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Autore: AnnalisaC    09/07/2013    0 recensioni
Io adoro i racconti di questo genere, che potremmo definire tra l'introspettivo e quello di guerra. Ho letto tutto fino all'ultimo rigo. Un racconto che fa riflettere, davvero riflettere. Nessuno merita la morte, neanche il peggiore criminale, ma argomenti come questo lasciano sempre l'amaro in bocca e mille domande in testa. Bello davvero, soprattutto il finale, che a me personalmente ha fatto venire i brividi. Mi piace, sisi. Sara
Genere: Drammatico, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ero seduto a terra, nascosto dietro ad una cadente 
costruzione in pietra. Era pomeriggio inoltrato e il sole al 
tramonto colorava di un vivido rosso le case e gli alberi del 
piccolo paese montano. 
I soldati erano a pochi passi da me: un colonnello e circa 
otto militari. Vedevo la loro ferocia, sentivo le loro grida ed 
ero disperato perché non potevo fare nulla per salvare quei 
poveri civili. 
Respiravo piano per non farmi sentire, anche se le loro urla 
echeggiavano coprendo ogni altro rumore. I bambini 
piangevano e gli anziani imploravano pietà per i propri 
figli. Non c'era verso di convincerli, di anche solo 
impietosirli. 
Un generale tedesco, di quelli alti e robusti, fece entrare 
tutti in un granaio, compreso i piccoli, ed ordinò ai suoi 
uomini di appiccare il fuoco.
Immaginavo quei poveri bimbi arsi dalle fiamme e sentivo 
il cuore spappolarsi in mille pezzi. Lo avrei fatto anche 
questa volta e come le due precedenti sapevo già chi 
colpire.
Terminato lo strazio, lui, la mia prossima vittima, se ne 
andava a casa sua, poco lontano da Marzabotto, ed era un 
italiano come me. Non me ne importava, i tedeschi li 
lasciavo ancora perdere, ma loro, i miei fratelli italiani, quei 
ragazzi con cui avevo combattuto tante battaglie, non 
potevo e non volevo lasciarli impuniti. Dovevano perire in 
mezzo alle fiamme proprio come erano morte tutte quelle 
persone.
Di sera attesi che la mia preda andasse nella stalla, come 
©Siam pronti alla morte, l'Italia chiamò – Annalisa Caravante  4   
faceva sempre per dar da mangiare ai cavalli, e proprio 
mentre sistemava il fieno, gli puntai il fucile alle spalle.
- Chi sei, cosa vuoi? - mi domandò spaventato.
- Alza le braccia e voltati piano! - gli ordinai
Lui fece come gli avevo chiesto ed osservandomi bene, 
esclamò:
- Tu... tu sei Dario. Stavamo nello stesso plotone, ti 
ricordi?
- Certo che mi ricordo, per questo sono qui.
- Non vorrai derubare un tuo compagno d'armi?
- Io non voglio derubare un mio compagno d'armi, ma 
tu hai aiutato i tedeschi ad uccidere quella povera gente e i 
bambini di Sant'Anna, Marzabotto e degli altri paesi. Loro 
si vendicano per il tradimento subito, ma tu?
- Ascolta, sono costretto a farlo. Se non collaboro, 
uccideranno me e tutta la mia famiglia. Me lo hanno detto 
esplicitamente. Ho una sorella di quattro anni!
- Io, invece, sono convinto che sei uno sporco fascista.
- Te lo giuro, è come ti ho detto! Quelli ammazzano 
chiunque disubbidisca. Te lo ricordi baffetto, quello 
bassino? Ha provato a scappare, prima hanno ucciso lui e 
poi hanno scovato la famiglia nascosta in un rifugio. Hanno
fatto fuori tutti. Non voglio che sterminino la mia famiglia.
- Mi dispiace.
- Cosa vuoi farmi? Uccidermi, metterti sul loro stesso 
piano? Cos'hai in quella tanica?
- No, non voglio ucciderti, penso solo che una doccia 
bollente sia più che sufficiente. Spogliati e bendati gli occhi 
con la tua camicia.
Lui cercava di convincermi a lasciar stare, io gli ripetevo che
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si trattava solo di acqua calda. Per qualche breve secondo 
provò a disarmarmi buttandosi su di me, ma ebbi la meglio 
sparandogli ad una gamba. Dopo poco pulivo il pavimento 
sporco del suo sangue con della paglia. Sorridendo, 
confermavo, mentre sotto la minaccia del mio fucile si 
copriva gli occhi, che volevo solo fargli sentire sulla sua 
pelle quello che avevano provato i civili morti incendiati.
Quando mi chiese del perché della benda, gli ricordai che 
alcune sue vittime erano state rinchiuse in cupi capanni 
senza un filo di luce. 
Appena terminò di allacciare le due estremità della camicia 
e si fermò dritto, a dorso nudo, ad aspettare la sua 
punizione, presi la tanica.
- Prima che inizi, prega. - dissi.
- Perché devo pregare? - mi chiese.
- Perché così sopporterai meglio il calore.
Sospirò, chiuse le mani a pugno ed attese. Aprii la tanica e 
gli versai tutto addosso. A quel punto s'accorse che si 
trattava di benzina, ma era troppo tardi: con un fiammifero 
avevo già acceso delle vive fiamme sul suo corpo.
Mentre scappavo, lo sentivo chiedere aiuto. Avevo ancora le
mani sudate e lo sguardo impietrito; con lui ero a tre e non 
avevo intenzione di fermarmi. 
Avvolto dal silenzio della notte, con un vento che mi 
soffiava dietro al collo, me ne andavo dritto verso 
quell'unico posto che avevo trovato per dormire: una 
vecchia e abbandonata capanna ai piedi di una collina. 
Puzzava ancora di letame, forse ci avevano tenuto gli 
animali, ma non avevo una casa, non avevo una famiglia, 
mi era stato portato via tutto dalla guerra. 
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Mi sedetti come sempre su un giaciglio di paglia con le 
spalle al muretto di una finestra, da cui si vedevano le stelle
e nascosi il fucile sotto la giubba. Accanto a me c'era un 
contenitore di legno coperto appena da un canovaccio, lo 
presi fra le mani e mangiai quell'unico e piccolo pezzo di 
formaggio che avevo gelosamente custodito dalla sera 
prima. Portai leggermente la testa indietro per vedere il 
cielo, avvicinai le ginocchia al petto e abbracciai le mie 
gambe. Con i miei occhi azzurri scrutavo il firmamento e 
ripensavo a mia madre, ai miei fratelli, quando correvamo a
giocare accanto al fiume. Poi ci fu la guerra, la prima che 
insanguinò tutto il mondo e mio fratello Luigi dovette 
partire. Non tornò più. Poi toccò al secondo, Antonio, 
disperso in Germania e infine al terzo, io: il più piccolo. 
Non mi fu risparmiato neanche il secondo conflitto benché 
avessi superato ormai i quarantanni. Fu sotto ai 
bombardamenti di quella guerra che persi anche i miei 
genitori.
Dopo aver ricordato la mia vita, abbassai il capo portandolo
alle ginocchia e ripensai alla seconda vittima, un tenete 
italiano di trentanni, sposato e con una figlia piccola. Era 
avvenuto circa una settimana prima. Lo avevo afferrato alla 
gola, mentre svoltava l'angolo di casa sua; lo avevo portato 
in un locale abbandonato e lì lo avevo legato ad una trave 
caduta dal tetto. A lui diedi fuoco senza benda come gli 
avevo visto fare con degli anziani del mio paese. Anche il 
tenente mi implorò pietà e mi disse le stesse cose 
dell'ultimo: era costretto o avrebbero ucciso la moglie e la 
figlia. Ritornando al presente, ripetevo le sue parole ad alta 
voce e corrugando il viso, che era diventato rosso, dissi fra 
©Siam pronti alla morte, l'Italia chiamò – Annalisa Caravante  7   
me “Ma tu non hai avuto pietà, tu li hai bruciati vivi!... Oh 
mio Signore, tu lo sai, per questo è giusto ciò che faccio!”. 
Una lacrima scese dai miei occhi e portai la mano sinistra 
alla testa rasata; scoppiai a piangere come un bambino.
Quando ero soldato non accettavo che gli uomini si 
uccidessero fra loro e questo mi aveva sempre creato dei 
problemi. Ricordo ancora la scena, durante la prima guerra,
quando un giovane militare austriaco avanzava verso di noi
insieme ai suoi compagni. Il tenente mi ripeteva di 
sparargli, ma le mie mani sudavano e mi chiedevo se 
veramente un uomo poteva essere pronto alla morte. Non 
riuscivo a premere quel maledetto grilletto, l'osservavo e mi
mancava la forza. Era un padre, un marito: lo avevo 
conosciuto pochi mesi prima, io ero in borghese, lui era 
sulla banchina di una stazione e descriveva in uno stentato 
italiano i suoi figli ad un'anziana donna. Sapevo che non li 
vedeva da tre anni.
Al tempo stesso mi dicevo che se continuavo ad essere 
indeciso, lui avrebbe ucciso o me o uno dei miei compagni. 
Sentivo il cuore salirmi alla gola, i battiti erano così 
accelerati che mi auguravo un infarto per non andare 
contro me stesso, contro la mia fede. 
Ad un tratto sentii un colpo sordo e breve e il sangue di 
quel giovane schizzò dappertutto. Il caporale si avvicinò a 
me e guardandomi negli occhi, mi disse “Siamo in guerra, 
Dario, siamo in guerra!”.
Ci aspettava il monte Sei Busi, sul ciglione carsico, e nei 
giorni successivi ci mettemmo in marcia per strappare il 
fronte agli astro-ungarici. Quella battaglia era interminabile
e il nemico era a soli pochi metri da noi. Si alternavano 
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giorni di cruenti battaglie a giorni di quiete ed era allora 
che, senza farmi vedere da nessuno, raggiungevo delle 
casette a pochi passi dall'Isonzo e trascorrevo il tempo a 
bere con gli anziani del paese. Bevevo per dimenticare 
quella scena.
Fu proprio lui la mia prima vittima, il caporale, quando lo 
ritrovai a comandarmi durante il secondo conflitto. Non so 
come iniziò tutto, ma una sera, mentre con i miei compagni 
stavo seduto accanto al fuoco, nascosti dietro un'altura per 
non farci notare dal nemico, lo vidi che si sbottonava la 
braghetta e si portava dietro ad un cespuglio. Inizialmente 
lo seguii solo con gli occhi, poi ricordai la sua freddezza 
nell'uccidere quel soldato tanti anni prima e l'orrore di 
quelle guerre mi passò davanti come un lampo: esplosioni, 
bombardamenti, civili morti... bambini morti. Mi dissi che 
era per colpa di uomini come lui che accadevano certi 
eventi e forse bastava ucciderli tutti per riportare la pace. 
Sentivo i miei compagni parlare delle loro fidanzate, 
quando mi alzai come guidato da una volontà non mia. 
Raggiunsi il caporale, che adesso era colonnello, e stava 
ancora con i pantaloni abbassati. Lui mi vide e con una 
sigaretta fra i denti mi chiese “Ehy tu, che cazzo fai? Non 
hai mai visto un uomo pisciare?”. Non gli risposi, guardavo
la sua bocca e mi misi a pensare come avrei potuto 
ammazzarlo.
“Posso parlare a quattrocchi con lei?” gli chiesi dopo un po'.
Lui fece un mezzo sorriso e ci allontanammo di qualche 
passo. Io cercavo di prendere tempo per capire come agire. 
Non avevo mai ucciso neanche durante le battaglie e farlo a 
sangue freddo era qualcosa di veramente troppo grande per
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me. Mi misi a pensare a quel soldato, ai suoi figli che non lo
avevano più rivisto e senza neanche capire cosa stessi 
facendo, portai le mani al suo collo. Lui era disarmato e 
provò a liberarsi lottando corpo a copro, ma la mia rabbia 
mi portava ad essere più forte. Il colonnello gridava per 
farsi sentire dagli altri soldati e a quel punto mi dissi che 
dovevo finirlo perché non avrei saputo come giustificarmi. 
Strinsi ancora di più. Morì così. Presi con un fazzoletto il 
coltello che avevo in tasca e mi ferii alla spalla. Quando 
arrivarono gli altri, mi difesi dicendo che mi aveva 
aggredito per abusare di me. Ovviamente fu aperta 
un'inchiesta dove recitai alla grande. D'allora mi sentii in 
grado di poter fare tutto.
. . .
La mattina dopo l'omicidio del mio compagno nella stalla, 
raggiunsi la sua casa e vidi i carabinieri che cercavano delle 
tracce dell'assassino. Notai fra le braccia di una donna una 
bambina con il viso rigato dal pianto e che ripeteva il nome 
del fratello. Ebbi un groppo alla gola, abbassai lo sguardo 
provando un profondo dolore. Piangeva per colpa mia. 
“Sono un mostro” mi dicevo mentre, sbandando anche per 
la fame, mi allontanavo con addosso i miei vecchi e luridi 
stracci.
- Perché piangete, lo conoscevate? - mi chiese 
un'anziana donna.
- Era un mio amico! - risposi mettendole una mano 
sulla spalla.
Mi allontanai, stanco più nell'anima che fisicamente ed 
entrai in un bar per chiedere un bicchiere d'acqua. Fui 
osservato dalla testa ai piedi, quasi con disprezzo, ma io 
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ormai mi ero abituato ad essere trattato da straccione. 
La guerra ancora doveva finire e tutti attendevano l'arrivo 
degli alleati, io non aspettavo nessuno. Non vedevo un 
futuro davanti a me, sapevo che sarei morto presto; chissà, 
forse alla fine mi sarei sparato un colpo alla testa.
Al mio quinto omicidio mi sentivo morire dentro. Seduto al 
solito posto nella capanna, rivedevo quel corpo contorcersi 
fra le fiamme e ripetevo ancora di essere un mostro. Non 
riuscivo a fermarmi, c'era qualcosa in me che non mi dava 
pace! Piangevo sempre accarezzandomi il capo e non 
volevo stare lì da solo e con quella ciotola miseramente 
vuota. Andavo avanti solo bevendo acqua e le forze già mi 
stavano abbandonando. L'inchiesta sul misterioso 
pluriomicida era in corso già dalla terza vittima, ma furono 
necessarie altre sei affinché mi scoprissero. L'ultima, 
Giovanni, s'era salvato e lo avevano ricoverato in ospedale; 
mi aveva riconosciuto, avevamo combattuto insieme per 
due anni. Mi vennero a prendere una fredda sera di 
Dicembre, proprio a pochi giorni da Natale. Entrarono nella
capanna con dei cani che subito mi vennero contro; io, 
sempre sotto la finestra, alzai la testa osservandoli. Avevo il 
viso scarno, gli occhi spenti e non mossi opposizione 
quando due carabinieri mi alzarono di peso...
...Mi hanno condannato a morte per crimini di guerra e 
questo è il primo giorno dopo tanti anni che sono ben 
vestito, pettinato e profumato. Indosso una bella camicia 
bianca e dei pantaloni come piacciono a me, me li hanno 
regalati le sentinelle dell'istituto e prima dell'esecuzione mi 
hanno preparato un succulente pasto.
Adesso devo andare, sono venuti a prendermi. I miei amici 
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di cella mi salutano e così le guardie ed io sorrido perché mi
hanno fatto compagnia dopo tanti mesi trascorsi da solo. 
Nessuno di loro mi ha condannato. Sto per pagare il prezzo 
che la società mi ha imposto e con gli uomini credo di 
essere a posto; adesso mi aspetta Lui.
Mi stanno facendo sdraiare su un lettino, mi sono tutti 
vicino, ma io guardo il tetto, anche quando sento l'ago 
entrare nel mio braccio. Adesso lo so se un uomo può 
veramente essere pronto a morire... 
   
 
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