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Autore: Camelia_Calliope    09/07/2013    1 recensioni
[ La bocca sollevo'dal fiero pasto/ quel peccator, forbendola a’ capelli/ del capo ch’elli avea di retro guasto.
Dante Alighieri, Inferno XXXIII, v.v. 1-3 ]
[...]
Non era che ombra e nebbia. Un’entità quasi invisibile e impalpabile costituita di fumo e tenebra. Non provai timore, né ripugnanza.
Se fosse o meno un miraggio favorito dalla stanchezza, o piuttosto dalla mia pazzia, allora non lo diedi in domanda. Oggi, semplicemente non ho voglia di saperlo.
Non farebbe differenza.
Genere: Angst, Dark, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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"La bocca sollevo'dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a’ capelli
del capo ch’elli avea di retro guasto."
 
Dante Alighieri
Inferno XXXIII, v.v. 1-3
 

Περὶ Χειμώνος

 
 
Il tempo, per noi, aveva già scandito i suoi passi.
Κρόνος[1] il fuggente scorreva lento; ma inesorabile. La sua figura, strascicante e cadente, avanzava tra le macerie di un mondo alla deriva; spezzato. I piedi scalzi scalciavano contro i ruderi di una città dimenticata e sepolta sotto grumoli di dolore e cenere.
Κρόνος procedeva silenzioso tra la morte e la desolazione, muovendo quei palmi scorticati dai frammenti di legno e ferro –
Al sangue nuovo Γαῖα[2] non faceva nemmeno più caso;
tanto nuda e sterile
–  La sua veste, scura e logora quanto quella del il più umile tra i reduci, moveva lenta i suoi drappeggi d’ombra ai movimenti del proprio padrone.
Era un demone nero che nel silenzio dei gemiti sussurrati tendeva le sue estremità sulle nostre teste, gli artigli lordi e vischiosi a sfiorare le membra compagne e nemiche.
 

Lo sentivo su di me; la mia personale e fedele ombra di tenebra e sangue.
Nelle notti di novilunio era con me. Rannicchiato al fianco del mio giaciglio – silenzioso quanto la nebbia che immedesimava – pareva mi osservasse.
Nella prima delle sue apparizioni non lo vidi bene e credetti di aver sognato; il folle risultato di una mente stanca e terrorizzata confusa.
Per le lune che seguirono non si ripresentò e le mie idee non fecero che divenire certezze; certezze che si sgretolarono nel luogo di una sola notte.

 
Shayra sussultò, aprendo lentamente le iridi stanche. Sbatté per lungo tempo la palpebre contro gli occhi scuri cerando di abituarsi all’oscurità di quella notte nuda. Con lentezza volse il capo sciolto alla finestra a fianco dell’umile giaciglio di paglia e fieno.
Piano, entrava luce. Le stelle infatti, seppure fioche, brillavano in quella notte senza luna.
La donna continuò ancora a tenere il volto voltato verso quell’unica fonte di luce; le mani lentamente salivano a sfiorare lo sterno chiuso in una stretta fasciatura asettica. Le dita, lunghe e diafane, corsero alla spalla, lì dove ancora una esigua chiazza di plasma vermiglio si apriva tra il biancore del cotone. Le dita percorsero la lunghezza delle bendature fino ad arrivare alla fine, coincidente con l’attaccatura dei calzoni di faggio maschile.
Shayra sbuffò, celando ancora le iridi scure dietro le palpebre pallide.
Con un movimento rapido e deciso, scosse dal proprio corpo le pesanti coperte di lana grezza. La luce fioca proveniente dall’esterno della casupola, sfiorò a mala pena la figura malamente coperta da una modesta camicia di lino colorato.
Shayra si tirò a sedere; lentamente, stringendo con la mano destra la spalla ancora sanguinante.
I resti di un fuoco morto da tempo riposavano placidi poco distanti da se. Fissò quelle braci annerite, quasi scomparse tra le pieghe del legno, fino a quando alle sue iridi cotali immagini non divennero che ombre confuse.
I resti logori e dimessi dei suoi abiti erano stesi a terra a poca distanza dal focolare improvvisato.
Fuori, il vento sbatteva forte contro le imposte di legno chiuse; pareva di sentirlo contro la propria pelle. Pioveva.
Shayra lo capì soprattutto dall’umidità del legno contro la propria pelle. Non le servì uscire all’esterno per comprenderlo né posare le iridi stanche contro una bercia appena più grande delle proprie dita congiunte; le bastò un solo e fugace accostamento delle orecchie.
Sentì indistintamente ogni suono.
Il cigolio del legno sotto i colpi del vento. Lo stordire delle foglie ancora sui rami.
L’acqua.
Sentì l’acqua che scorreva lenta, indisturbata e padrona del suo percorso; un fiume silenzioso e solitario – uno specchio d’acqua di fumo e argento.
Un sasso era infranto contro la sua immagine. L’acqua che cadeva a gocce regolari.
Sentì il suono tondo e perfetto della goccia che cade in un ruscello di fortuna, la sua debole eco tra il rettangolo delle fronde alte.
Shayra chiuse le iridi perdendosi tra il lento e ritmico danzare delle gocce d’acqua. Lentamente la coscienza la abbandonò nuovamente; il dolore alle tempie andò disperdendosi e presto l’oblio ebbe il sapore di un torpore conosciuto e atteso.
 

Non dovetti attendere molto per rivederlo.
L’ho già detto; mi attendeva.
 

Avrebbe voluto perdersi in quel torpore; solo i Grandi Spiriti avrebbero potuto sapere come ne avrebbe avuto bisogno.
Ma non ci riuscì; non poté farlo.
Come spinta da una urgenza primaria, viscerale, riaprì stancamente le palpebre che tremarono per lo sforzo a cui Shayra le obbligò. Contorse il capo, girando il collo lungo e pallido verso la porta sbarrata.
Niente.
Shayra rimase lungamente ad osservare quel luogo silenzioso e quasi totalmente nascosto dalla penombra.
Era stato un istinto – una sensazione sulla pelle – come se qualcuno la stesse osservando o attendendo.
Un sogno; un miraggio favorito dalla stanchezza non solo del corpo ma anche della mente.
Gli istinti e il corpo desistevano alla ragione, la ragione non sapeva di cosa voleva convincersi.
 

Stanchezza, illusione, miraggio, pazzia.
Io stessa mi contorcevo con il mio stesso corpo;
con la mia stessa scienza.

 
Ma fu ancora una volta l’istinto a guidarla. Shayra si lasciò guidare, ogni volta come se fosse la prima; e come la prima volta lo fece con naturalezza e senza il fatto dei propri movimenti.
 

Non era che ombra e nebbia. Un’entità quasi invisibile e impalpabile costituita di fumo e tenebra. Non provai timore, né ripugnanza.
Se fosse o meno un miraggio favorito dalla stanchezza, o piuttosto dalla mia pazzia, allora non lo diedi in domanda. Oggi, semplicemente non ho voglia di saperlo.
Non farebbe differenza.

 
Adoperando quella poca forza che ancora faceva in modo non fosse riversa a terra, Shayra si issò in piedi. Mosse velocemente i gomiti contro la parete spoglia di legno, tentando di darsi anche una minima spinta. I palmi come ancore si legarono alla assi più sporgenti.
L’equilibrio mancava, ma era in piedi.
 

E lo vidi.
Mi osservava; mi attendeva. La mia personale e innocua ombra di cenere e fumo.
Fido compagno di un’anima lacerata e predatrice. Affiancava la mia ombra, lui che di ombra le sue membra scure erano composte.
Non volevo ammetterlo, ma quel fantasma di morte – quel mostro bramoso di sangue – ero io;
e questo mi faceva più disgusto del sangue tre le dita.



[1] Crono: divinità greca che immedesima il tempo degli uomini
[2] Gea o Gaia: divinità greca che immedesima la terra


 
   
 
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