cinque o sei ragazzi le avevano palpato il culo e uno aveva anche cercato di baciarla, ma lei gli aveva dato una gomitata ed era andata via, ballando sola, con qualcuno, con le luci.
Partì un remix di una canzone che l’alcool le faceva sfuggire, e allora, ridendo come un’idiota cominciò a ballare. Mosse la testa in modo irregolare, per niente in ritmo, ma si sentii libera. Girò, inciampando quasi, tranne per il fatto che si ritrovò un ragazzo dietro che l’aiutò a stare su, dritta.
“Scusa” cantilenò lei, però ballando. “Ti va di ballare con me per farmi perdonare?” continuò con un sorriso, avvicinandosi a lui. Quello rise e l’accontentò.
 
Due canzoni dopo e un tacco rotto, Hannah stava baciando quel tipo.
Quando sentì la mano del ragazzo toccarle la gamba sembrò risvegliarsi da quel coma, così lo spinse.
“E levati” disse maleducata, allontanandosi traballante.
Si riavvicinò al bancone e il ragazzo che l’aveva servita prima le sorrise.
“Allora? La mia bevanda forte?”
“Sicura di essere dell’età giusta per bere?” ridacchiò quello.
“Non sarei qui altrimenti. E ad ogni modo sta’ zitto, idiota” rise lei, aggiustandosi i capelli. Aveva caldo, ma non importava. Era stanca, ma non importava.  Era ubriaca, ma non importava nemmeno quello.
“Alla salute!” rise, bevendo. Cola e Jack Daniel’s.
Quella fu l’unica bevanda che bevve piano, poi, dopo aver sentito il liquido pesarle e farle contrarre lo stomaco dal dolore e i piedi per l’intensità, decise di andare in bagno.
Spintonò la gente, dando spallate a parecchie persone. Riprese la borsa e il cappotto all’ingresso, indossandoli. Si avvicinò al bagno e lo trovò magicamente libero, tranne per qualche ragazza che si stava aggiustando il trucco o fumando una sigaretta. Storse il naso e a testa bassa entrò in una cella. Buttò la borsa a terra, ridendo come un’idiota. Poi la riprese ed estrasse il cellulare, premendo due volte il tasto verde. Incastrò il telefonino nell’incavo del collo piegando la testa, mentre con le mani si abbassava le mutande.
Tu, tu, tu.
“Andiamo, rispondi” borbottò, impaziente.
 
“Mh? Pronto?” biascicò una voce al di là dell’apparecchio. La ragazza corrugò la fronte.
“Marmotta!” però urlò.
“Hannah?”
“No, tua sorella” rise lei. Tutto le sembrava divertente. Tutto le sembrava senza senso.
“Hannah… Che…”
“Ma lo sai che sto facendo?” lo interruppe, la voce alterata. Ormai era ubriaca a tutti gli effetti.
“Cosa?”
“La pipì” urlò, allungando la ‘i’ finale. Rise di nuovo. “Dai, ridi. Non è divertente il fatto che ti stia chiamando mentre piscio?”
“Hannah, dove sei?”
“In bagno, sciocchino. Dove si fa la pipì secondo te?” disse lei, mentre il telefono le cadde atterra. “Oddio” rise ancora. Perché rideva? Neanche lei lo sapeva.
Il ragazzo si alzò, accendendo l’abat jour sul comodino. Strinse gli occhi e sbadigliò, cercando di capire cos’era stato quel rumore.
“Hannah, dove cazzo sei?”
“In discoteca” singhiozzò lei, in una risata dopo essersi aggiustata e aver preso il cellulare. Uscì dal bagno senza neanche tirare lo sciacquone e andò fuori, mentre l’aria fresca la fece sentire meglio.
“Che ci fai lì? Sei sola?”
“Chi vuoi che ci sia con me? Il Papa? La Madonna? Charlie de ‘La fabbrica di cioccolato’?”
Lui sospirò, alzandosi.
“Perché mi hai chiamato? Stavo dormendo.”
“Dormivi? Sul serio? Dai Ed, non ti facevo così pigro!”
“Sono le due di notte, H. Le persone normali, quelle che non vanno in discoteca, dormono a quest’ora.”
“Oh” disse lei. Non si sentiva neanche in colpa per averlo svegliato. Anzi, le sembrava così ovvio averlo fatto.  Cominciò a camminare, stringendo gli occhi per cercare di focalizzare la strada.
“Ora torno a casa” poi continuò, con voce tirata, camminando zoppa. La scarpa le si era rotta completamente, così si fermò.
“E le scarpe mi fanno male, una si è pure rotta. Era di mia mamma!” disse, facendo una smorfia. “E sai cosa?”
“Cosa?”
Lei si morse il labbro, trattenendo una risata.
“La cacca rosa!” però urlò, scoppiando in una fragorosa risata.
Dall’altra parte il ragazzo si batté una mano in fronte. “Quanto sei scema” disse, però ridendo con lei. Non l’aveva mai sentita ridere in quel modo. Era… Dolce. Aveva la voce cristallina, un po’ roca per la sbronza. Se la immaginò, cercando di focalizzare davanti agli occhi la ragazza.
Chiuse gli occhi, immaginandola. Vide davanti a sé una ragazzina. Sembrava una bambina, ma lui ci vedeva in lei Hannah. Gli occhioni verdi un po’ lucidi, le gote rosse, le lentiggini un po’ più evidenti del normale, le labbra rosse, gonfie e piene. Una camminata un po’ ondulata, sbiascicata, nella quale i capelli le sarebbero svolazzati ovunque come le sue ciglia lunghe.
“Ora butto le scarpe. Anzi, le porto così a mia mamma. Voglio che mi sgridi e che mi dica quanto faccia schifo come figlia” rise, senza emozione. Si sentì anche attraverso il cellulare che rendeva le voci meccaniche.
“Tu… Non fai schifo come figlia.”
Lei non rispose, solo prese le scarpe da terra e camminò sentendo l’asfalto fresco e ruvido sotto i piedi. Qualche sassolino le graffiò la pianta e i talloni, ma lei ignorò tutto. Rimase in silenzio, sospirando.
“Che stai facendo?” disse poi ad un certo punto, scorgendo poco più lontano casa sua. Anche all’andata sarebbe potuta andare a piedi, ma le scarpe glielo avevano impedito. Erano troppo alte.
“Sto aspettando che tu parli. E tu?”
“Sto camminando in mezzo alla strada.”
Silenzio tombale, panico, occhi sbarrati, orecchie ben aperte.
“Hannah. Cosa cazzo fai?”
“Voglio ballare, perché?”
“Non stare in mezzo alla strada”
Lei lo ignorò e con le scarpe ancora strette tra le mani cominciò a volteggiare, chiudendo gli occhi. Le strade deserte, tranne per qualche automobile che andava via.
“Tu di che colore hai la pelle?” disse, piegando la testa e incrociando i piedi.
“Io rosa, tu?”
“Oh, davvero?” disse sorpresa, fermando quella stupida danza per camminare normale. “Anche io. Però la vorrei verde.” Sorrise.
“Perché verde?” l’accontentò lui, stendendosi spegnendo la luce. Era ubriaca e sapeva che doveva assecondarla. Anche se aveva paura e sentiva il sangue scorrergli troppo veloce nelle vene.
“Perché è bello. Mi ricorda i prati, i fiori e la libertà. E’ il colore della speranza e quello che io vorrei avere nei capelli, sempre. Tu non vorresti cambiare il colore della tua pelle?”
“No. Perché dovrei?”
“E comunque ti svelo un segreto:  Le zanzare… Hanno le zampe!” urlò, ridendo di nuovo. Lui rise con lei, trovando la sua risata fin troppo contagiosa.
Tra una risata e l’altra lei si ritrovò fuori la porta, così “Oh, sono a casa!” disse, quasi sorpresa. Prese le chiavi e con un po’ di fatica le inserì nella toppa.
“La porta si muove!” disse in un broncio.
“O tu sei troppo ubriaca.” Lei rise. Ancora.
Alla fine l’aprì e il legno cigolò sui cardini. Buttò le scarpe –quello che ne rimaneva- a terra e si diresse nella sua camera.
“Hannah, dove sei stata?” disse una voce assonnata e stanca, velata di preoccupazione. La ragazza si girò e la guardò, sorrise senza coinvolgere gli occhi e “Vaffanculo Ma’!” disse, chiudendosi nella sua camera con un tonfo.
Il ragazzo dall’altro lato ascoltò in silenzio, sentendosi di troppo. Che succedeva?
“Vuoi sapere un altro piccolo segreto?”
“E’ bello?”
Lei restò zitta, immobilizzandosi.
“Non lo so. Ma cosa importa? Fa ridere, però.”
“Allora racconta.”
“Stasera ho ballato con non so quanta gente, e c’era uno che mi ha toccato il culo. E allora sai io che gli ho detto?”
Lui sentì un moto di rabbia e gelosia sprofondargli nel petto, così strinse forte la maglia del pigiama.
“Cosa?”
“Niente! Non gli ho detto niente!” rise.
Lui no, ma lei neanche ci fece caso.
“E sai la cosa buffa di tutto questo?” sbiascicò, ridendo ancora, buttandosi sul letto.
“Quale?”
“Che ho un vestito che mi fa schifo. L’ho comprato stamattina nonostante questo! ” Rise, forte e sguaiatamente.
“E sai che altro?” La risata si affievolì lasciando spazio a dei singhiozzi. “Mi faccio schifo io.”
E pianse, mentre lui l’ascoltava impotente, sgualcendosi la maglia con le mani e torturandosi a sangue il labbro.
“E faccio schifo a mia mamma. Al ragazzo che stasera ho baciato, al cibo, al mondo, alla vita e a tutti. Ma che importa? A nessuno.”
Pianse, lasciando che il trucco le rovinasse le guance e gliele sporcasse di nero. Lasciò che le paure, le incertezze e le consapevolezze la schiacciassero.
Lui perse un battito. Una terribile gelosia gli invase il petto insieme alla rabbia.
“A me. A me importa!”
Disse velocemente, alzandosi a sedere tirandosi poi le ciocche dei capelli con le dita.
“Sul serio?”
“Sì, e a me non fai schifo.”
Un sussurro, un brivido, una voce, una certezza, un pianto troncato e stanco.
“Secondo me eri bellissima con quel vestito. Anche se non ti ho visto.”
“Mi canti qualcosa?”
Lui rimase in silenzio, immaginandola sola, sul letto, a piangere e con lui come unica salvezza.
E poi cantò, fermandosi solo quando sentì i sospiri di lei indicargli che dormiva.
“Secondo me sì, eri proprio bella stasera.”
E staccò.
 
 





  
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