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Autore: Cassie chan    09/07/2013    16 recensioni
Draco sussultò, certo di aver solo sentito il vento, e continuò ad interrogare memoria ed udito, fino a quando lei sparì, lasciandolo solo. L’aria tintinnava di un ricordo netto e preciso, infrantosi nel presente silenzioso. Silenzioso, fino a quel momento. Perché Hermione Granger, vittima di una guerra che sembrava averle cancellato la voce, aveva appena parlato di nuovo. E a Draco Malfoy.
Più di un anno fa, mi fu chiesto di partecipare all'all'OTP Tournament - Dramione vs Drarry vs Harmony, I Edizione, indetto dal « Collection of starlight » come scrittrice dramione. Il mio computer distrusse la prima versione della storia, in tempi brevi scrissi Thema probandum. Qualche settimana fa, il mio pc risputa fuori l'inizio della prima versione, questa che ho completato adesso. Avevo un debito verso questa storia e la considero lo specchio al contrario di Thema probandum, per forza di cose in qualche cosa ci assomiglia. Grazie a chiunque la leggerà e mi vorrà far sapere che ne pensa, ci tengo parecchio a questa storia. :D
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Draco Malfoy, Hermione Granger | Coppie: Draco/Hermione
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Da VII libro alternativo
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Hermione Jane Granger non parlava.

Ossimoro.

Hermione Jane Granger era tutta voce. Scioglieva come zucchero in una camomilla ambrata, sé stessa dentro le parole che amava cullare nella gola, per poi farle fiorire sulle labbra, sfuggendo la barriera dei denti.

Hermione Jane Granger era nulla di più che una voce nei suoi ricordi, un ronzio che non sentiva mai davvero, come un aggeggio babbano che ha sentito chiamare radio. E lui manco si chiede come faccia quella voce a viaggiare lontana per lo spazio, fino a ferire le sue orecchie, come lo stridio di un’unghia su una lavagna.

Lo irrita, lo infastidisce e tanto basta. Tanto basta.

Tra l’altro, è una cosa babbana, quindi le domande non se la fa nemmeno. La guerra e la pace, come due patetici attori che si alternano sul proscenio della sua vita relegandolo a comparsa, hanno imposto che lui non pensi più gli insulti, ma da qui a mettersi a fare anche domande, ne passa di acqua sotto i ponti.

Crede, poi, di non aver nemmeno il diritto di fare domande. Non glielo hanno dato, lui non l’ha chiesto e tanto basta. Tanto basta.

E poi, quella cosa, quella radio, un giorno, smette di brusire.

E il silenzio continua a ronzare. Eco, ricordo, fischio? Non ha diritto di fare domande.

Hermione Jane Granger non parlava, ma guardava.

Uno sguardo di agata dura, screziato di schegge. Le ciglia lunghe, nere, un po’ umide a causa del sudore di quella calda mattina di settembre, restavano arcuate attorno al bianco degli occhi fissi davanti a sé. Non si era mossa di un millimetro, era rimasta seduta sul letto sfatto dell’infermeria abbracciandosi le ginocchia, come quando lui era entrato. Se si fosse messa a spingersi con la schiena, Draco l’avrebbe scambiata per una di quelle ridicole bambole, relegate per sempre su una sedia a dondolo ad imitare divertimenti finti e fasulli.

Invece, lei aveva appoggiato il mento su un ginocchio, piegato la testa di lato, mentre i capelli le scivolavano su una sola spalla. Crespi, spettinati, opachi, erano malamente legati da un nastro beige.

Hermione Jane Granger non parlava, ma guardava. Era lui che guardava.

Lo esaminava con goffa attenzione e negletta diligenza, senza nemmeno sbattere le palpebre, come se le si fossero pietrificati i bulbi oculari. Solo un raggio di sole fendé come un giavellotto la quiete ambrata dei suoi occhi, costringendoli a chiudersi di scatto, infastiditi. Perse quasi l’equilibrio, si aggrappò con una mano al lenzuolo, stringendolo forte tra le dita. Il maglione traforato le coprì le mani, sembrava ballarci dentro.

Quando riaprì gli occhi, Draco era uscito dall’infermeria, sistemandosi meglio le bende attorno alla fronte.

 

 

Il corpo è una magia.

Draco sapeva perfettamente che i tagli sull’avambraccio sarebbero guariti in qualche giorno; la pelle si tendeva prima, pulsava e sanguinava, poi avrebbe vomitato una crosta ruvida come carta vetrata che avrebbe difeso l’epidermide neonata che andava formandosi. Un’epidermide neonata, ma decrepita, che portava già il colore necrotico del stillicidio suicida che si stava autoimponendo. Si mise a giocherellare nel buio con le sue ferite, sperando come un bambino sciocco che la pelle, sotto la crosta, fosse liscia, pura, intonsa. Nella semioscurità dei sotterranei di Serpeverde, gli parve che il braccio venisse quasi inghiottito da quel buco nero come un pozzo, dalle fogge di un teschio che vomitava un serpente.

Draco sapeva che i tagli sull’avambraccio sarebbero guariti in qualche giorno. Era quasi un contrappasso: quello che lui faceva per sé stesso, non lasciava mai alcuna traccia. Allo stesso modo sapeva che i lividi invece sembravano non assorbirsi mai. Diventano violacei prima, poi quasi neri, ed infine scoloriscono, macchie di un giallastro malato.

E spariscono, ma non scompaiono. Spesso Draco, urtando qualcosa, sentiva ancora male. Al ginocchio, sulla spalla, sullo sterno. Una costellazione di segni neri, sul suo corpo bianco, cielo al contrario.

Il corpo è una magia.

La bestia braccata imparava ritmi ed orari e li convertiva in respiro, in strette alla bocca dello stomaco, in capogiri e nausee. Come la lepre odorava l’erba e sentiva la volpe, Draco sapeva che l’orario giusto per uscire dalla sua camera ed andarsene in giro era tra le venti e le ventuno.

L’orario della cena nella gremita Sala Grande.

Poteva passeggiare da solo per i corridoi vuoti, raggiungere i cortili interni bagnati dalla luce della luna, sostare nelle aule deserte senza incontrare nessuno; dopo, un elfo compiacente gli avrebbe fatto trovare degli avanzi nella sua camera. Li avrebbe divorati, senza fame, solo per sopravvivenza, e sarebbe andato a letto.

Quella sera, uscì dalla sua stanza nei sotterranei, il passo lieve come una nebbia di vento; nessuna pietra o asse scricchiolava al suo passaggio. Ad ogni eco di voce che veniva catturato e rifratto dalle pareti, Draco si acquattava contro il muro, le scapole magre che ansimavano al contatto con la pietra fredda, nonostante portasse una camicia ed un maglione. Riconoscendo primini, altri Serpeverde, qualche Tassorosso, una decina di Corvonero e nessun Grifondoro, Draco respirava di sollievo e continuava a camminare; passato cautamente davanti alla Sala Grande, proseguiva per l’androne interno, ritrovandosi finalmente all’esterno.

Si sedeva per terra sotto il porticato di colonne, ed osservava le foglie morte che turbinavano nel vento, creando invisibili rivoli di polvere tra i lastroni di cemento. Non pensava, difficilmente lo faceva.

Era diventato istinto, puro, semplice, primordiale. E bastava una voce a farlo appiattire contro una colonna, la bacchetta inutile in pugno. Bastava una voce.

Ma di lei, ovviamente, non si accorse fino a quando non si era già seduto al suo solito posto. L’impressione di non essere solo, quello scomodo fastidio che non andasse tutto come sempre, lo aveva spinto a guardarsi attorno ed oltre la colonna accanto a lui, una chioma cespugliosa era mollemente appoggiata allo stipite di pietra bianca. Non guardava come lui il cortile, la Granger. Guardava fisso davanti a lei, persino di spalle Draco distingueva il mento sollevato e i capelli che ricadevano flosci sulla schiena, sollevandosi ad ogni ritmo del suo respiro. Affrettato, sembrava respirare a fatica.

Il primo pensiero che lo colpì, subdolo come un calcio sotto la cintura, fu che l’Ottavo anno di Hogwarts era popolato da derelitti. Era così disabituato a pensare da sbuffare con un pasticciato sospiro di fastidio che riecheggiò nell’atrio deserto, amplificandosi infinite volte. La Granger contrasse le spalle, ma non si mosse.

L’Ottavo anno di Hogwarts era l’anno dei diciottenni che avevano saltato l’ultimo anno a causa della guerra.

Erano pochi, ovviamente, e non perché quell’anno tutti fossero stati diligenti ed impeccabili frequentatori della scuola. Erano pochi perché ovviamente quasi nessuno era tornato.

Potter e Weasley avevano ottenuto di entrare nel corso per Auror, per quanto ne poteva sapere, che ovviamente era poco. Pansy non era più voluta tornare dalla morte di sua madre, Blaise si era trasferito a Durmstrang, Theodore si era messo ad aiutare il padre, Goyle stava ad Azkaban, Tiger era morto.

Tiger è morto.

 I diciottenni parevano una razza strana, amorfa ed acefala in quella scuola, come se portassero sulla fronte un segno luminoso che li distingueva ad occhio nudo. Sembravano più alti, tendenzialmente più cupi… ed erano dei derelitti. Ecco, come lui e la Granger. Me e la Granger.

O meglio, si disse onestamente Draco, riassestandosi e mettendosi dritto, nessuno dei diciottenni vinceva il titolo di derelitto meglio della Granger. La guardò di sottecchi, non aveva mosso un muscolo da quando era arrivato. Restava immobile, dandogli le spalle, a malapena respirava. Solo la nuca era scivolata indietro, appoggiandosi alla colonna, mentre lei alzava lo sguardo verso l’alto.

Questi movimenti, Draco non li aveva nemmeno sentiti. Per quello, sopportava la sua presenza. La Granger, oramai, era una pianta ornamentale, di pessimo gusto, ma sempre tale. Alla fine uno si abitua ad averla davanti agli occhi, o meglio uno alla fine ci passa davanti e nemmeno se ne accorge.

Hermione Granger aveva ormai moltissimo in comune con una pianta ornamentale.

Un simbolo muto.

Era un simbolo che richiamasse coraggio e speranza, era stata fotografata davanti all’Espresso di Hogwarts il 1° settembre, un sorriso cancellato ed una crocchia severa ad imprigionarle i capelli crespi. Anche lei era tornata a scuola, e se poteva farlo lei, eroina e martire, potevano farlo tutti. Tutti potevano ostentare lo slogan del mese, dell’anno e dell’intera storia umana: normalità. Un pessimo cerone con cui ci si truccava il viso di fronte all’ennesima lacrima, all’ennesima assenza, all’ennesima cosa fuori posto.

Ma Hermione Granger versione derelitto non aveva nulla di normale, e Draco aveva aborrito l’idea di usarla per quello scopo. Anzi, più che aborrito, l’aveva trovata un’idea idiota.

Hermione Granger era monito della guerra ed anatema della pace. La sua foto sulla Gazzetta del Profeta era uno scomodo imbarazzo, da nascondere con borghese puritanesimo sotto un letto di buone intenzioni, per nulla adatta ad infondere la nozione del nuovo inizio aperto per tutti. Certo, Hogwarts aveva riaperto il 1° settembre come sempre, ma il treno rosso era parso un insulto. E per la prima volta, non soltanto agli occhi blasfemi di un Serpeverde, o di un ex Mangiamorte, o di un cinico esteta annoiato.

Agli occhi di tutti.

Il corpo è una magia, però, e gli occhi comandarono alle labbra di restare sigillate in asettici e normali sorrisi.

C’era poca gente al binario 9 e ¾ , ingombranti vuoti nella folla, assordanti silenzi in vagoni deserti. Nel timore di fare qualcosa che non suonasse come normale, gli stessi ragazzi sembravano camminare in punta di piedi, salutandosi quietamente e sorridendo parcamente. Draco si era scelto un vagone, beandosi della silenziosa compagnia di quattro primini che ancora non lo conoscevano.

Ancora.

Fu il primo anno che Serpeverde non ebbe alcun studente nuovo. La preside McGranitt aveva cercato di ovviare a quell’impaccio, abolendo le quattro lunghe tavolate della Sala Grande e creandone una sola che girava attorno alla sala, segmentandosi in un quadrato. Pessima scelta.

Draco aveva capito dalla prima cena post Smistamento che era meglio non sedersi a tavola.

La pianta Granger, invece, doveva averlo capito di recente. Aveva sempre sentito quell’incredibile e fastidioso vociare, quando lei arrivava in Sala Grande, sostenuta dalla Piattola Weasley. Sapeva perfettamente Draco dal suo nascondiglio che, appena varcava la soglia, il vociare cessava per cinque secondi, poi riprendeva all’improvviso, sommergendo la ragazza di domande e di richieste mielose.

Perché era popolare la Granger come pianta ornamentale.

E tutti avevano una domanda per lei, a cui ovviamente non avrebbe risposto.

Tutti, tranne lui, ovviamente. Non sa fare domande, non vuole farne e non ne ha nemmeno diritto.

Hermione Granger improvvisamente si alzò in piedi di scatto, repentinamente, come se avesse preso la scossa. Ruppe la quiete della notte, calata a grandi stelle su di loro, con pochi gesti e qualche passo, tutti estremamente rumorosi. Draco li sentì ripetersi circa duecento volte nel suo cervello.

Non si voltò naturalmente, quando la sentì camminare alle sue spalle e nemmeno quando la sentì fermarsi. Poteva ignorare tranquillamente i suoi passi poco aggraziati, senza timore alcuno di avere rimostranze. Non gliene poteva fare, pure se le fosse saltato in mente di farle. In mente, appunto, non alle labbra.

Gli venne quasi da ridere in modo sardonicamente divertito.

Lei, però, restava alle sue spalle e continuava a guardare, la sua nuca, la sua schiena, i capelli. La sentiva curiosare dappertutto. Gli ribollì il sangue dal nervoso, come la mattina in infermeria.

Si voltò innervosito, la Granger se ne stava in piedi, la bocca dischiusa, in attesa. Lo sguardo era di nuovo pietra dorata, fisso, incastonato su di lui. Draco respirò a fondo, prima di erompere: “Che diamine vuoi?!”.

Hermione sbatté le palpebre, riscuotendosi, la solita patina indifferente le calò sul viso. I suoi occhi, però, ritornarono su di lui, concentrandosi foschi sulla manica del suo maglione. Draco, irato, seguì il suo sguardo, restringendo le pupille alla vista del sangue che, superato il cotone della benda e quello della camicia, aveva impiastricciato la grana del maglione verde che indossava. Draco tornò a guardarla, raggiungendo con una mano la bacchetta, pronto a scagliarle qualsiasi maledizione se quel suo viso avesse mostrato un qualsiasi sentimento: fosse stato divertimento, ilarità o persino comprensione, pianta o non pianta, l’avrebbe uccisa.

Lei restò indifferente, immobile, cera scolpita.

Chiuse gli occhi e sospirò.

“Saint Suliac…”.

Draco sussultò, certo di aver solo sentito il vento, e continuò ad interrogare memoria ed udito, fino a quando lei sparì, lasciandolo solo. L’aria tintinnava di un ricordo netto e preciso, infrantosi nel presente silenzioso.

Silenzioso, fino a quel momento.

Perché Hermione Granger, vittima di una guerra che sembrava averle cancellato la voce, aveva appena parlato di nuovo. E a Draco Malfoy.

 

La voce di Hermione Granger era evaporata come rugiada sotto il violento soffio rovente della guerra. Esattamente alla fine della battaglia di Hogwarts.

Contando i morti, curando i feriti, enumerando i dispersi, ad Hermione Granger fu superficialmente chiesto da una Medimaga annoiata, che si guardava le unghie scrostate di rosso, se stesse bene. Era una domanda di circostanza, Hermione era una di quelle che stavano bene. Tagli superficiali, una ferita al ventre, escoriazioni.

Ed invece Hermione a quella domanda non rispose. A nessuna domanda, Hermione rispose.

Semplicemente, guardava chi la interrogava e, al massimo, scrollava le spalle. Spesso le sue stesse palpebre sembravano pesarle sugli occhi come veli di cemento e, alle domande ossessive di amici, conoscenti, sconosciuti ed estranei, rispondeva chiudendo gli occhi. Sparivano annegate nel bianco le iridi castane, morendo nel buio.

Mistero buffo, la storia di Hermione Granger aveva riempito i giornali di tutta l’estate di festeggiamenti dell’epoca post Voldemort; perché Hermione non aveva danni neurologici, ogni esame babbano e magico era stato negativo. Nessuna fattura, nessun incantesimo, nessuna pozione.

Ma non parlava più, restava silenziosa testimone di tempi immemori.

Draco aveva letto la notizia quando era ancora  a casa sua, agli arresti domiciliari, ed era dovuto scappare in camera per scoppiare a ridere impunemente, senza che gli Auror potessero accorgersene e prendere provvedimenti. L’aveva vista come una manifestazione assolutamente tardiva della legge del karma, finalmente qualcosa era tornato indietro anche ai cosiddetti eroi. Il suo sorriso era lievemente scomparso quando il loro avvocato aveva informato lui e i suoi che, per ovvi motivi, Hermione Granger non poteva testimoniare in suo favore con Potter e Weasley al processo per la morte di Tiger.

Il karma gli si era ritorto contro.

Era una novità? Ovvio che no, per lui la ruota mica girava mai.

Hermione Granger, comunque, aveva stilato con precisione una dettagliata deposizione, dove lo scagionava completamente dall’accusa di aver ucciso Tiger. Non lo aveva fatto per lui, ovviamente, ma solo per il suo senso del dovere che le impediva di mandare in carcere un innocente, fosse anche uno che si era macchiato di altri crimini, anche se, per fortuna, non di omicidio. Ovviamente tutto questo lo aveva abbondantemente scritto.

Quindi è solo muta, non anche deficiente… aveva pensato Draco con fastidio, digrignando i denti.

Che però Hermione Granger non fosse diventata deficiente, era chiaro a tutti molto più di quanto Draco potesse ammettere. Era tornata ad Hogwarts per dirne una, e continuava ad eccellere nei test, la sola differenza è che ormai ad ogni domanda dei professori, non c’era più una mano affusolata a scattare imperiosa in aria, formulando risposte, ma un silenzio imbarazzato ed un paio di occhi nocciola ostinatamente rivolti fuori dalla finestra. Si era concluso che Hermione avesse subito qualche tipo di trauma psicologico, nell’ignoranza di risposte inesistenti si decretò con sufficienza che forse si sarebbe risolto tutto da solo. Potter e Weasley andarono al corso per Auror, parcheggiandola ad Hogwarts come un pacco postale dal contenuto incerto e probabilmente pericoloso; la Weasley si era erta a sua assolutamente inopportuna ventriloqua, mentre la scortava per le aule e per il castello, e i brusii piano si erano zittiti, considerando ormai Hermione Granger al pari di un fantasma.

Ti incuriosisce la prima volta, gli fai domande la seconda, la terza e la quarta volta, e alla quinta ti accorgi a malapena che ci sia.

Ma Hermione Granger non solo non era deficiente, ma non era neanche muta.

Ma questo lo sapeva solo Draco Lucius Malfoy.

Tutti potevano immaginarlo, certo, ma lui solo ne aveva la prova. Mai come in quel momento, Draco sentì la mancanza del professor Piton, se lui fosse stato ancora vivo ed ancora in quella scuola, ne avrebbe parlato con lui. Ogni altra persona, al pensiero che Hermione Granger stesse solo fingendo di non avere più la voce, lo avrebbe messo sotto torchio, facendogli raccontare tutto l’episodio e probabilmente imponendogli di fare in modo che la ragazza parlasse ancora. A quanto ne poteva sapere Draco, il mutismo di Hermione era stato assoluto fino al momento in cui gli aveva rivolto quelle due parole. Piton invece l’avrebbe smascherata ed avrebbe rivelato il sordido tentativo della Granger di essere sempre al centro dell’attenzione, senza coinvolgere Draco.

Ma Piton non c’era. Piton è morto. Piton è morto, accanto a Potter. E io, Piton, non lo vedevo da settimane.

I suoi genitori erano esclusi, ovviamente; la lettera li sarebbe arrivata solo dopo tre settimane in America, dove adesso vivevano, e ce ne avrebbe messe altrettante per la risposta, ammesso che gli rispondessero subito. Lo avrebbero fatto, certo, ma probabilmente ignorando la Granger. Spesso, Draco aveva l’impressione dalle loro lettere transoceaniche che Narcissa e Lucius stessero semplicemente cercando di non ripensare alla vecchia vita.

Lui era il solo legame rimasto.

E se non la rinnegavano, inghiottendo bocconi acri di risentimento, era solo per lui.

E Draco non li deludeva, come sempre. Scriveva poco, parlava del tempo atmosferico in Inghilterra, si inventata aneddoti divertenti con amici che non erano mai tornati ad Hogwarts, si scusava del poco tempo libero per scrivere, mentre cercava invece ossessivamente qualcosa da fare.

Non erano finiti ad Azkaban né lui, né i suoi, avevano goduto di uno stato simile a quello dei pentiti, considerando la bugia di Narcissa al Signore Oscuro sulla morte di Potter.

Ma, in fondo, li avevano puniti lo stesso e ben più duramente. Separandoli.

Draco, con il segreto della voce della Granger dentro, assaporò con maggiore disgustosa nettezza quanto in realtà fosse solo. Non era una solitudine aurea da isola al centro di un mare placido e indifferente, lui non affondava le radici nel nucleo della terra. Lui annaspava come una barchetta, una vela strappata come motore ed una stella nascosta dalla nebbia come guida.

Non si inferse un solo e singolo taglio in quei giorni. Aveva tratto piacere da quella malsana pratica non appena era stata pronunciata l’assoluzione a suo carico per la morte di Tiger. Era successo per caso, un giorno, mentre tagliava della carne. Il coltello era sfuggito, aveva incontrato la pelle del dorso della mano, aveva grattato via un po’ di sangue. Puro, intonso, macchiato da generazioni senza nome di Malfoy immacolati. Il lieve pizzicore era stato come acqua santa sul capo del catecumeno, come se aveva dato al suo sangue ogni compito e missione di purificarlo da sé stesso. E da lì, aveva sempre avuto un coltello in tasca e del sangue coagulato sotto le unghie delle dita.

Poi, basta.

Hermione Granger parlava, non aveva mai smesso, diceva cose che non erano nemmeno parole ma solo suoni inarticolati di infante pigra, e non si era tagliato più, liberando pinte di pensiero liquido nella sua testa. E il segreto di Hermione Granger, senza nulla a fargli ostacolo nella sua mente vuota, continuò ad echeggiare per giorni. Rimbalzava come le onde sonore dei pipistrelli, non aveva schermo né argine alcuno. Non ricordava, Draco, le parole che lei gli avesse detto, ma solo la voce. La solita voce di Hermione Granger.

Nulla era cambiato, lei non era cambiata. Era la solita voce pastosa, vagamente argentina, tonda sulle parole ad accarezzarle e a cullarle. Non sembrava nemmeno arrugginita per scarso utilizzo. Forse parlava da sola come una pazza, aveva solo smesso di farlo con qualsiasi persona vivente. Tranne che con lui.

L’aria si era raffreddata in quei giorni, il cielo era scolorito come una tela bagnata di acquaragia ed ottobre era entrato prepotentemente nel calendario, artigliandosi sui giorni sempre uguali. Nel vento che penetrava nelle crepe del sotterraneo dei Serpeverde, gelando il sangue aggrumato, Draco sentiva la voce della Granger come l’eco delle conchiglie. Una nota flebile, lieve, leggera, come un respiro. Per quanto, però, fingesse di sforzarsi, non c’era traccia delle parole che le aveva sentito pronunciare. Doveva esserselo sognato. E quel respiro che penetrava come un spiffero dalle crepe era solo il vento.

La sua vita attuale gli aveva insegnato una cosa importante: categorizza i pensieri, chiudili in scatole e conserva quelli importanti. Quelli vitali. Quelli che ti faranno sopravvivere. Il resto non serve. Tutto non serve.

L’aveva fatto la mente, il corpo no. La magia di un corpo che scopriva reazioni irrichieste.

Niente più cortile interno durante la cena in Sala Grande, ma una poltrona in Sala Comune con la sempre asettica scusa che non aveva voglia di mangiare. Niente più ultimo banco durante le lezioni con i Grifondoro, così da controllare ogni movimento ed essere sempre all’erta, ma il primo, così da non inquadrare nessuno e non incrociare nessun sguardo.

Passi veloci nei corridoi, come sempre. Passi febbrili, quando vedeva una chioma cespugliosa tra l’altra gente.

Minimo le salta di nuovo in testa di parlare con me e qualcuno se ne accorge…

Durante una di quelle manovre diversive che non avrebbe mai ammesso e che chiamava “l’aria di questo castello è asfissiante, esco fuori, vado a fare una passeggiata, tanto chi vuoi che incontri…”, soprappensiero raggiunse il campo da Quidditch. Non sapeva chi si stesse allenando, non era in squadra da una vita. Il cielo si era fatto plumbeo come una coperta stesa a forza sulla terra, qualche goccia d’acqua cadde a terra, precisa come un proiettile. Draco riparò sotto le gradinate degli spalti, piegandosi qualche secondo sulle ginocchia per pulire le scarpe sporche d’erba. Era passato il tempo dei vestiti messi una volta e poi gettati. Questi, se tutto va bene, dovevano durargli fino all’anno prossimo, quando avrebbe avuto il permesso di vedere i suoi.

Non vide il primo colpo, come sempre lo colpì sul fianco destro, facendolo gemere e ricadere bocconi sull’erba. Il livido già presente prese a pulsare, ma Draco lo ignorò, schivando il secondo colpo.

Perché c’era sempre il secondo colpo, ma lì la mente era già tornata reattiva, immettendo adrenalina nel sangue e dando scariche elettriche ai muscoli. E il secondo colpo lui lo evitava sempre, come lo evitò anche quel giorno, rotolando di lato.

Poi ci sarebbe stato il terzo, il quarto, il quinto, e Draco sapeva che poteva solo evitarli, non darsi da fare per colpire. Quello mai. Li avrebbe indispettiti di più con una sua reazione. Lo aveva imparato, e non come una lezioncina recitata da un professore annoiato e ricopiata con negligenza su un quadernetto.

L’aveva imparato a sangue e lividi, ad insulti e gemiti.

Il coraggio del serpente, di fronte alla grandezza del grifone, è solo appiattirsi nelle viscere della terra, masticando le litanie contro il suo sangue puro, che adesso insudicia la pelle sotto il suo maglione strappato.

Dal numero di colpi che riceve, tra quelli che non riesce ad evitare e quelli che invece schiva, capisce a tratti, come fiotti di luce da un faro, che deve essere capitato proprio durante l’allenamento dei Grifondoro.

Sembrano troppi, troppe risate, troppo scherno, troppa ingordigia a non lasciare nemmeno un pezzo del suo corpo intonso. Si maledice per la sua disattenzione, mentre si copre il volto con le braccia, prima che con un calcio, lo pieghino, facendolo cadere riverso per terra. Non perderà i sensi, questo lo sa, era successo una sola volta e poi si erano dati tutti da fare per non essere mai più così misericordiosi. O così codardi, chissà: i Grifondoro non colpirebbero mai chi è incosciente e non può difendersi o sentire i loro insulti colmi di lutto represso.

Vogliono che lui senta, vogliono che capisca, vorrebbero persino che lui rispondesse.

Ma Draco tace, ha sempre taciuto, ha soltanto afferrato il coltello che aveva in tasca e ha proseguito il loro lavoro sulla mano, stringendo forte la lama. Perché loro sono degli idioti, e non lo puniranno mai quanto lui potrebbe punire sé stesso: quindi fa da solo, così che possa strappare loro l’aura sacra dei castigatori di peccatori, godendo del sangue che versa senza che loro se ne accorgano e senza che possano preconizzare quanto dolore potrebbe ancora provare, senza perdere i sensi.

Sta aspettando l’ultimo colpo, stringendo quella lama che un altro Serpeverde avrebbe già scagliato a cercare sangue meno puro del suo. Mastica la polvere, inspira la calma, digrigna il livore.

Ma non successe nulla. Tutto si fermò come il rantolo malato di una bestia ferita: si arrischiò a sollevare gli occhi, uno non riuscì ad aprirlo, era pesto, questo non era riuscito ad impedirlo.

Non c’era più nessuno, non sentiva più nulla, nessuna voce. Nessun insulto calibrato alla sua famiglia, alla sua razza, al suo onore, alla sua persona, al suo sangue, alla sua esistenza stessa. Nulla.

Si sollevò, sputò del sangue, si voltò su sé stesso, meditando di sgattaiolare in infermeria all’ora di cena per rubare delle garze e della pozione medicatrice, così da non mendicare attenzioni da Madama Chips, incespicandosi in annoiate scuse marce.

Trasalì, barcollò, come se a scoppio ritardato qualcuno lo avesse colpito in testa. E, ricordiamolo, la sua testa era sacra: non doveva mai perdere i sensi.

I sensi, adesso, invece gli stava perdendo tutti assieme. Odore di pioggia e sangue, ticchettio mesto d’acqua smunta, tocco asfittico di polvere lercia, trappola masticata di pietrisco sotto il labbro. Sparì tutto.

Solo la vista resistette come un vessillo di resa su un castello abbandonato.

La schiena di Hermione Granger che si allontanava sotto la pioggia, coperta lievemente dal rosso accecante di una camicia zuppa. La pelle tra le scapole creava un fosso nel tessuto, come un buco dove il cacciatore aveva l’ingresso privilegiato nel cuore. I capelli pendevano come fronde d’albero secco, dimentichi di cura femminile, sciolti, crespi, sterpaglie bruciate e poi annegate per dare l’illusione di qualcosa di ancora vivo. I passi erano lenti, rumorosi, insicuri. Ad ogni movimento, sembrava concentrarsi per non cadere.

“Che cosa diamine volevi l’altra volta, Granger?! Hai imparato a vaneggiare adesso?! Che vuol dire, Saint Suliac?!”. Una freccia, dalla punta avvelenata, dritta nel buco tra le scapole. La vide persino tremare, prima di fermarsi. Distinse la pelle d’oca sotto la camicia bagnata, come se adesso scoprisse freddo, acqua, tenebra.

Draco sentì la sua voce estranea a sé stesso, era acuta, stridula, incomparabilmente irritata. La vista della sua schiena gli aveva fatto sovvenire il ricordo delle sue parole, quel tono fresco di voce non usata. Aveva persino ricordato le parole precise, che non erano un gorgheggio, ma un nome preciso, francese. Aveva persino ripetuto l’accento di lei sull’ultima sillaba, la troncatura delle finali, la piega leziosa sul dittongo.

Ed aveva ignorato, come lei voleva, la bacchetta che le pendeva dalla mano destra e che aveva fermato i suoi assalitori. Molle, piegata, quasi le scivolava dalle dita: un Incantesimo muto e l’ultimo colpo che Draco aveva aspettato, non era arrivato. L’aveva ignorata la sua bacchetta, ed aveva mollato un po’ la stretta sul coltello stretto ancora nella mano. Lei non voleva che se ne accorgesse. Lui non voleva che la ringraziasse.

E, per la prima e non ultima volta, si incontrarono nella penombra confortevole del desiderio altrui. 

Accettato, consumato, ma mai esplicitato.

Quando lei si voltò troppo velocemente su sé stessa, si tradì come Giuda all’ultima cena. Aveva gli occhi troppo vivi, troppo accesi. Troppo rossore sulle guance, troppa foga nelle labbra serrate, troppa impazienza nel respiro.

La pelle del collo si tese sotto le sue vene, che pompavano il sangue alla sua testa così da consentirle di consumare avida il tradimento del silenzio. E le sopracciglia aggrottate, le ciglia frementi, lo sbuffo delle labbra annoiate furono una conferma non richiesta. Non se ne accorse, se non pochi secondi dopo.

Non si accorse che si era incarnata in sé stessa, di nuovo, se non pochi secondi dopo.

Una sé stessa autentica, non una pianta ornamentale: quella che odorava di carta di riso, quella che rispondeva a voce alta, quella che scriveva con foga, quella che adorava il grattare della penna sulla pergamena, quella che era viva e che non voleva essere null’altro che viva. E quella che, di fronte alle domande spicce, avrebbe sempre risposto irritata, come se la stupidità umana fosse un personale torto a sé stessa.

Hermione Granger spalancò gli occhi, pochi secondi dopo, mentre ancora finiva la frase con tono sarcastico. E lo sapeva ancora usare benissimo quel tono troppo da persona viva, al punto che Draco Malfoy se ne sentì quasi offeso. Quasi, però.

Perché mentre metabolizzava quel suo: “Ma ci vai qualche volta in biblioteca o pensi che sia una sala decorativa?!”, già aveva intuito che sarebbe corsa via tre secondi dopo, punendosi con un passo affannato che non sollevasse nemmeno uno schizzo d’acqua e che non producesse nemmeno l’ombra di un suono qualunque.

E già sapeva che il coltello nella sua mano, ormai vicino a cadere fuori dalla sua presa, avrebbe affondato nella carne, punendo nel sangue quell’ascolto non richiesto.

 

 

In biblioteca ci era andato perché si annoiava.

Era uno di quei pomeriggi da cartolina mediocre, con il cielo fermo, il lago immobile, l’aria stagnante e tutti gli studenti riversati nel Parco. Ottobre aveva ancora la fragranza dorata di un Settembre ritardato che non ne voleva sapere di girare i tacchi ed andarsene dal calendario. I professori si erano messi d’accordo per dare pochi compiti agli studenti, o perlomeno così sembrava a Draco Malfoy: forse, dal loro punto di vista, avevano ripiegato sulla magnanimità così da lasciare ai superstiti della guerra l’occasione di godersi un pomeriggio di sole inaspettato. Peccato che i veri superstiti della guerra, invece, scegliessero l’esilio in quelle occasioni luminose: e lui, sollevato, aveva trovato la biblioteca vuota e si era rintanato in un angolo buio, gli occhi fissi davanti ad un libro chiuso.

Poi quella vecchia megera della bibliotecaria si era avvicinata, fingendo di mettere a posto rumorosamente dei tomi polverosi e dandosi da fare per tossicchiare in modo quanto più molesto possibile, così che lui capisse che non poteva stare lì senza far nulla. Con un profondo sospiro, Draco aveva quindi aperto con nervoso il libro, mormorando lamentele a mezza bocca.

La pagina recava in bella vista un atlante della Francia.

Hermione Granger era una dannata mosca molesta che si attaccava al suo cervello: un messaggio subliminale, che a malapena raggiungeva la sua coscienza, e poi esplodeva come un petardo nei gesti più comuni. Gli occhi, sebbene la mente ancora ordinasse di stare fermi e di fingere la concentrazione prettamente necessaria a non essere disturbato dalla bibliotecaria, corsero rapidi a cercare Saint Suliac. E rapido, implacabile, lesse la dicitura della piccola cittadina sul mare della Bretagna. Uno dei borghi più belli della Francia, centro marittimo, meno di 1000 abitanti, case di pietra scura, vele bianche pompose, babbani che ci andavano in vacanza d’estate.

E un’Accademia Magica, nascosta da un Incantesimo protettivo tra i più potenti.

Draco si portò una mano stanca ed incredula tra i capelli biondi, che strinse con la stessa foga con cui tormentava la sua pelle con la punta fredda del coltellino che adesso non si portava più dietro. Lesse con rabbia sempre maggiore la descrizione che l’autore faceva dell’Accademia di Saint Suliac.

L’Accademia delle Scienze Alchemiche di Saint Suliac è la più vecchia istituzione scolastica della Francia, probabilmente più antica persino di Beauxbatons. Nota per essere il luogo dove vengono ideate le più grandi innovazioni pozionistiche della Storia della Magia, è tuttavia poco conosciuta a causa della grande selettività a cui vengono sottoposti gli aspiranti frequentatori dell’Accademia stessa. Dopo un ciclo di studi ordinari, difatti, possono essere ammessi all’Accademia tutti coloro che riportino la media dell’Eccellente in tutte le materie curriculari e che superino il delicato test inziale. Esso consiste nel  proporre alla Commissione esaminatrice una Pozione medica inedita entro il 30 maggio di ogni anno. Il corso di studi dura cinque anni, al termine del quale i diplomati più meritevoli vengono ammessi nell’area sperimentale dell’Accademia stessa, dove continuano con le ricerche. Per coloro che concentrano i loro sforzi accademici nell’area biomedica, giungendo a pregevoli risultati, è prevista la grazia da ogni reato commesso precedentemente per sé e per la propria famiglia; in ogni caso, coloro che studiano in tale Accademia godono di una elevatissima reputazione in seno al Mondo della Magia.

Benzina sul fuoco: ogni parola di quella raffinata spiegazione cartacea fu benzina sul fuoco. Draco si trovò in mano dei capelli strappati senza che nemmeno avesse provato un po’ di dolore. Il sangue era fluito tutto al viso, alle gote arrossate, agli occhi accecati di furia, poco prima che poi si dirigesse venefico alle gambe, comandandolo di scattare in piedi e di correre fuori. Nei corridoi deserti, non prestò attenzione a nulla, a nessuno, ad una qualsivoglia cosa a cui avrebbe dovuto prestare attenzione: persino la paura di incontrare qualcuno che lo picchiasse come al solito diventò una stupida preoccupazione vana che cedeva il passo ad un’impellenza maggiore. Repressione. Soffocamento. Annegamento. Ci sguazzava in quel clima di vittima perenne, ci godeva enormemente ad appiattirsi nel senso di colpevolezza fosco e nell’ingorda lacerazione dell’impotenza. Non aveva bisogno di speranza, di una risorsa, della possibilità che tutto andasse bene. Non aveva bisogno di una fede malriposta: soprattutto non aveva bisogno della fiducia assolutamente malriposta di Hermione Granger.

I Grifoni hanno le ali per andare dappertutto: dovunque è il luogo fisico che naturalmente li si addice. I Serpenti, dalla loro, hanno solo l’istinto per trovare comodi nascondigli e hanno solo il veleno nei denti per difenderli come se fossero lussuose dimore cercate con sollecitudine, e non sopportate con sussiego.

E lui era sempre stato un Serpente, non ne voleva nemmeno sapere di chiedersi come fosse il mondo fuori dalla crepa ospitale che era la sua vita.

Dalla fine della guerra, gli era sempre bastata quella feritoia scavata nel tempo rubato.

La rabbia di Draco Malfoy era tale che, quando finalmente trovò Hermione Granger, per un attimo nemmeno la vide. Superò l’incavo nella roccia tra un’armatura ed una colonna, senza accorgersi di lei. Il Grifone e la crepa, che curioso controsenso. Poi bastò un respiro forte, estremamente rumoroso, tanto da riecheggiare nel corridoio deserto e si voltò su sé stesso.

Passava nelle vite degli altri come un pulviscolo di vento, senza nemmeno osare respirare. E poi urlava sempre nella sua di vita.

Era seduta, per terra, le ginocchia al petto, come una bambina spaventata da un temporale. Draco non vide il suo viso, era nascosto tra le braccia, i cui gomiti erano poggiati sulle ginocchia. Distingueva solo la sua fronte. La pelle era bianca, livida, sudata: solo a quel punto, respirando a fatica, notò le mani premute contro le orecchie, forte, al punto che il dorso delle mani stesse si era fatto trasparente. Distingueva la trama delle vene e il tragitto del suo sangue - sporco -  che fluiva verso i polsi sottili, assecondando il movimento convulso del collo che continuava a muoversi a destra e a sinistra. La  testa era come un ammasso di stracci sporchi, i capelli una sterpaglia confusa che le copriva in modo misericordioso il volto: negava febbrilmente qualcosa, come se qualcuno le stesse raccontando una storia terribile alle orecchie e lei cercasse di tenerla fuori dalla sua testa. La divisa era impolverata, strappata sull’orlo, e sporca di un fango che non sapeva dove aveva trovato in quella giornata piena di sole. Respirava a malapena, rantolava come un malato terminale e continuava a negare come una povera bambina pazza.

Le urlò di tutto: insulti vecchi e nuovi, litanie inventate al momento, balzane imputazioni di colpe non sue, retaggi medioevali del sangue ed esagerazioni di difetti che nemmeno sapeva che lei avesse. Nel corridoio deserto non passò nessuno, mentre lui urlava, mentre le pietre rifrangevano le sue parole, mentre il respiro di lei nemmeno accelerava e restava stasi mobile di un tormento segreto. Non si mosse nemmeno per un momento, nemmeno diede segno di averlo sentito: non franarono le spalle, non piansero le guance, non sollevò il viso.

Continuò a negare e basta, come prima che parlasse, come se lo condannasse al mutismo per le sue orecchie, quello che lei aveva elargito a tutti gli altri. Tranne che a lui, a cui però adesso donava lo stesso respiro affannoso che avrebbe dedicato ad ogni individuo al mondo.

Smise di urlarle contro Draco, quando capì che lei non avrebbe risposto, non avrebbe parlato, non avrebbe rotto di nuovo l’Incantesimo apposta per lui. Se ne andò, le ginocchia che gli tremavano, voltandole le spalle.

Due ore dopo, dopo che ebbe mangiato, dopo che ebbe dormito, dopo che ebbe fatto i compiti di Trasfigurazione, dopo che ebbe guardato dodici volte la clessidra, dopo che ebbe seguito la traiettoria del sole che si tuffava nella culla rocciosa delle montagne… lei sarebbe stata ancora lì. Nella stessa posizione di prima, con le ginocchia strette al torace, il respiro come se avesse corso per chilometri, i capelli spettinati, la testa impegnata nella sua opera di negazione. Di lei era cambiato solo il colore, prima la luce del pomeriggio la ritagliava di stelle moleste nei riflessi lucidi dei capelli, adesso il buio se l’inghiottiva pronta a masticarla.

Draco si chinò alla sua altezza, sedendosi a gambe incrociate davanti a lei. Le prese i polsi tra le mani, facendola fermare. La pelle dei suoi polsi era così calda che Draco pensò che avesse la febbre: ma aveva il viso livido, emaciato. Due profonde occhiaie viola le macchiavano lo sguardo, che sollevò indolente verso di lui. Aveva le pupille così piccole da sembrare due capocchie di spillo: lo guardava con disprezzo, il mondo filtrava nelle sue orecchie e sembrava non riuscire nemmeno a sopportarlo. Le tremarono le spalle, le tremò il labbro, gli occhi stessi tremarono come fondamenta di una casa sotto ad un sisma.

Draco lasciò i suoi polsi, ebbe l’impressione quasi di scottarsi ed Hermione lo guardò tra la gratitudine e lo sconforto, mentre come un elastico rilasciato, le mani tornarono a cercare i suoi capelli, pronta a riprendere il movimento febbrile di poco prima.

“Granger… mi puoi aiutare?”.

Hermione si fermò, lo guardò sorpresa, spalancando gli occhi castani. Le labbra si dischiusero come se stesse trattenendo il fiato e le mani le scivolarono in grembo, chiudendosi su sé stesse. Aggrottò le sopracciglia guardandolo, le pupille che tornavano normali, il respiro che si scioglieva. Inclinò la testa di lato, studiandolo curiosamente, come se fosse la prima volta che lo vedesse. Draco seguiva la vena del suo collo che pulsava sotto la pelle bianca, non riusciva a sollevare il viso e non poteva nemmeno pensare di tornare a guardarla negli occhi.

Lei non parlò ancora. Non disse nulla, chiuse le labbra in un moto di difesa, irrigidendo la postura.

Draco sentì l’aria cambiare, distinse il calore allo stomaco, prima ancora di spiare il viso di lei.

Di percepire la piega ilare degli occhi, la pelle adesso rosea delle guance, le spalle distese.

Prima di vedere il collo che ancora si piegava nella risposta che la sua gola, adesso, non riusciva a dare.

Il mondo lo lasciava ancora fuori, Hermione Granger: le mani fremevano dalla voglia di negare ancora.

Ma Draco Malfoy, lei, lo lasciava entrare nella sua crepa: dicendo un sì muto, che valeva mille parole.

 

 

L’uragano ha il sapore del cedro e l’odore della vaniglia.

Anni dopo, Draco Malfoy, padre di famiglia, si sarebbe seduto in poltrona davanti ad un caminetto spento in una calda giornata d’estate: un libro sulle ginocchia, un cane accoccolato ai suoi piedi, la finestra aperta sul mare.

Ed una figlia, bellissima, intelligente, curiosa, che sarebbe scesa dalla soffitta con un baule pieno di vestiti vecchi, chiedendogli se poteva farne qualcosa di consono ai giochi di una decenne annoiata.

Avrebbe sorriso ed avrebbe annuito, e lei si sarebbe drappeggiata addosso un tessuto che, ostaggio di anni passati, avrebbe rilasciato nel suo singulto nostalgico di dimenticanza da quarantenne, il profumo penetrante del suo Ottavo anno ad Hogwarts: cedro e vaniglia. Il sapore e l’odore dell’uragano.

Aveva vissuto nell’occhio del ciclone per nove mesi: attorniato dal vento che ronzava, si era solo beato di restare in vita. Il naufrago non si chiede da dove spunti l’isoletta salvatrice dove riposerà le membra, il minatore non si chiede da dove provenga la luce benefica che lo porterà in superficie, il terremotato non si chiede di chi sia la mano che lo tira fuori dalle macerie: la afferra e basta.

Lui, Draco Malfoy, il Purosangue, il Nobile, il Re di Serpeverde, aveva afferrato la mano piccola e tremante di Hermione Granger, la Mezzosangue, la stracciona, la Principessa di Grifondoro.

Era stata sopravvivenza, si sarebbe detto per settimane, iniziando questo ritornello la sera stessa in cui, in un corridoio deserto, lei gli aveva sorriso con gli occhi dopo che si era trovato a chiederle aiuto. Sopravvivenza, ecco, che fa l’uomo ladro e il Purosangue traditore di sé stesso: aveva una sola occasione di poter vivere una vita decente ed era Saint Suliac, inutile negarlo. Si sarebbe trasferito in Francia, lontano dalle voci continue sulla sua famiglia, avrebbe studiato Pozionistica in un ambiente ovattato e protetto, probabilmente ci sarebbe rimasto tutta la vita, avrebbe avuto il perdono giudiziale da ogni peccato, i suoi genitori avrebbe concluso l’esilio e magari sarebbero venuti a vivere in Francia anche loro. La strada era così evidentemente tracciata nel buio di tutto il resto che non seguirla sarebbe stato da idioti e da pazzi suicidi.

E la sua unica occasione era Hermione Granger. Non lo preoccupava l’Eccellente in tutte le materie, la sua media era notevolmente salita da quando non aveva alcuna distrazione da sé stesso se non studiare.

Ma lo preoccupava la pozione medica, sicuramente la Granger sapeva meglio di lui che cosa poteva fare buona impressione sulla commissione e sicuramente sapeva molte più cose di lui su quell’Accademia. Sapeva della sua esistenza, Hermione Granger, quando lui invece nemmeno sapeva che esistesse.

Quindi, pregno del suo egoismo, si era affidato a quella piccola povera pazza che chissà come e chissà perché, adesso, si dava pena di volerlo aiutare: non si era fatto domande Draco, non era un tipo riflessivo e non era nemmeno un tipo da scrupoli morali. Guardava Hermione Granger come si guardano i poveri derelitti dalla mente devastata, e non si era fatto alcuna domanda di alcun tipo nell’accettare, anzi nel chiederle aiuto.

L’orgoglio era una zavorra della gente che aveva la vita ricca e piena: lui, dal basso della sua mancanza assoluta di tutto, bè… ci poteva benissimo fare a meno. L’uragano berciava fuori di lui, pronto a spazzarlo via, e lui aveva solo scelto l’oasi che gli dava la maggiore calma e stabilità al momento.

Dopo mesi, non seppe nemmeno lui quanti, riconobbe a sé stesso che non aveva accettato l’aiuto di una persona qualunque, ma di Hermione Granger: non era stato che, con l’acqua alla gola, si era affidato alla prima mano vagamente meno ostile delle altre per trarne forza. No, aveva scelto Hermione Granger perché era Hermione Granger. Poteva chiedere aiuto ad un professore, poteva parlarne con i suoi, poteva scrivere ad un vecchio amico.

Non era così solo come amava definirsi e comunque ne aveva di voci diverse nell’esistenza da quella morta della Granger. Ma aveva scelto lei, perché di lei ci si fidava anche da nemici. Lei non tradiva, ingannava, mentiva mai.

Era una specie di ricovero dall’uragano, il più sicuro e il più adatto: lei si era fidata che lui entrasse a Saint Suliac al punto di suggerirgli quella soluzione e lui si era fidato che lei lo aiutasse, come se negli anni, negli scontri, nella guerra e nella pace, ogni schermaglia ed ogni silenzio fosse stato solo il sedimento per arrivare a quella fiducia strana e goffa tra due ruderi che, per tenersi in piedi, avevano solo che da reggersi alle macerie dell’altro.

Andava bene chiunque, poi andava bene Hermione Granger: ma Draco si chiese troppo tardi, nel freddo silenzio del suo egoismo ormai dissolto, perché andasse bene a lei.

Perché lei parlasse con lui, e solo con lui, perché lo aiutasse, perché persino si illuminasse insegnandogli.

Draco Malfoy era l’espiazione di Hermione Granger, ed era al contempo la cura per tornare sé stessa.

Draco lo avrebbe capito tardi, troppo: ed avrebbe capito che l’uragano non era la vita fuori, il terrore, la paura, il futuro rombante di promesse cupe ed incertezze annunciate.

L’uragano era lei, Hermione Granger, cedro e vaniglia da non dimenticarsi mai più.

 

 

Hermione Granger si annunciava prima con il suo odore: cedro e vaniglia. Prima arrivava una nota di testa aspra e pungente, come se richiamasse intimamente l’attenzione su sé stessa, poi arrivava la nota di cuore, fonda come un sospiro, dove lei sembrava chiedere scusa per aver troppo disturbato con la sua presenza.

Difficilmente, poi, a ciò seguiva un suono qualunque. Draco aveva imparato a sobbalzi e a sussulti quanto lei fosse diventata silenziosa: non faceva nemmeno rumore nel muoversi, persino i passi sembravano non sollevare polvere, scivolava come una pattinatrice sul ghiaccio e respirava di quiete come un fiore.

Non smetteva mai di muoversi, però: appena si sedeva nella stanza che aveva preparato per lei e per Draco, continuava ad attorcigliare un dito attorno ad una ciocca di capelli, o a muovere il piede con fretta sotto il tavolo, o a girare nervosamente le pagine alla ricerca di qualcosa.

Draco, spesso, la rimproverava borbottandole che non riusciva a concentrarsi: era come un rito, lei entrava, si sedeva ed iniziava ad agitarsi come una tarantolata. Lui sentiva il nervosismo crescergli nel fondo dello stomaco mentre leggeva e perdeva la concentrazione, che si disperdeva nel silenzio dell’aula deserta ed abbandonata.

Senza esitazione alcuna, sollevava lo sguardo, la guardava severamente ed ingiungeva: “La smetti, Granger?! Hai la compostezza di una bambina di cinque anni…”: questo se era di ottimo umore. Altrimenti paragonava il suo contegno a quello delle più immonde bestie sulla faccia della Terra che potevano venirgli in mente.

Hermione, nella maggior parte dei casi, inarcava un sopracciglio, metteva un broncio dispettoso e faceva ancora più chiasso, costringendolo a massaggiarsi nervosamente le tempie mentre malediceva il suo spirito martire e masochista. Notandolo, allora, Hermione si stringeva colpevolmente le spalle, metteva su un sorrisetto timido e si acquietava: voleva dire che era di buon umore. Se era poi di ottimo umore, e questo coincideva con le giornate di pioggia o di cattivo tempo, diceva anche qualche parola. Monosillabi, perlopiù, frasi mozzicate che sussurrava con voce greve. Uno scusami soffuso, un perdonami soffice, un mi dispiace quasi tenero.

Se era quasi felice, e se lui non l’aveva definita in modo diverso da bambina, lei motteggiava persino un Quante storie!  in tono ironicamente scherzoso: erano i giorni in cui, invece che indicargli sommariamente con l’indice i punti del libro di Pozioni che gli consigliava di memorizzare, si azzardava a dirglielo a voce. Faceva uno sforzo continuo per parlare, Draco se ne rendeva presto conto, anche se di solito prestava poca attenzione agli altri.

Ma con lei era difficile non accorgersi di qualcosa, figuriamoci: per questo vedeva le parole affollarle la gola, le vedeva premere come punte di lancia sotto la sua pelle, le vedeva mescolarsi al sangue e smaniare per uscire. Ma lei rimaneva parca rispetto ad esse, sembrava contarle in bocca e limitarle al minimo, le reprimeva dentro e le faceva uscire solo se andava bene effettivamente dire qualcosa, o lo trovava necessario ed utile.

Quando, poi, finiva di parlare, tendenzialmente faceva un sospiro profondo, come se si fosse stancata, come se ciò l’avesse lasciata esausta. A cena, poi, Draco l’avrebbe vista guardare il contenuto del piatto senza particolare attenzione, l’avrebbe vista fissare gli altri senza interesse, gli occhi spenti e l’espressione persa.

Nei giorni meno buoni, Hermione Granger non parlava affatto, non rispondeva, non faceva il benché minimo rumore e non si muoveva per nulla: accadeva spesso quando c’era il sole, o se faceva caldo, e soprattutto all’approssimarsi della notte. Diventava una statua di sale, la mano sotto il mento e lo sguardo congelato. Tentava spesso anche di ripetere il siparietto della negazione febbrile con la testa, ma Draco la fermava sempre, specie da quando aveva scoperto che, in quei momenti, tendeva anche a farsi male con le unghie della mano, graffiandosi il viso. Sangue come cura ed espiazione. Le separava i polsi, glieli tratteneva tra le mani e la rimproverava duramente.

“Smettila Granger… lo sappiamo tutti e due che non sei pazza… quindi non credere di darmela a bere che non attacca…”. Se lei continuava, spesso si alzava e se ne andava. Le prime volte, lei era rimasta lì, seduta sulla sedia, le mani nei capelli. Dopo, nelle settimane successive, aveva preso a rincorrerlo nel corridoio.

“Scusami…” sussurrava mesta, guardandosi le mani che si torceva “Mi dispiace, per favore, non te ne andare…”.

La prima volta in cui lei lo aveva seguito, l’aveva lasciata lì adirato ed offeso dal suo comportamento sconsiderato, come se ancora si ostinasse a difendere il sangue che nelle sue vene rimbrottava di una purezza che era diventata, oggi, solo peccato e colpa. La seconda volta, l’aveva sorpassata nervosamente, tornando nella aula del quinto piano dove si incontravano ormai un pomeriggio sì ed uno no. La terza volta, l’aveva guardata di sfuggita negli occhi bassi, si era beato del rossore vergognoso sulle guance e si era sentito potente, in grado di costringerla a chiedergli scusa. E la quarta volta, invece, una finestra dispettosa si aprì, riversando la luce del sole morente sulla pelle del viso di lei: Hermione strizzò gli occhi, gli stropicciò piano come se si fosse appena svegliata e non riuscì a nascondere quel tremulo accenno di pianto che sapeva sempre reprimere nel fondo dei suoi occhi, nei giorni di sole.

Fu come la luce di un riflettore, che la ritagliò dallo spazio bianco dove Draco l’aveva sempre relegata.

Ebbe colore, foggia, peso: fu di nuovo Hermione Granger, non la pazza ragazzina che stava solo sfruttando in mancanza di alternative. Fu una rivelazione da perderci il capo e il senno: improvvisamente, come se tutto adesso fosse diventato incommensurabilmente pesante, la vide davvero e di nuovo.

L’amica di Potter, la fidanzata di Weasley, quella che entrava in Sala Grande scortata dalla Piattola che la teneva sempre un braccio, come se fosse invalida e non riuscisse a camminare. Quella che si sedeva a tavola con quelli che regolarmente lo braccavano, quelli che oramai non lo picchiavano più perché lei sapeva, ma comunque gli rendevano la vita un inferno non toccandolo neppure. L’eroina del Mondo Magico, la strega più brillante della sua generazione, la Mezzosangue zannuta. La Granger. Hermione Granger.

Si stropicciava gli occhi Hermione, ed un braccialetto d’argento tintinnò al suo polso. Draco lo fissò spaesato, come se fosse la cosa più importante del mondo, una vertigine che gli annebbiava i sensi.

Una catenina sottile, a maglie larghe, un ciondolo smaltato di rosso. Un cuore, due lettere. H… R.

Due immagini si sovrapposero su di lei: quella del nome e quella del viso. Il nome che lei continuava ad avere, il destino che continuava ad avere, le parole che continuava ad indossare, parole altrui d’accordo, ma parole che non potevano nemmeno avere traccia impercettibile nel suo vocabolario. E poi l’immagine del viso.

Gli occhi sgranati, spaventati, dolcissimi, marroni come i pomeriggi d’autunno. I capelli scarmigliati, annodati, legati, ma mai quando stava con lui, perché aveva bisogno di qualcosa su cui distrarsi mentre li tormentava con le dita. Le spalle magre, ossute, spesso piegate, e che in quel momento tremavano. Il corpo esile, leggero, come quello di una farfalla dalla vita giornaliera. Le mani intrecciate, sporche di inchiostro. La bocca rotonda, con le labbra serrate ed un sospiro sfuggito sempre per caso.

La vide per la prima volta, la rivide finalmente, o forse tutto assieme: ebbe coscienza, di nuovo, di chi era, comprendendo finalmente che non la conosceva affatto. Si era affidato a lei, perché era lei, non perché fosse una tra le tante. Ne ebbe terrore, enorme, smisurato, al punto di voler fuggire e non tornare mai più indietro.

Ed invece fece solo un passo, o così gli parve, ed invece forse ne fece due, perché lei era più vicina, o forse ne fece troppi, perché lei improvvisamente era davanti a lui, piccola, sottile, pronta a spezzarsi in mille pezzi.

Ad un respiro da lui, Hermione si mordicchiò il pollice, i denti affondavano nella carne cercando di aprire un varco per il sangue. Draco chiuse la sua mano tra le sue, la strinse forte. Hermione, tremante, poggiò la fronte sulle loro mani intrecciate, chiuse gli occhi, respirò come se le mancasse l’aria.

“Perché sono qui, adesso?” chiese Draco sgomento, guardando la massa informe dei suoi capelli “Perché mi aiuti? E perché fingi con tutti di non poter più parlare… mentre invece lo fai ancora?”.

Attese forse ore, forse minuti, forse secoli ed anni. La luce si spense, il sole tramontò e la luna ricomparve nel cielo, ammantando di diamante le pietre bianche del corridoio.

Senza nemmeno muoversi, senza mai lasciare le sue mani, Hermione sussurrò a fatica: “Tutti sono sempre pieni di domande. Mi fanno ammattire. Vogliono risposte, vogliono che io parli, vogliono che io mi spieghi… ed io non voglio”.  La voce della Granger era un rantolo confuso, le sue mani tremavano in quelle di Draco come se la scuotesse il vento e lei non fosse null’altro che un ramoscello secco.

“Non parli più… solo perché non vuoi rispondere alle domande?” chiese Draco scettico, guardandola dall’alto in basso, il calore delle mani di lei che ancora gli dava l’impressione di scottarsi. Strizzò gli occhi per metterla a fuoco in quel corridoio buio e deserto, non c’erano luci di nessun tipo, né fiaccole. Avevano scelto quell’aula per quel motivo, era un’ala del castello abbandonata dalla guerra, c’erano stati dei crolli e non ci si era dati ancora da fare per la ricostruzione. Nessuno li avrebbe cercati lì. Adesso, Draco quasi voleva che li cercassero, quasi voleva che lo strappassero da lì, quasi voleva che ci fossero migliaia di voci a nascondere quella di lei.

Dal basso, risuonò un suono gutturale, sordo, animalesco: lei che soffocava una risata triste.

“Deve essere più complicato di così, no?” disse lei argentina, eppure così maledettamente triste che Draco poteva contare ogni lacrima repressa nella sua voce. Finalmente lei sollevò lo sguardo, lasciando le sue mani. Nel buio, Draco non la vedeva più, non ne distingueva il minimo tratto, era come sparita. Lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, la punta delle dita che bruciava ancora era la sola cosa che gli faceva credere che lei c’era stata e forse c’era ancora, lì, davanti a lui.

Hermione respirò a lungo, come se fosse appena riemersa dall’acqua, prima di aggiungere incolore: “Tu non mi hai mai chiesto nulla… per questo parlo con te… non ti interessa farmi domande e non sei convinto di potermi aggiustare… non te ne frega nulla di me, non mi vuoi bene, non mi apprezzi, né mi stimi. E io non ho bisogno di altra gente che mi ami e mi voglia bene: ho bisogno solo di non pensare a nulla. E tu mi consenti di farlo…”. Prese ancora fiato, prima di concludere con un filo di voce: “Sei una distrazione. Punto. Non sono altruista, forse non lo sono mai stata, sono egoista come te: a te non interessa chi ti aiuti, fosse anche che sia io? Bene, per me è lo stesso. A me basta non pensare a me stessa. Nessuno me lo lascia fare perché sono convinti che sia io ad avere bisogno di aiuto… a te non interessa aiutarmi, interessa solo che io aiuti te. E ciò mi fa sentire… uguale a prima.”.

Non la volle vedere per giorni, dopo quella confessione. Negli occhi annebbiati, che pure non l’avevano vista in volto nel buio di quel corridoio, era rimasta indelebile come se fosse scavata l’immagine di Hermione Granger.

Uguale a prima: Draco non si ricordava come era prima.

Certo, ne aveva ricordo, ma era un ricordo sbiadito, annacquato, sporco, che era convinto che non fosse reale. Pochi particolari gli ridavano la dimensione di quella che lei era davvero prima, particolari minuscoli che ritagliava a forza dall’immagine sbagliata che preservava di lei.

Si ricordava il sorriso acceso che aveva quando qualcuno le chiedeva spiegazioni, si ricordava come arricciava il naso quando qualcuno sbagliava una risposta, si ricordava che una volta aveva detto che voleva fare l’insegnante.

Sezionava quei particolari con la perizia di uno che fa un’autopsia su un cadavere, gettava pezzi morti di lei altrove così da capire che cosa davvero lei cercasse di sé stessa, stando con lui.

Non cercava la presunzione spiccia di chi è sempre dalla parte giusta, non cercava l’orgoglio smisurato che le dava la sua Casa, non cercava il coraggio spavaldo di chi si crede padrone del mondo, non cercava nemmeno l’idealismo sfrontato dell’eroina di guerra. Cercava altro, cercava la sua stessa più piccola, più misera, più nascosta. Quella che aiutava, senza pretendere nulla in cambio, e quella che sapeva insegnare, e che magari cercava così di costruire il suo futuro. Cercava il solo filo rosso intonso che l’avrebbe legata alla sua sé stessa futura, all’unica che adesso volesse essere: quella che, con la guerra, non c’entrava niente, quella che, con la magia, non c’entrava niente.

Quella che forse c’era sempre stata, ma che adesso voleva disperatamente tornare ad essere.

Quel prima di cui lei parlava, Draco, lo capì subito. Non era prima della guerra, prima della morte, prima della voce cancellata. Era un prima ancora più ancestrale, ancora più vecchio, ancora più antico.

Si riferiva a prima di sé stessa, si riferiva a prima di Hogwarts stessa, si riferiva a prima della magia stessa.

Quando era solo una babbana, ignara di tutto.

Draco capì improvvisamente molte cose, tutte assieme, come una nebbia confusa che adesso si diradava.

Stavano cercando la stessa cosa, la stessa identica cosa: l’assoluzione. Che passava dallo smettere di essere sé stessi. Lui sarebbe andato in un posto dove nessuno lo conosceva e dove avrebbe potuto ricominciare. Lei cercava di dimenticare ogni traccia che quegli anni le avevano lasciato, inseguendo e ricordando il sogno che aveva da bambina, prima della magia, prima di tutto: fare l’insegnante.

Se lo consentivano a vicenda, l’uno implorava l’altra di dimenticarsi chi erano prima. E funzionava.

Incomprensibilmente, funzionava.

Per questo, lei con lui parlava, nonostante fosse Draco Malfoy.

Per questo, lui si faceva aiutare, nonostante fosse Hermione Granger.

Perché, quando erano assieme, non avevano più alcun nome.

Solo tempo, respiro ed innocenza di persone innominate.

 

 

La chiarezza sarebbe arrivata dopo, senza di lei, così come la comprensione e la certezza. Avrebbe avuto il profumo di un’estate fresca, dal sapore acerbo e sconosciuto, gravida di promesse e estranea alle minacce. Avrebbe avuto il colore dei suoi diciannove anni, un’età in cui tutto ancora era concesso e perdonato, anche a lui, ma avrebbe avuto ancora dentro di sé lo strazio della perdita, il rimpianto della mancanza e la dissoluzione sfilacciata della speranza: ma tutto quello era mitigato dal miscuglio dolceamaro di pienezza nel sapere di aver fatto la cosa giusta. Non sarebbe stata una sensazione immediatamente comprensibile, visto che Draco non credeva mai di fare la cosa giusta, quanto piuttosto quella sbagliata, o quella obbligata, o quella facile, o tutte e tre le cose assieme. Presto, però, ne avrebbe assaporato il sollievo friabile, che, anche quando ti sbrana il cuore che non sapevi di avere, almeno ti dà la consolazione di ergerti ad eroe immacolato e pulito.

Allora, Draco avrebbe riguardato indietro a quel suo ultimo anno ad Hogwarts ed avrebbe visto ogni giorno che si lasciava alle spalle: e solo allora, lontano dalla sua scuola e lontano persino da una parte di sé, sepolta a viva forza dentro il castello, avrebbe capito la dimensione di quello che era accaduto.

Perché, tutto in quell’ultimo anno, mentre lo aveva vissuto, gli era parso solamente un sogno. Aveva la stessa consistenza lanosa e stopposa, la stessa sensazione immobilizzante di sabbia mobile, la stessa inconsistenza eterea così che lui credesse che niente fosse reale. E solo allora, avrebbe trovato le etichette e le parole per descrivere quanto era avvenuto: solo quando fosse stato lontano da Hermione Granger, che aveva ammantato la sua stessa mente della mancanza di qualsiasi segno intellegibile. Aveva privato sé stessa delle parole ed allo stesso modo, aveva fatto con lui, costringendoli a nutrirsi solo di respiri, di sguardi, di tocchi, di sorrisi, ma mai di parole.

Tutto poteva essere, e niente poteva essere allo stesso tempo, e questo dava modo di considerare sopportabile starsi accanto se non avevano bisogno di mettere in chiaro niente, di definire niente, di trovare parole per niente.

Solo, quindi, mesi dopo, Draco avrebbe preso ogni giorno di quei mesi, trasformandolo in una parola.

All’inizio era stata la sopravvivenza, più o meno da ottobre a fine novembre: lui voleva entrare a Saint Suliac, lei sembrava disposta ad aiutarlo e Draco non aveva badato a nulla di diverso da questo. Era come un bambino che mangia: bastava trovare la pappa pronta e lui non avrebbe fiatato. La Granger aveva trovato un’aula disabitata al quinto piano, aveva sistemato un lungo tavolo di frassino, aveva portato due sedie, aveva iniziato ad ammonticchiare ad un lato del tavolo libri su libri, aveva scritto su una pergamena i punti che lui avrebbe dovuto memorizzare a menadito. Si ricordava con difficoltà il volto di lei, era come una meteora scintillante, prodiga di attenzioni a cui lui non badava; di quel mese e mezzo ricordava solo l’odore della carta e dell’inchiostro, la frustrazione di un concetto incomprensibile, il trionfo di un’improvvisa risoluzione, la speranza che cresceva.

Avrebbe detto che Hermione Granger era lì solo per il suo profumo, cedro e vaniglia; per il fatto che si muoveva troppo, se era di buonumore; per il fatto che era silenziosa come una morta, se era di pessimo umore; per il fatto che prendeva ad avere crisi di negazione, se stava male. Solo in quel caso, e solo perché lo disturbava, badava davvero a lei: la rimproverava, se ne andava, lei lo seguiva nel corridoio e diceva qualche parola.

Ma tutto, tutto, era così misero nella sua testa egoisticamente ingolfata da lasciare tracce di polvere lieve.

Poi era arrivata la fine di novembre, il raggio di sole dalla finestra e lei che torna ad essere Hermione Granger, e che al contempo gli appare così diversa da non sembrargli simile ad alcun volto visto sulla terra da quando era nato.

Lì, aveva ricordato che c’era. O lo aveva notato, o lo aveva finalmente appreso.

Lì, si era chiesto che cosa ci guadagnasse lei, che cosa volesse lei, che cosa cercasse lei.

Lì, per la prima volta, le aveva dato il fulgore dell’esistenza nella sua mente, solo questo.

Lei che voleva diventare insegnante e, stando con lui, se lo ricordava; lei che parlava con lui perché era il solo che non le faceva domande; lei che stava con lui perché non le voleva bene e non tentava di aggiustarla…

… tutto quello sarebbe venuto dopo, nell’estate dei suoi diciannove anni senza di lei.

In quel momento, capì solo che Hermione Granger esisteva e, per qualche strano caso, esisteva accanto a lui.

Già solamente quello, per Draco Malfoy, fu l’inizio del mulinello di vento che sarebbe diventato uragano.

Già solamente quello, solo la scoperta di quello, lo separò da lei fino quasi alla fine di dicembre.

 

 

Le feste di Natale furono veramente bastarde.

Che pochi sarebbero tornati a casa, era un’ovvietà. Tra quelli che avevano metà famiglia al cimitero e quelli che avevano metà famiglia ad Azkaban, già si potevano riempire due quarti della Sala Grande. Se poi ci si aggiungeva chi semmai non voleva tornare a casa perché aveva dei parenti vivi e presenti con il corpo, ma lontanissimi con la mente, oppure chi a casa comunque non ci tornava mai, o chi non aveva casa a cui tornare… bè, non fu ovviamente una sorpresa che a prendere il treno del ritorno furono solo pochi primini e una ventina di ragazzi più grandi. Tutti, intimamente, volevano scordarsi che era Natale, era una festa da lente d’ingrandimento perché ingigantiva ogni macchiolina miserrima che poteva esistere in un’anima, in una casa, in una famiglia. Ma, naturalmente, ai professori, alla neo-preside McGranitt, persino a Gazza, sembrava assurdo non festeggiare.

Gli adulti, i grandi, i saggi, avevano raggiunto la composta gratitudine di essere ancora vivi; i ragazzi, contrariamente a loro, conoscevano ancora la rabbia del lutto impotente e la tristezza esasperante del voler lasciare tutto immoto ed intonso. Perciò, ad ogni decorazione appesa, ad ogni canto intonato, ad ogni luccichio sospeso, ad ogni albero addobbato, gli adolescenti rispondevano con sbuffi di fastidio, se non addirittura con distruzioni gratuite. La Preside fu costretta persino a porre sugli addobbi degli Incantesimi Auto-riparanti.

La tristezza era come un miasma gelatinoso che annegava tutti, confondendosi nei piatti opulenti, nei dipinti lucidi, nelle luci sfavillanti, nel soffitto nevoso, nel cielo terso: non la si poteva ignorare e basta.

Draco Malfoy si accorse immediatamente della tensione che saliva nel castello: non era un buon segno. Tendenzialmente se la tristezza, il rammarico o il ricordo crescevano d’intensità, avrebbero trovato uno sfogo fin troppo semplice ed immediato. Lui. Saint Suliac sembrava sempre di più l’oasi nel deserto, dove inseguire finalmente la pace tanto agognata. Cercava solo di pensare a studiare, non guardava nessuno nei corridoi, a lezione si sedeva sempre in fondo, cercava sempre di andare in giro accompagnato almeno da qualcuno.

Aveva però enormi buchi di concentrazione, fittissimi; improvvisamente la sua mente diventava nera e lui non riusciva a pensare a nulla, lambiccandosi per ore sui particolari più cretini. Aveva appreso più o meno a memoria tutte le pozioni mediche più conosciute, si stava avventurando con quelle più complesse, ma sapeva che doveva elaborare quanto prima quello che aveva appreso per creare qualcosa di completamente originale.

E non sapeva se ne era in grado, da anni passavano l’esame quelli che creavano pozioni per squilibri mentali oppure per patologie cardiache, e sicuramente si trattava delle pozioni dai maggiori effetti collaterali e dalla più alta instabilità nella preparazione. E lui non ci aveva ancora minimamente messo mano in quelle già esistenti, figuriamoci se poteva crearne una propria. Trascorreva ormai le ore nell’aula deserta al quinto piano, una mano tra i capelli e tomi sparsi aperti davanti a lui, di cui non riusciva a ricostruire nemmeno un ordine logico da cui iniziare. Doveva passare dalla teoria alla pratica, adesso. E non aveva la minima idea di come fare.

I giorni passavano leziosi e pigri, senza che lui riuscisse a fare nulla. Incapace di trovare una soluzione qualunque, era vittima degli scatti più improvvisi e delle volizioni più immediate ed incomprensibili. Era seduto in classe e, repentinamente, aveva voglia di giocare a Quidditch ed aveva l’impressione che se non avesse immediatamente preso una scopa, sarebbe morto. Poi la voglia passava, e sprofondava ancora nell’apatia.

Si ritrovava a camminare per il parco o per Hogsmeade alle ore più disparate, i passi strascicati e lenti, e poi improvvisamente veloci, sfreccianti, incalzanti se veniva colto dalla voglia di tornare al chiuso.

Fu per quello che si ritrovò al binario della stazione di Hogsmeade la sera del 15 dicembre, nel momento in cui coloro che decidevano di tornare a casa per le vacanze prendevano il treno. L’aria era fredda e stagnante, lui si era dimenticato la sciarpa e il cappello, eppure non ne voleva sapere di tornarsene indietro. Si era lasciato cadere su una panchina vicino al binario, malamente illuminata da una luce tremula. Guardava un cespuglio davanti a lui dalle foglie rade e secche, con l’improvvisa tentazione di appiccargli fuoco. Ogni tanto, senza premeditarlo, la sua testa si sollevava e guardava distrattamente la folla di ragazzi che partivano, seguendo abbracci e spiando carichi di bagagli. Sbuffava nel guardarli, poi tornava al suo cespuglio, il respiro affannato.

“Ed allora mi consentirai di dirti che te l’avevo detto!” una voce argentina, acuta, insopportabile, gli ferì le orecchie, costringendolo ad una piccola e buffa capriola per restare seduto. Si appiattì maggiormente sulla panchina, tentato dal pensiero di alzarsi e di allontanarsi, l’aria della notte che si chiudeva attorno a lui. Ma invece riuscì solamente a ruotare di poco il viso, guardando le ultime due figure che avanzavano sotto la pensilina del binario, muovendosi velocemente. La prima catturò tutta la luce del lampione mezzo fulminato, rilucendo come una fiamma d’autunno, mentre camminava a passo sostenuto e si trascinava un grosso baule.

Draco non la guardò neppure per un secondo, voltò quasi il viso infastidito.

Poi, ancora, tornò indietro con gli occhi, osservando con lentezza la seconda figura che avanzava piano, non facendo il benché minimo rumore, come se nemmeno respirasse. Se non fosse stata per la nuvola di vapore acqueo che sfuggiva dalle labbra rosse e screpolate, l’avrebbe detta un fantasma senza riposo.

Un cappello dalla buffa forma di fagiolo calato sul capo, in lana cotta color prugna, i capelli seminascosti ed arricciati in onde disordinate sul panno del cappotto nero, l’andatura annoiata e stanca, il corpo dimagrito.

E gli occhi nascosti dai capelli, mentre si portava le mani alla bocca, soffiandoci sopra per riscaldarsi.

Draco si tirò bruscamente su a sedere, come se fosse stato punto da una vespa. Gli occhi annotarono senza precisa intenzione che Hermione Granger non aveva alcuna valigia accanto a sé, nessun baule. Niente di niente.

Non aveva l’aria affannata e contenta di chi sta tornando a casa dal proprio amichetto del cuore e dal suo fidanzatino straccione: aveva un’espressione rassegnata, sollevata quasi, le occhiaie che le circondavano gli occhi.

E si è dimenticata i guanti, adesso avrà le mani fredde. O forse lei le ha sempre calde, caldissime, come se avesse la febbre?

La Weasley, arrivata davanti al treno e spinto dentro il baule, l’abbracciò di slancio circondandola con le braccia. Hermione fece un sorriso strano, storto, sghembo che soffocò dentro i capelli della sua amica, limitandosi a poggiarle fraternamente una mano sulla spalla. Draco fu sicuro di aver visto dentro i suoi occhi un luccichio quasi di impazienza, come se volesse solo correre via.

“Sei sicura che non vuoi venire, allora? Che ci farai qui tutta sola…” commentò la Weasley con tono fioco, come se avesse ripetuto la cosa mille volte. Per un attimo lo sguardo della rossa si eclissò, cercò qualcosa nel volto della Granger come se fosse alla ricerca di un pezzo stonato, di una macchia, di una ruga rivelatrice.

Hermione sospirò e basta, non fece altro, e Draco stupidamente si chiese se non fosse arrabbiata, se non avesse semplicemente litigato con la Weasley e non le parlasse più. Poi, come un fulmine, ricordò.

Se la rivide di nuovo davanti, dorata, illuminata dal sole, che si stropicciava gli occhi. Il calore di quel ricordo d’autunno gli penetrò nelle ossa, facendolo sentire accaldato nel mezzo della notte più gelida dell’inverno inglese.

Tu non mi hai mai chiesto nulla… per questo parlo con te…                                                                                                                             

Con la Weasley non parlava, con nessuno parlava. Se ne era dimenticato, abituato com’era e come negava di essere a sentire la sua voce nel cervello quindici volte al giorno. E come aveva scoperto solo in quell’istante, solo quando la Weasley partì abbracciandola ancora, solo quando la Granger si accorse di lui e lo guardò per un attimo, immobile, gli occhi spalancati, le mani chiuse a pugno e il volto livido, come se gli avesse appena tirato uno schiaffo. Draco le restituì uno sguardo stanco, incomparabilmente colmo di tristezza pigra, di acredine dissimulata, di confusione sconvolta, di malinconia stantia.

Si preparò a sentirla parlare, si preparò a vedere le parole premere contro la sua gola, si preparò a che lei lo facesse sentire speciale ed unico al mondo, pure nel suo inutile, pazzo e goffo modo.

Si preparò inutilmente.

Quando ebbe il coraggio di riaprire gli occhi ed alzare lo sguardo, Hermione Granger era già andata via.

 

 

Se lo sarebbe dovuto aspettare, ma invece non l’aveva fatto.

Quando aveva varcato il portone d’ingresso, avrebbe dovuto rendersi conto che non c’era nessuno nell’androne, che Gazza era disperso e che le porte scricchiolavano come in un pessimo film dell’orrore. Avrebbe dovuto notare l’aria infinitamente più gelida che all’esterno, avrebbe dovuto collegare la partenza dei pochi fortunati per le vacanze all’aumentare dell’angoscia per chi restava, avrebbe dovuto capire che lui sarebbe stato il perfetto sfogo rapido e potenzialmente indolore. Ma Draco Malfoy, invece, non si accorse di nulla, entrò nel castello a testa bassa, occhi sulle mattonelle grigie e nere. Nelle crepe del pavimento, baluginavano continui ed intermittenti riflessi oro di pomeriggio d’autunno e nelle orecchie avvertiva l’eco malsano di parole che non riusciva ad intendere. Non si accorse nemmeno del dolore, di primo acchito si rese solo conto che le mattonelle erano sporche. Rosso. Rosso sangue. Rosse del suo sangue.

Avvertì solo allora la prepotenza lacerante del colpo subito: alla testa, alla nuca, alle spalle, come non si addiceva ai suoi nobili aggressori. Ergo, non erano Grifondoro. Ergo, non erano Tassorosso o Corvonero.

La vista che veniva meno, una mano stupida a constatare l’entità del danno, il sangue che schiumava tra le sue dita, capì che quel giorno la tristezza era trasversale. Colpiva anche chi, di solito, era lontano miglia di presunzione da essa. Ed anche un Serpeverde poteva odiarlo come lo odiavano tutti gli altri.

Perché i suoi genitori erano in esilio, e non morti, catturati, torturati, imprigionati.

Perché erano sempre stati una mattonella grigia, in un mondo dalla pavimentazione bianca e nera.

Una cortina scura calò sulle sue iridi, mentre sentiva altri colpi ferirlo alle gambe, alle braccia, al busto, sulla schiena. Rinunciò preventivamente alla difesa, sapendo che sarebbe durata poco.

Ad un Serpeverde non sarebbe interessato nulla di preservarlo presente a sé stesso.

Finalmente, almeno per una volta, avrebbe perso i sensi.

 

 

Da quando aveva smesso di farsi male da solo, le ferite altrui facevano infinitamente più male. Gli sembrava di essere avvolto da un unico e potente rogo, che lo stava ardendo come il frammento di una corteccia di un albero. Non riusciva a localizzare il dolore, a capire da dove provenisse, sembrava nascere dall’interno di sé stesso e trovare sfogo su ogni centimetro quadrato della sua pelle. Si sarebbe staccato gli arti a morsi, pur di farlo smettere: ogni refolo d’aria, ogni soffio di vento bruciava il sangue come sale sulle ferite. Sotto la sua schiena martoriata il pavimento era duro come la lapide di una tomba vergine, cercava di muoversi ma non riusciva nemmeno ad aprire gli occhi. Sentì delle voci, ovviamente, ma passavano oltre, lontane, non curandosi di lui. Gemeva, implorava, ma probabilmente lo avevano lasciato in un posto dove nessuno lo avrebbe trovato. Invocò l’incoscienza che non arrivava, maledisse la tempra del corpo che lo manteneva vigile al dolore, imprecò contro sé stesso, il suo sangue ed il suo nome. E non l’aveva mai fatto.

Vite dopo, anni dopo, secoli dopo, avvertì improvvisamente un respiro fresco accanto a lui. Trafelato, affannato, persino singhiozzante. Pensò che stava finalmente per perdere coscienza e che, in regalo, stesse avendo uno scatto d’immaginazione, una visione dolce come un Caronte onirico improvvisato che gli rendesse tutto quasi leggero.

Sentì il calore di una mano sottile sul viso, era una mano tiepida che però lo rinfrescava come acqua sorgiva, poi ancora udì l’eco spezzato di un singhiozzo ed un accenno di pianto. Una sola parola.

“Draco…”. Il suo nome: aveva una voce lieve, da passero, da donna, da principessa delle fiabe; una voce, però, incommensurabilmente triste, da vecchia, da morta, da vittima murata viva.

Sentì il tocco di una bacchetta sulla fronte, la sensazione quieta del dolore che si calmava, quella mano sempre sul suo viso come l’ancora di salvezza mentre annegava nell’oblio.

La nozione di sé stesso sparì un attimo prima di respirare a pieni polmoni l’odore del suo salvatore.

Cedro e vaniglia.

 

 

Troppo rosso: fu la prima sensazione che provò al risveglio. E a lui il rosso faceva venire l’emicrania. Specie quel rosso. Il rosso dei Grifondoro, il rosso dei Weasley, il rosso del sangue maledetto che sgorgava dalle ferite.

Draco credette subito di essere diventato daltonico, a causa di un trauma cranico subito. Il baldacchino del suo letto sembrò infatti rosso, da verde quale era sempre stato. Non se ne preoccupò, richiuse gli occhi grigi stanchi e cercò di riprendere sonno. Ma i sensi si erano risvegliati, tutti, uno dopo l’altro. E se la vista la poteva ingannare, gli altri non erano dello stesso avviso.

Il sapore del sangue, in bocca, riecheggiava come l’eco sordo di un passato non troppo lontano. Sapeva di ferro, di metallo, dell’ennesima umiliazione subita e non ancora, non mai, lavata via. Ad esso, si accompagnava un senso generale di spossatezza, ma nessun dolore, solo fastidio.

Il tocco di cotone sulla pelle, nei punti dove aveva sentito più male: attorno alla testa, al ginocchio, sulla schiena. Fresco come un vento di primavera, gli dava la sensazione di pulito, di casa, di cura sollecita e materna che non sapeva nemmeno riconoscere. Sotto le sue mani, stese pigramente, sentiva la superficie morbida di un copriletto caldo, di lana, soffice, che gli dava ancora una sensazione di calma e di pace.

Il gusto e il tatto furono ospiti graditi e poco molesti: poi venne l’udito ed infine l’olfatto, e quelli se ne fregavano di lui e di quello che poteva sopportare.

L’udito… sentì improvvisamente un respiro, quieto, dolce, spezzato. Una persona addormentata. Accanto a lui.

L’olfatto fu come un colpo sordo di cannone dentro il petto. Cedro e vaniglia.

Riaprì gli occhi quel tanto che bastava per trovare Hermione Granger vicina, troppo vicina, più vicina di quanto non fosse mai stata in tutta la sua esistenza. Voltando il viso verso sinistra, la vide distesa, la testa poggiata su un cuscino accanto al suo. La sensazione di calore al cervello fu così devastante ed immediata da fargli venire le vertigini, nonostante fosse disteso: era nella sua stanza, nella stanza della Granger, sul letto dove lei dormiva ogni notte. Il profumo di cedro e vaniglia gli apparve così intenso da soffocarlo.

Era distesa lì, addormentata, ad un respiro da lui. Non avrebbe potuto arrivare a distendere il braccio senza toccarla, erano solo una quarantina di centimetri. In posizione fetale, non portava il pigiama ma un maglione rosso ed un paio di jeans; era rannicchiata in sé stessa, un braccio piegato sotto il capo, un libro aperto accanto a lei. Il viso era sereno, quieto, tranquillo, i capelli ne coprivano una buona metà.

Draco avvertiva improvvisamente il dolore delle mille ferite che gli martoriavano il corpo. Bruciavano come se ci fossero conficcati degli spilli, che gli impedivano di muoversi e lo tenevano ancorato a quel letto come un insetto infilzato e posto in esposizione. Lei lo aveva trovato, lei lo aveva curato, lei si era addormentata accanto a lui.

Gli occhi saettarono in ogni direzione, terrorizzati, cercando di evitarne la vista, e si saturarono dei particolari della vita nascosta di Hermione Granger. Una quantità abnorme di libri, sparsi dappertutto ai piedi del letto. Una sciarpa azzurra, poggiata su una sedia. Fotografie incorniciate sul comodino, con Weasley maschio e femmina, e con Potter. Stava per vomitare, se ne doveva andare immediatamente.

Fece forza sulle braccia per tirarsi faticosamente a sedere, riuscendoci con sforzo. Lei non si mosse. Poggiò i piedi per terra, si alzò in piedi e calcolò quanta distanza lo separava dalla porta e quanto potesse muoversi senza fare rumore e senza svegliarla. I cardini della porta erano vecchi, avrebbero cigolato, ma magari lei comunque non si sarebbe svegliata, magari era stanca. Doveva esserlo per forza, chissà come lo aveva portato fin lì.

Fece un passo lento, silenzioso, assorbito dalle pietre delle pareti, sospirò di sollievo nonostante il dolore sordo agli arti inferiori, ma poteva arrivare alla porta, poteva tornare ai sotterranei, poteva lasciare la stanza senza badare alle bende, alla bacinella con la pozione Guaritrice sul comodino, alle occhiaie violacee sul viso di Hermione, alla sua voce lieve che nella sua testa continuava a dire il suo nome come quando lo aveva trovato.

Aveva la mano sulla maniglia, aveva il cuore già al sicuro nel suo scantinato confortevole, aveva già il respiro sciolto di uno che era al sicuro. E poi lei fece un singolo, solitario, minuscolo verso. Di gola, profondo, gutturale, come se stesse annaspando, a cui seguì un singhiozzo, forse qualche lacrima.

Draco smise di respirare quando si accorse che, in una botta di annebbiamento, era tornato indietro. Veloce, rapido, come se nemmeno avesse bisogno di dare impulso alle gambe e di accorgersi di qualcosa.

Ed era di nuovo steso accanto a lei, vicino a lei, sul cuscino accanto a suo, nell’alone di cedro e vaniglia che lei si lasciava alle spalle. Avrebbe detto che era stanco e voleva riposare ancora un po’, ma non era riuscito a mentire.

Non aveva potuto.

Perché anche la sua mano destra era scattata da sola e se ne era accorto solo per il dolore sordo, lancinante, che aveva provato al fianco sinistro, mentre si voltava verso di lei e faceva leva su un livido bluastro.

La mano destra era scattata come un elastico rilasciato, senza il benché minimo controllo, ed era corsa al viso della Granger. Draco, terrorizzato, si era visto accarezzarle piano i capelli con il pollice, mentre la mano restava ferma sulla sua nuca. Non poteva farne a meno, non poteva nemmeno pensare di non stare lì a calmarla, a vedere il respiro di lei che piano tornava normale, a poggiarsi su quel fianco maciullato che lo faceva gemere ad ogni fiato. Le dita continuavano piano ad accarezzarla, Hermione dormiva ancora e lui si ricordava di quanto, da bambino, i suoi amici lo sfidavano a “tocca il babbano” e perdeva sempre.

Adesso lo dovevano sfidare a “non toccare la babbana” per farlo perdere.

Hermione, piano, aprì gli occhi e lo trovò lì, di fianco a lei, gli occhi grigi sgranati e la mano intenta in quella carezza lenta, calda, dolcissima. Lesse il suo imbarazzo, lesse l’impaccio, lesse quello che lui voleva dirle e lesse quello che non avrebbe mai detto. Una spina sorda la colpì al petto, costringendola a chiudere gli occhi.

“Puoi andartene quando vuoi…” sussurrò Hermione con un gemito sordo, non sentiva la sua voce da quando gli aveva parlato l’ultima volta e stranamente non la riconosceva “Non devi stare qui, per forza…”.

La mano di Draco si fermò, si staccò da lei e riposò fredda lungo il fianco.

Un attimo dopo, lui era nei sotterranei, nel suo letto verde, nell’asettico odore di silenzio, nell’asfittica sensazione di vuoto e di spento. Aveva solo un compagno, un solo pensiero, un solo singolo movimento dei ragionamenti sotto le palpebre chiuse. Hermione Granger è un derelitto, una pianta ornamentale, un’isterica Mezzosangue pazza.

E mi salva sempre.

Dalla prigione, dalla disperazione di non avere un futuro, dai pestaggi. Persino da me stesso, se improvvisamente mi accorgo di lei al punto tale da non riuscire a fingere di ignorarla.

Hermione Granger lo salvava sempre.

E non aveva ancora finito.

 

 

Il giorno di Natale ad Hogwarts erano due le storie che si ripetevano di bocca in bocca.

Ben più dei regali ricevuti, degli auguri mancati, dei baci scambiati.

Una, la prima, sconcertava solo per il numero.

La Preside McGranitt aveva sospeso ben cinquanta studenti, senza che emergesse un ben preciso disegno nella punizione. Erano Grifondoro e Serpeverde, studenti all’ultimo anno come al secondo, terzo, quarto e così via.

Un treno apposito li riportò a casa, livorosi, incattiviti, increduli.

Nessuno seppe il perché e nessuno lo chiese loro, ma ognuno di quelle facce recava il segno della consapevolezza di cosa li portava a quelle vacanze forzate.

L’altra, la seconda, sconcertava e basta.

Hermione Granger, la muta, la pianta ornamentale, il derelitto per eccellenza, aveva parlato.

Si sapeva solo che aveva parlato con la McGranitt, non si sapeva di che cosa avesse parlato, non si sapeva altro. Arrivarono lettere su lettere a lei dei suoi amici, la gente nei corridoi la interrogava selvaggiamente, i professori facevano a gara per fermare il placcaggio sulla ragazza, mentre tutti concludevano che il voto del silenzio era imposto, non era collegato a nulla di fisico.

I due canti di Natale di Hogwarts rimbalzarono come biglie impazzite nelle orecchie di tutti fino a Capodanno.

Solo Draco Malfoy, vedendo chi era che partiva dopo essere stato sospeso, aggrappandosi ad una colonna della stazione, comprese il collegamento tra le due storie.

Aveva appena ricevuto il suo regalo di Natale da parte di Hermione Granger.

 

   
 
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