Hermione Jane
Granger non parlava.
Ossimoro.
Hermione Jane
Granger era tutta voce. Scioglieva
come zucchero in una camomilla ambrata, sé stessa dentro le parole che amava
cullare nella gola, per poi farle fiorire sulle labbra, sfuggendo la barriera
dei denti.
Hermione Jane
Granger era nulla di più che una voce
nei suoi ricordi, un ronzio che non sentiva mai davvero, come un aggeggio babbano
che ha sentito chiamare radio. E lui
manco si chiede come faccia quella voce a viaggiare lontana per lo spazio, fino
a ferire le sue orecchie, come lo stridio di un’unghia su una lavagna.
Lo irrita, lo
infastidisce e tanto basta. Tanto basta.
Tra l’altro, è una
cosa babbana, quindi le domande non se la fa nemmeno. La guerra e la pace, come
due patetici attori che si alternano sul proscenio della sua vita relegandolo a
comparsa, hanno imposto che lui non pensi più gli insulti, ma da qui a mettersi
a fare anche domande, ne passa di acqua sotto i ponti.
Crede, poi, di non
aver nemmeno il diritto di fare domande. Non glielo hanno dato, lui non l’ha
chiesto e tanto basta. Tanto basta.
E poi, quella cosa,
quella radio, un giorno, smette di brusire.
E il silenzio
continua a ronzare. Eco, ricordo, fischio? Non ha diritto di fare domande.
Hermione Jane
Granger non parlava, ma guardava.
Uno sguardo di agata
dura, screziato di schegge. Le ciglia lunghe, nere, un po’ umide a causa del
sudore di quella calda mattina di settembre, restavano arcuate attorno al
bianco degli occhi fissi davanti a sé. Non si era mossa di un millimetro, era
rimasta seduta sul letto sfatto dell’infermeria abbracciandosi le ginocchia,
come quando lui era entrato. Se si fosse messa a spingersi con la schiena,
Draco l’avrebbe scambiata per una di quelle ridicole bambole, relegate per
sempre su una sedia a dondolo ad imitare divertimenti finti e fasulli.
Invece, lei aveva
appoggiato il mento su un ginocchio, piegato la testa di lato, mentre i capelli
le scivolavano su una sola spalla. Crespi, spettinati, opachi, erano malamente
legati da un nastro beige.
Hermione Jane
Granger non parlava, ma guardava. Era lui
che guardava.
Lo esaminava con
goffa attenzione e negletta diligenza, senza nemmeno sbattere le palpebre, come
se le si fossero pietrificati i bulbi oculari. Solo un raggio di sole fendé
come un giavellotto la quiete ambrata dei suoi occhi, costringendoli a
chiudersi di scatto, infastiditi. Perse quasi l’equilibrio, si aggrappò con una
mano al lenzuolo, stringendolo forte tra le dita. Il maglione traforato le
coprì le mani, sembrava ballarci dentro.
Quando riaprì gli
occhi, Draco era uscito dall’infermeria, sistemandosi meglio le bende attorno alla
fronte.
Il corpo è una magia.
Draco sapeva
perfettamente che i tagli sull’avambraccio sarebbero guariti in qualche giorno;
la pelle si tendeva prima, pulsava e sanguinava, poi avrebbe vomitato una
crosta ruvida come carta vetrata che avrebbe difeso l’epidermide neonata che
andava formandosi. Un’epidermide neonata, ma decrepita, che portava già il colore necrotico del stillicidio suicida
che si stava autoimponendo. Si mise a giocherellare nel buio con le sue ferite,
sperando come un bambino sciocco che la pelle, sotto la crosta, fosse liscia,
pura, intonsa. Nella semioscurità dei sotterranei di Serpeverde, gli parve che
il braccio venisse quasi inghiottito da quel buco nero come un pozzo, dalle
fogge di un teschio che vomitava un serpente.
Draco sapeva che i
tagli sull’avambraccio sarebbero guariti in qualche giorno. Era quasi un
contrappasso: quello che lui faceva per sé stesso, non lasciava mai alcuna
traccia. Allo stesso modo sapeva che i lividi invece sembravano non assorbirsi
mai. Diventano violacei prima, poi quasi neri, ed infine scoloriscono, macchie
di un giallastro malato.
E spariscono, ma non
scompaiono. Spesso Draco, urtando qualcosa, sentiva ancora male. Al ginocchio,
sulla spalla, sullo sterno. Una costellazione di segni neri, sul suo corpo
bianco, cielo al contrario.
Il corpo è una magia.
La bestia braccata
imparava ritmi ed orari e li convertiva in respiro, in strette alla bocca dello
stomaco, in capogiri e nausee. Come la lepre odorava l’erba e sentiva la volpe,
Draco sapeva che l’orario giusto per uscire dalla sua camera ed andarsene in
giro era tra le venti e le ventuno.
L’orario della cena
nella gremita Sala Grande.
Poteva passeggiare
da solo per i corridoi vuoti, raggiungere i cortili interni bagnati dalla luce
della luna, sostare nelle aule deserte senza incontrare nessuno; dopo, un elfo
compiacente gli avrebbe fatto trovare degli avanzi nella sua camera. Li avrebbe
divorati, senza fame, solo per sopravvivenza, e sarebbe andato a letto.
Quella sera, uscì
dalla sua stanza nei sotterranei, il passo lieve come una nebbia di vento;
nessuna pietra o asse scricchiolava al suo passaggio. Ad ogni eco di voce che
veniva catturato e rifratto dalle pareti, Draco si acquattava contro il muro,
le scapole magre che ansimavano al contatto con la pietra fredda, nonostante
portasse una camicia ed un maglione. Riconoscendo primini, altri Serpeverde,
qualche Tassorosso, una decina di Corvonero e nessun Grifondoro, Draco
respirava di sollievo e continuava a camminare; passato cautamente davanti alla
Sala Grande, proseguiva per l’androne interno, ritrovandosi finalmente
all’esterno.
Si sedeva per terra
sotto il porticato di colonne, ed osservava le foglie morte che turbinavano nel
vento, creando invisibili rivoli di polvere tra i lastroni di cemento. Non
pensava, difficilmente lo faceva.
Era diventato
istinto, puro, semplice, primordiale. E bastava una voce a farlo appiattire
contro una colonna, la bacchetta inutile in pugno. Bastava una voce.
Ma di lei, ovviamente, non si accorse fino a
quando non si era già seduto al suo solito posto. L’impressione di non essere
solo, quello scomodo fastidio che non andasse tutto come sempre, lo aveva
spinto a guardarsi attorno ed oltre la colonna accanto a lui, una chioma cespugliosa
era mollemente appoggiata allo stipite di pietra bianca. Non guardava come lui
il cortile, la Granger. Guardava fisso davanti a lei, persino di spalle Draco
distingueva il mento sollevato e i capelli che ricadevano flosci sulla schiena,
sollevandosi ad ogni ritmo del suo respiro. Affrettato, sembrava respirare a
fatica.
Il primo pensiero
che lo colpì, subdolo come un calcio sotto la cintura, fu che l’Ottavo anno di
Hogwarts era popolato da derelitti. Era
così disabituato a pensare da sbuffare con un pasticciato sospiro di fastidio
che riecheggiò nell’atrio deserto, amplificandosi infinite volte. La Granger
contrasse le spalle, ma non si mosse.
L’Ottavo anno di
Hogwarts era l’anno dei diciottenni che avevano saltato l’ultimo anno a causa
della guerra.
Erano pochi,
ovviamente, e non perché quell’anno tutti fossero stati diligenti ed
impeccabili frequentatori della scuola. Erano pochi perché ovviamente quasi
nessuno era tornato.
Potter e Weasley
avevano ottenuto di entrare nel corso per Auror, per quanto ne poteva sapere,
che ovviamente era poco. Pansy non era più voluta tornare dalla morte di sua
madre, Blaise si era trasferito a Durmstrang, Theodore si era messo ad aiutare
il padre, Goyle stava ad Azkaban, Tiger era morto.
Tiger
è morto.
I diciottenni parevano una razza strana,
amorfa ed acefala in quella scuola, come se portassero sulla fronte un segno
luminoso che li distingueva ad occhio nudo. Sembravano più alti,
tendenzialmente più cupi… ed erano dei derelitti. Ecco, come lui e la Granger. Me e la Granger.
O meglio, si disse
onestamente Draco, riassestandosi e mettendosi dritto, nessuno dei diciottenni
vinceva il titolo di derelitto meglio della Granger. La guardò di sottecchi,
non aveva mosso un muscolo da quando era arrivato. Restava immobile, dandogli
le spalle, a malapena respirava. Solo la nuca era scivolata indietro,
appoggiandosi alla colonna, mentre lei alzava lo sguardo verso l’alto.
Questi movimenti,
Draco non li aveva nemmeno sentiti. Per quello, sopportava la sua presenza. La
Granger, oramai, era una pianta ornamentale, di pessimo gusto, ma sempre tale.
Alla fine uno si abitua ad averla davanti agli occhi, o meglio uno alla fine ci
passa davanti e nemmeno se ne accorge.
Hermione Granger
aveva ormai moltissimo in comune con una pianta ornamentale.
Un
simbolo muto.
Era un simbolo che
richiamasse coraggio e speranza, era stata fotografata davanti all’Espresso di
Hogwarts il 1° settembre, un sorriso cancellato ed una crocchia severa ad
imprigionarle i capelli crespi. Anche lei era tornata a scuola, e se poteva
farlo lei, eroina e martire, potevano farlo tutti. Tutti potevano ostentare lo
slogan del mese, dell’anno e dell’intera storia umana: normalità. Un pessimo cerone con cui ci si truccava il viso di
fronte all’ennesima lacrima, all’ennesima assenza, all’ennesima cosa fuori
posto.
Ma Hermione Granger versione derelitto non
aveva nulla di normale, e Draco aveva
aborrito l’idea di usarla per quello scopo. Anzi, più che aborrito, l’aveva
trovata un’idea idiota.
Hermione Granger era
monito della guerra ed anatema della pace. La sua foto sulla Gazzetta del
Profeta era uno scomodo imbarazzo, da nascondere con borghese puritanesimo
sotto un letto di buone intenzioni, per nulla adatta ad infondere la nozione
del nuovo inizio aperto per tutti. Certo, Hogwarts aveva riaperto il 1°
settembre come sempre, ma il treno rosso era parso un insulto. E per la prima
volta, non soltanto agli occhi blasfemi di un Serpeverde, o di un ex
Mangiamorte, o di un cinico esteta annoiato.
Agli occhi di tutti.
Il
corpo è una magia,
però, e gli occhi comandarono alle labbra di restare sigillate in asettici e normali sorrisi.
C’era poca gente al
binario 9 e ¾ , ingombranti vuoti nella folla, assordanti silenzi in vagoni
deserti. Nel timore di fare qualcosa che non suonasse come normale, gli stessi
ragazzi sembravano camminare in punta di piedi, salutandosi quietamente e
sorridendo parcamente. Draco si era scelto un vagone, beandosi della silenziosa
compagnia di quattro primini che ancora non lo conoscevano.
Ancora.
Fu il primo anno che
Serpeverde non ebbe alcun studente nuovo. La preside McGranitt aveva cercato di
ovviare a quell’impaccio, abolendo le quattro lunghe tavolate della Sala Grande
e creandone una sola che girava attorno alla sala, segmentandosi in un quadrato.
Pessima scelta.
Draco aveva capito
dalla prima cena post Smistamento che era meglio non sedersi a tavola.
La
pianta Granger,
invece, doveva averlo capito di recente. Aveva sempre sentito quell’incredibile
e fastidioso vociare, quando lei arrivava in Sala Grande, sostenuta dalla
Piattola Weasley. Sapeva perfettamente Draco dal suo nascondiglio che, appena
varcava la soglia, il vociare cessava per cinque secondi, poi riprendeva
all’improvviso, sommergendo la ragazza di domande e di richieste mielose.
Perché era popolare
la Granger come pianta ornamentale.
E tutti avevano una
domanda per lei, a cui ovviamente non avrebbe risposto.
Tutti, tranne lui,
ovviamente. Non sa fare domande, non
vuole farne e non ne ha nemmeno diritto.
Hermione Granger improvvisamente
si alzò in piedi di scatto, repentinamente, come se avesse preso la scossa.
Ruppe la quiete della notte, calata a grandi stelle su di loro, con pochi gesti
e qualche passo, tutti estremamente rumorosi. Draco li sentì ripetersi circa
duecento volte nel suo cervello.
Non si voltò
naturalmente, quando la sentì camminare alle sue spalle e nemmeno quando la
sentì fermarsi. Poteva ignorare tranquillamente i suoi passi poco aggraziati,
senza timore alcuno di avere rimostranze. Non gliene poteva fare, pure se le
fosse saltato in mente di farle. In mente, appunto, non alle labbra.
Gli venne quasi da
ridere in modo sardonicamente divertito.
Lei, però, restava
alle sue spalle e continuava a guardare,
la sua nuca, la sua schiena, i capelli. La sentiva curiosare dappertutto. Gli
ribollì il sangue dal nervoso, come la mattina in infermeria.
Si voltò
innervosito, la Granger se ne stava in piedi, la bocca dischiusa, in attesa. Lo
sguardo era di nuovo pietra dorata, fisso, incastonato su di lui. Draco respirò
a fondo, prima di erompere: “Che diamine vuoi?!”.
Hermione sbatté le
palpebre, riscuotendosi, la solita patina indifferente le calò sul viso. I suoi
occhi, però, ritornarono su di lui, concentrandosi foschi sulla manica del suo
maglione. Draco, irato, seguì il suo sguardo, restringendo le pupille alla
vista del sangue che, superato il cotone della benda e quello della camicia,
aveva impiastricciato la grana del maglione verde che indossava. Draco tornò a
guardarla, raggiungendo con una mano la bacchetta, pronto a scagliarle
qualsiasi maledizione se quel suo viso avesse mostrato un qualsiasi sentimento:
fosse stato divertimento, ilarità o persino comprensione, pianta o non pianta,
l’avrebbe uccisa.
Lei restò
indifferente, immobile, cera scolpita.
Chiuse gli occhi e
sospirò.
“Saint Suliac…”.
Draco sussultò,
certo di aver solo sentito il vento, e continuò ad interrogare memoria ed
udito, fino a quando lei sparì, lasciandolo solo. L’aria tintinnava di un
ricordo netto e preciso, infrantosi nel presente silenzioso.
Silenzioso, fino a quel momento.
Perché Hermione
Granger, vittima di una guerra che sembrava averle cancellato la voce, aveva
appena parlato di nuovo. E a Draco Malfoy.
La voce di Hermione
Granger era evaporata come rugiada sotto il violento soffio rovente della
guerra. Esattamente alla fine della battaglia di Hogwarts.
Contando i morti,
curando i feriti, enumerando i dispersi, ad Hermione Granger fu
superficialmente chiesto da una Medimaga annoiata, che si guardava le unghie
scrostate di rosso, se stesse bene. Era una domanda di circostanza, Hermione
era una di quelle che stavano bene. Tagli superficiali, una ferita al ventre,
escoriazioni.
Ed invece Hermione a
quella domanda non rispose. A nessuna domanda, Hermione rispose.
Semplicemente,
guardava chi la interrogava e, al massimo, scrollava le spalle. Spesso le sue
stesse palpebre sembravano pesarle sugli occhi come veli di cemento e, alle
domande ossessive di amici, conoscenti, sconosciuti ed estranei, rispondeva
chiudendo gli occhi. Sparivano annegate nel bianco le iridi castane, morendo
nel buio.
Mistero buffo, la
storia di Hermione Granger aveva riempito i giornali di tutta l’estate di
festeggiamenti dell’epoca post Voldemort; perché Hermione non aveva danni
neurologici, ogni esame babbano e magico era stato negativo. Nessuna fattura,
nessun incantesimo, nessuna pozione.
Ma non parlava più,
restava silenziosa testimone di tempi immemori.
Draco aveva letto la
notizia quando era ancora a casa sua,
agli arresti domiciliari, ed era dovuto scappare in camera per scoppiare a
ridere impunemente, senza che gli Auror potessero accorgersene e prendere
provvedimenti. L’aveva vista come una manifestazione assolutamente tardiva
della legge del karma, finalmente qualcosa era tornato indietro anche ai
cosiddetti eroi. Il suo sorriso era lievemente scomparso quando il loro
avvocato aveva informato lui e i suoi che, per ovvi motivi, Hermione Granger
non poteva testimoniare in suo favore con Potter e Weasley al processo per la
morte di Tiger.
Il karma gli si era
ritorto contro.
Era una novità?
Ovvio che no, per lui la ruota mica girava mai.
Hermione Granger,
comunque, aveva stilato con precisione una dettagliata deposizione, dove lo
scagionava completamente dall’accusa di aver ucciso Tiger. Non lo aveva fatto
per lui, ovviamente, ma solo per il suo senso del dovere che le impediva di
mandare in carcere un innocente, fosse anche uno che si era macchiato di altri
crimini, anche se, per fortuna, non di omicidio. Ovviamente tutto questo lo
aveva abbondantemente scritto.
Quindi
è solo muta, non anche deficiente…
aveva pensato Draco con fastidio, digrignando i denti.
Che però Hermione
Granger non fosse diventata deficiente, era chiaro a tutti molto più di quanto
Draco potesse ammettere. Era tornata ad Hogwarts per dirne una, e continuava ad
eccellere nei test, la sola differenza è che ormai ad ogni domanda dei
professori, non c’era più una mano affusolata a scattare imperiosa in aria,
formulando risposte, ma un silenzio imbarazzato ed un paio di occhi nocciola
ostinatamente rivolti fuori dalla finestra. Si era concluso che Hermione avesse
subito qualche tipo di trauma psicologico, nell’ignoranza di risposte
inesistenti si decretò con sufficienza che forse si sarebbe risolto tutto da
solo. Potter e Weasley andarono al corso per Auror, parcheggiandola ad Hogwarts
come un pacco postale dal contenuto incerto e probabilmente pericoloso; la
Weasley si era erta a sua assolutamente inopportuna ventriloqua, mentre la
scortava per le aule e per il castello, e i brusii piano si erano zittiti,
considerando ormai Hermione Granger al pari di un fantasma.
Ti incuriosisce la
prima volta, gli fai domande la seconda, la terza e la quarta volta, e alla
quinta ti accorgi a malapena che ci sia.
Ma Hermione Granger
non solo non era deficiente, ma non era neanche muta.
Ma questo lo sapeva
solo Draco Lucius Malfoy.
Tutti potevano
immaginarlo, certo, ma lui solo ne aveva la prova. Mai come in quel momento,
Draco sentì la mancanza del professor Piton, se lui fosse stato ancora vivo ed
ancora in quella scuola, ne avrebbe parlato con lui. Ogni altra persona, al
pensiero che Hermione Granger stesse solo fingendo di non avere più la voce, lo
avrebbe messo sotto torchio, facendogli raccontare tutto l’episodio e probabilmente
imponendogli di fare in modo che la ragazza parlasse ancora. A quanto ne poteva
sapere Draco, il mutismo di Hermione era stato assoluto fino al momento in cui
gli aveva rivolto quelle due parole. Piton invece l’avrebbe smascherata ed
avrebbe rivelato il sordido tentativo della Granger di essere sempre al centro
dell’attenzione, senza coinvolgere Draco.
Ma Piton non c’era. Piton è morto. Piton è morto, accanto a
Potter. E io, Piton, non lo vedevo da settimane.
I suoi genitori
erano esclusi, ovviamente; la lettera li sarebbe arrivata solo dopo tre
settimane in America, dove adesso vivevano, e ce ne avrebbe messe altrettante
per la risposta, ammesso che gli rispondessero subito. Lo avrebbero fatto,
certo, ma probabilmente ignorando la Granger. Spesso, Draco aveva l’impressione
dalle loro lettere transoceaniche che Narcissa e Lucius stessero semplicemente
cercando di non ripensare alla vecchia vita.
Lui era il solo
legame rimasto.
E se non la
rinnegavano, inghiottendo bocconi acri di risentimento, era solo per lui.
E Draco non li
deludeva, come sempre. Scriveva poco, parlava del tempo atmosferico in
Inghilterra, si inventata aneddoti divertenti con amici che non erano mai
tornati ad Hogwarts, si scusava del poco tempo libero per scrivere, mentre
cercava invece ossessivamente qualcosa da fare.
Non erano finiti ad
Azkaban né lui, né i suoi, avevano goduto di uno stato simile a quello dei
pentiti, considerando la bugia di Narcissa al Signore Oscuro sulla morte di
Potter.
Ma, in fondo, li
avevano puniti lo stesso e ben più duramente. Separandoli.
Draco, con il
segreto della voce della Granger dentro, assaporò con maggiore disgustosa
nettezza quanto in realtà fosse solo.
Non era una solitudine aurea da isola al centro di un mare placido e
indifferente, lui non affondava le radici nel nucleo della terra. Lui annaspava
come una barchetta, una vela strappata come motore ed una stella nascosta dalla
nebbia come guida.
Non si inferse un
solo e singolo taglio in quei giorni. Aveva tratto piacere da quella malsana
pratica non appena era stata pronunciata l’assoluzione a suo carico per la
morte di Tiger. Era successo per caso, un giorno, mentre tagliava della carne.
Il coltello era sfuggito, aveva incontrato la pelle del dorso della mano, aveva
grattato via un po’ di sangue. Puro, intonso, macchiato da generazioni senza
nome di Malfoy immacolati. Il lieve pizzicore era stato come acqua santa sul
capo del catecumeno, come se aveva dato al suo sangue ogni compito e missione
di purificarlo da sé stesso. E da lì, aveva sempre avuto un coltello in tasca e
del sangue coagulato sotto le unghie delle dita.
Poi, basta.
Hermione Granger
parlava, non aveva mai smesso, diceva cose che non erano nemmeno parole ma solo
suoni inarticolati di infante pigra, e non si era tagliato più, liberando pinte
di pensiero liquido nella sua testa. E il segreto di Hermione Granger, senza
nulla a fargli ostacolo nella sua mente vuota, continuò ad echeggiare per
giorni. Rimbalzava come le onde sonore dei pipistrelli, non aveva schermo né
argine alcuno. Non ricordava, Draco, le parole che lei gli avesse detto, ma
solo la voce. La solita voce di Hermione Granger.
Nulla era cambiato,
lei non era cambiata. Era la solita voce pastosa, vagamente argentina, tonda
sulle parole ad accarezzarle e a cullarle. Non sembrava nemmeno arrugginita per
scarso utilizzo. Forse parlava da sola come una pazza, aveva solo smesso di
farlo con qualsiasi persona vivente. Tranne
che con lui.
L’aria si era
raffreddata in quei giorni, il cielo era scolorito come una tela bagnata di acquaragia
ed ottobre era entrato prepotentemente nel calendario, artigliandosi sui giorni
sempre uguali. Nel vento che penetrava nelle crepe del sotterraneo dei
Serpeverde, gelando il sangue aggrumato, Draco sentiva la voce della Granger
come l’eco delle conchiglie. Una nota flebile, lieve, leggera, come un respiro.
Per quanto, però, fingesse di sforzarsi, non c’era traccia delle parole che le
aveva sentito pronunciare. Doveva esserselo sognato. E quel respiro che
penetrava come un spiffero dalle crepe era solo il vento.
La sua vita attuale
gli aveva insegnato una cosa importante: categorizza i pensieri, chiudili in
scatole e conserva quelli importanti. Quelli vitali. Quelli che ti faranno
sopravvivere. Il resto non serve. Tutto
non serve.
L’aveva fatto la
mente, il corpo no. La magia di un corpo che scopriva reazioni irrichieste.
Niente più cortile
interno durante la cena in Sala Grande, ma una poltrona in Sala Comune con la
sempre asettica scusa che non aveva voglia di mangiare. Niente più ultimo banco
durante le lezioni con i Grifondoro, così da controllare ogni movimento ed
essere sempre all’erta, ma il primo, così da non inquadrare nessuno e non
incrociare nessun sguardo.
Passi veloci nei
corridoi, come sempre. Passi febbrili, quando vedeva una chioma cespugliosa tra
l’altra gente.
Minimo
le salta di nuovo in testa di parlare con me e qualcuno se ne accorge…
Durante una di
quelle manovre diversive che non avrebbe mai ammesso e che chiamava “l’aria di questo castello è asfissiante,
esco fuori, vado a fare una passeggiata, tanto chi vuoi che incontri…”,
soprappensiero raggiunse il campo da Quidditch. Non sapeva chi si stesse
allenando, non era in squadra da una vita. Il cielo si era fatto plumbeo come
una coperta stesa a forza sulla terra, qualche goccia d’acqua cadde a terra,
precisa come un proiettile. Draco riparò sotto le gradinate degli spalti,
piegandosi qualche secondo sulle ginocchia per pulire le scarpe sporche d’erba.
Era passato il tempo dei vestiti messi una volta e poi gettati. Questi, se tutto
va bene, dovevano durargli fino all’anno prossimo, quando avrebbe avuto il
permesso di vedere i suoi.
Non vide il primo
colpo, come sempre lo colpì sul fianco destro, facendolo gemere e ricadere
bocconi sull’erba. Il livido già presente prese a pulsare, ma Draco lo ignorò,
schivando il secondo colpo.
Perché c’era sempre
il secondo colpo, ma lì la mente era già tornata reattiva, immettendo
adrenalina nel sangue e dando scariche elettriche ai muscoli. E il secondo
colpo lui lo evitava sempre, come lo evitò anche quel giorno, rotolando di lato.
Poi ci sarebbe stato
il terzo, il quarto, il quinto, e Draco sapeva che poteva solo evitarli, non
darsi da fare per colpire. Quello mai. Li avrebbe indispettiti di più con una
sua reazione. Lo aveva imparato, e non come una lezioncina recitata da un professore
annoiato e ricopiata con negligenza su un quadernetto.
L’aveva imparato a
sangue e lividi, ad insulti e gemiti.
Il coraggio del
serpente, di fronte alla grandezza del grifone, è solo appiattirsi nelle
viscere della terra, masticando le litanie contro il suo sangue puro, che
adesso insudicia la pelle sotto il suo maglione strappato.
Dal numero di colpi
che riceve, tra quelli che non riesce ad evitare e quelli che invece schiva,
capisce a tratti, come fiotti di luce da un faro, che deve essere capitato
proprio durante l’allenamento dei Grifondoro.
Sembrano troppi,
troppe risate, troppo scherno, troppa ingordigia a non lasciare nemmeno un
pezzo del suo corpo intonso. Si maledice per la sua disattenzione, mentre si
copre il volto con le braccia, prima che con un calcio, lo pieghino, facendolo
cadere riverso per terra. Non perderà i sensi, questo lo sa, era successo una
sola volta e poi si erano dati tutti da fare per non essere mai più così
misericordiosi. O così codardi,
chissà: i Grifondoro non colpirebbero mai chi è incosciente e non può
difendersi o sentire i loro insulti colmi di lutto represso.
Vogliono che lui
senta, vogliono che capisca, vorrebbero persino che lui rispondesse.
Ma Draco tace, ha
sempre taciuto, ha soltanto afferrato il coltello che aveva in tasca e ha
proseguito il loro lavoro sulla mano, stringendo forte la lama. Perché loro
sono degli idioti, e non lo puniranno
mai quanto lui potrebbe punire sé stesso: quindi fa da solo, così che possa
strappare loro l’aura sacra dei castigatori di peccatori, godendo del sangue
che versa senza che loro se ne accorgano e senza che possano preconizzare
quanto dolore potrebbe ancora provare, senza perdere i sensi.
Sta aspettando
l’ultimo colpo, stringendo quella lama che un altro Serpeverde avrebbe già
scagliato a cercare sangue meno puro del suo. Mastica la polvere, inspira la
calma, digrigna il livore.
Ma non successe
nulla. Tutto si fermò come il rantolo malato di una bestia ferita: si arrischiò
a sollevare gli occhi, uno non riuscì ad aprirlo, era pesto, questo non era
riuscito ad impedirlo.
Non c’era più
nessuno, non sentiva più nulla, nessuna voce.
Nessun insulto calibrato alla sua famiglia, alla sua razza, al suo onore, alla
sua persona, al suo sangue, alla sua esistenza stessa. Nulla.
Si sollevò, sputò
del sangue, si voltò su sé stesso, meditando di sgattaiolare in infermeria
all’ora di cena per rubare delle garze e della pozione medicatrice, così da non
mendicare attenzioni da Madama Chips, incespicandosi in annoiate scuse marce.
Trasalì, barcollò,
come se a scoppio ritardato qualcuno lo avesse colpito in testa. E,
ricordiamolo, la sua testa era sacra: non doveva mai perdere i sensi.
I sensi, adesso,
invece gli stava perdendo tutti assieme. Odore di pioggia e sangue, ticchettio
mesto d’acqua smunta, tocco asfittico di polvere lercia, trappola masticata di
pietrisco sotto il labbro. Sparì tutto.
Solo la vista
resistette come un vessillo di resa su un castello abbandonato.
La schiena di
Hermione Granger che si allontanava sotto la pioggia, coperta lievemente dal
rosso accecante di una camicia zuppa. La pelle tra le scapole creava un fosso
nel tessuto, come un buco dove il cacciatore aveva l’ingresso privilegiato nel
cuore. I capelli pendevano come fronde d’albero secco, dimentichi di cura femminile,
sciolti, crespi, sterpaglie bruciate e poi annegate per dare l’illusione di
qualcosa di ancora vivo. I passi erano lenti, rumorosi, insicuri. Ad ogni
movimento, sembrava concentrarsi per non cadere.
“Che cosa diamine
volevi l’altra volta, Granger?! Hai imparato a vaneggiare adesso?! Che vuol
dire, Saint Suliac?!”. Una freccia,
dalla punta avvelenata, dritta nel buco tra le scapole. La vide persino
tremare, prima di fermarsi. Distinse la pelle d’oca sotto la camicia bagnata,
come se adesso scoprisse freddo, acqua, tenebra.
Draco sentì la sua
voce estranea a sé stesso, era acuta, stridula, incomparabilmente irritata. La
vista della sua schiena gli aveva fatto sovvenire il ricordo delle sue parole,
quel tono fresco di voce non usata. Aveva persino ricordato le parole precise,
che non erano un gorgheggio, ma un nome preciso, francese. Aveva persino
ripetuto l’accento di lei sull’ultima sillaba, la troncatura delle finali, la
piega leziosa sul dittongo.
Ed aveva ignorato,
come lei voleva, la bacchetta che le pendeva dalla mano destra e che aveva
fermato i suoi assalitori. Molle, piegata, quasi le scivolava dalle dita: un
Incantesimo muto e l’ultimo colpo che Draco aveva aspettato, non era arrivato. L’aveva
ignorata la sua bacchetta, ed aveva mollato un po’ la stretta sul coltello
stretto ancora nella mano. Lei non voleva che se ne accorgesse. Lui non voleva
che la ringraziasse.
E, per la prima e
non ultima volta, si incontrarono nella penombra confortevole del desiderio
altrui.
Accettato,
consumato, ma mai esplicitato.
Quando lei si voltò
troppo velocemente su sé stessa, si tradì come Giuda all’ultima cena. Aveva gli
occhi troppo vivi, troppo accesi. Troppo rossore sulle guance, troppa foga
nelle labbra serrate, troppa impazienza nel respiro.
La pelle del collo
si tese sotto le sue vene, che pompavano il sangue alla sua testa così da
consentirle di consumare avida il tradimento del silenzio. E le sopracciglia
aggrottate, le ciglia frementi, lo sbuffo delle labbra annoiate furono una
conferma non richiesta. Non se ne accorse, se non pochi secondi dopo.
Non si accorse che
si era incarnata in sé stessa, di nuovo, se non pochi secondi dopo.
Una sé stessa
autentica, non una pianta ornamentale: quella che odorava di carta di riso,
quella che rispondeva a voce alta, quella che scriveva con foga, quella che
adorava il grattare della penna sulla pergamena, quella che era viva e che non
voleva essere null’altro che viva. E quella che, di fronte alle domande spicce,
avrebbe sempre risposto irritata, come se la stupidità umana fosse un personale
torto a sé stessa.
Hermione Granger
spalancò gli occhi, pochi secondi dopo, mentre ancora finiva la frase con tono
sarcastico. E lo sapeva ancora usare benissimo quel tono troppo da persona
viva, al punto che Draco Malfoy se ne sentì quasi offeso. Quasi, però.
Perché mentre
metabolizzava quel suo: “Ma ci vai qualche volta in biblioteca o pensi che sia
una sala decorativa?!”, già aveva intuito che sarebbe corsa via tre secondi
dopo, punendosi con un passo affannato che non sollevasse nemmeno uno schizzo
d’acqua e che non producesse nemmeno l’ombra di un suono qualunque.
E già sapeva che il
coltello nella sua mano, ormai vicino a cadere fuori dalla sua presa, avrebbe
affondato nella carne, punendo nel sangue quell’ascolto non richiesto.
In biblioteca ci era
andato perché si annoiava.
Era uno di quei
pomeriggi da cartolina mediocre, con il cielo fermo, il lago immobile, l’aria
stagnante e tutti gli studenti riversati nel Parco. Ottobre aveva ancora la
fragranza dorata di un Settembre ritardato che non ne voleva sapere di girare i
tacchi ed andarsene dal calendario. I professori si erano messi d’accordo per
dare pochi compiti agli studenti, o perlomeno così sembrava a Draco Malfoy:
forse, dal loro punto di vista, avevano ripiegato sulla magnanimità così da lasciare
ai superstiti della guerra l’occasione di godersi un pomeriggio di sole
inaspettato. Peccato che i veri superstiti della guerra, invece, scegliessero
l’esilio in quelle occasioni luminose: e lui, sollevato, aveva trovato la
biblioteca vuota e si era rintanato in un angolo buio, gli occhi fissi davanti
ad un libro chiuso.
Poi quella vecchia
megera della bibliotecaria si era avvicinata, fingendo di mettere a posto
rumorosamente dei tomi polverosi e dandosi da fare per tossicchiare in modo
quanto più molesto possibile, così che lui capisse che non poteva stare lì
senza far nulla. Con un profondo sospiro, Draco aveva quindi aperto con nervoso
il libro, mormorando lamentele a mezza bocca.
La pagina recava in
bella vista un atlante della Francia.
Hermione Granger era
una dannata mosca molesta che si attaccava al suo cervello: un messaggio
subliminale, che a malapena raggiungeva la sua coscienza, e poi esplodeva come
un petardo nei gesti più comuni. Gli occhi, sebbene la mente ancora ordinasse
di stare fermi e di fingere la concentrazione prettamente necessaria a non
essere disturbato dalla bibliotecaria, corsero rapidi a cercare Saint Suliac. E
rapido, implacabile, lesse la dicitura della piccola cittadina sul mare della
Bretagna. Uno dei borghi più belli della Francia, centro marittimo, meno di
1000 abitanti, case di pietra scura, vele bianche pompose, babbani che ci
andavano in vacanza d’estate.
E un’Accademia
Magica, nascosta da un Incantesimo protettivo tra i più potenti.
Draco si portò una
mano stanca ed incredula tra i capelli biondi, che strinse con la stessa foga
con cui tormentava la sua pelle con la punta fredda del coltellino che adesso
non si portava più dietro. Lesse con rabbia sempre maggiore la descrizione che
l’autore faceva dell’Accademia di Saint Suliac.
L’Accademia
delle Scienze Alchemiche di Saint Suliac è la più vecchia istituzione
scolastica della Francia, probabilmente più antica persino di Beauxbatons. Nota
per essere il luogo dove vengono ideate le più grandi innovazioni pozionistiche
della Storia della Magia, è tuttavia poco conosciuta a causa della grande
selettività a cui vengono sottoposti gli aspiranti frequentatori dell’Accademia
stessa. Dopo un ciclo di studi ordinari, difatti, possono essere ammessi
all’Accademia tutti coloro che riportino la media dell’Eccellente in tutte le
materie curriculari e che superino il delicato test inziale. Esso consiste nel proporre alla Commissione esaminatrice una
Pozione medica inedita entro il 30 maggio di ogni anno. Il corso di studi dura
cinque anni, al termine del quale i diplomati più meritevoli vengono ammessi
nell’area sperimentale dell’Accademia stessa, dove continuano con le ricerche.
Per coloro che concentrano i loro sforzi accademici nell’area biomedica,
giungendo a pregevoli risultati, è prevista la grazia da ogni reato commesso
precedentemente per sé e per la propria famiglia; in ogni caso, coloro che
studiano in tale Accademia godono di una elevatissima reputazione in seno al
Mondo della Magia.
Benzina sul fuoco:
ogni parola di quella raffinata spiegazione cartacea fu benzina sul fuoco.
Draco si trovò in mano dei capelli strappati senza che nemmeno avesse provato
un po’ di dolore. Il sangue era fluito tutto al viso, alle gote arrossate, agli
occhi accecati di furia, poco prima che poi si dirigesse venefico alle gambe,
comandandolo di scattare in piedi e di correre fuori. Nei corridoi deserti, non
prestò attenzione a nulla, a nessuno, ad una qualsivoglia cosa a cui avrebbe
dovuto prestare attenzione: persino la paura di incontrare qualcuno che lo
picchiasse come al solito diventò una stupida preoccupazione vana che cedeva il
passo ad un’impellenza maggiore. Repressione.
Soffocamento. Annegamento. Ci sguazzava in quel clima di vittima perenne,
ci godeva enormemente ad appiattirsi nel senso di colpevolezza fosco e
nell’ingorda lacerazione dell’impotenza. Non aveva bisogno di speranza, di una
risorsa, della possibilità che tutto andasse bene. Non aveva bisogno di una
fede malriposta: soprattutto non aveva bisogno della fiducia assolutamente
malriposta di Hermione Granger.
I Grifoni hanno le
ali per andare dappertutto: dovunque
è il luogo fisico che naturalmente li si addice. I Serpenti, dalla loro, hanno
solo l’istinto per trovare comodi nascondigli e hanno solo il veleno nei denti
per difenderli come se fossero lussuose dimore cercate con sollecitudine, e non
sopportate con sussiego.
E lui era sempre
stato un Serpente, non ne voleva nemmeno sapere di chiedersi come fosse il
mondo fuori dalla crepa ospitale che era la sua vita.
Dalla fine della
guerra, gli era sempre bastata quella feritoia scavata nel tempo rubato.
La rabbia di Draco
Malfoy era tale che, quando finalmente trovò Hermione Granger, per un attimo
nemmeno la vide. Superò l’incavo nella roccia tra un’armatura ed una colonna,
senza accorgersi di lei. Il Grifone e la
crepa, che curioso controsenso. Poi bastò un respiro forte, estremamente
rumoroso, tanto da riecheggiare nel corridoio deserto e si voltò su sé stesso.
Passava
nelle vite degli altri come un pulviscolo di vento, senza nemmeno osare
respirare. E poi urlava sempre nella sua di vita.
Era seduta, per
terra, le ginocchia al petto, come una bambina spaventata da un temporale. Draco
non vide il suo viso, era nascosto tra le braccia, i cui gomiti erano poggiati
sulle ginocchia. Distingueva solo la sua fronte. La pelle era bianca, livida,
sudata: solo a quel punto, respirando a fatica, notò le mani premute contro le
orecchie, forte, al punto che il dorso delle mani stesse si era fatto
trasparente. Distingueva la trama delle vene e il tragitto del suo sangue - sporco -
che fluiva verso i polsi sottili, assecondando il movimento convulso
del collo che continuava a muoversi a destra e a sinistra. La testa era come un ammasso di stracci sporchi,
i capelli una sterpaglia confusa che le copriva in modo misericordioso il
volto: negava febbrilmente qualcosa, come se qualcuno le stesse raccontando una
storia terribile alle orecchie e lei cercasse di tenerla fuori dalla sua testa.
La divisa era impolverata, strappata sull’orlo, e sporca di un fango che non
sapeva dove aveva trovato in quella giornata piena di sole. Respirava a
malapena, rantolava come un malato terminale e continuava a negare come una
povera bambina pazza.
Le urlò di tutto:
insulti vecchi e nuovi, litanie inventate al momento, balzane imputazioni di
colpe non sue, retaggi medioevali del sangue ed esagerazioni di difetti che
nemmeno sapeva che lei avesse. Nel corridoio deserto non passò nessuno, mentre
lui urlava, mentre le pietre rifrangevano le sue parole, mentre il respiro di
lei nemmeno accelerava e restava stasi mobile di un tormento segreto. Non si
mosse nemmeno per un momento, nemmeno diede segno di averlo sentito: non
franarono le spalle, non piansero le guance, non sollevò il viso.
Continuò a negare e
basta, come prima che parlasse, come se lo condannasse al mutismo per le sue
orecchie, quello che lei aveva elargito a tutti gli altri. Tranne che a lui, a
cui però adesso donava lo stesso respiro affannoso che avrebbe dedicato ad ogni
individuo al mondo.
Smise di urlarle
contro Draco, quando capì che lei non avrebbe risposto, non avrebbe parlato,
non avrebbe rotto di nuovo l’Incantesimo apposta per lui. Se ne andò, le
ginocchia che gli tremavano, voltandole le spalle.
Due ore dopo, dopo
che ebbe mangiato, dopo che ebbe dormito, dopo che ebbe fatto i compiti di
Trasfigurazione, dopo che ebbe guardato dodici volte la clessidra, dopo che
ebbe seguito la traiettoria del sole che si tuffava nella culla rocciosa delle
montagne… lei sarebbe stata ancora lì. Nella stessa posizione di prima, con le
ginocchia strette al torace, il respiro come se avesse corso per chilometri, i
capelli spettinati, la testa impegnata nella sua opera di negazione. Di lei era
cambiato solo il colore, prima la luce del pomeriggio la ritagliava di stelle
moleste nei riflessi lucidi dei capelli, adesso il buio se l’inghiottiva pronta
a masticarla.
Draco si chinò alla
sua altezza, sedendosi a gambe incrociate davanti a lei. Le prese i polsi tra
le mani, facendola fermare. La pelle dei suoi polsi era così calda che Draco
pensò che avesse la febbre: ma aveva il viso livido, emaciato. Due profonde
occhiaie viola le macchiavano lo sguardo, che sollevò indolente verso di lui.
Aveva le pupille così piccole da sembrare due capocchie di spillo: lo guardava
con disprezzo, il mondo filtrava nelle sue orecchie e sembrava non riuscire
nemmeno a sopportarlo. Le tremarono le spalle, le tremò il labbro, gli occhi
stessi tremarono come fondamenta di una casa sotto ad un sisma.
Draco lasciò i suoi
polsi, ebbe l’impressione quasi di scottarsi ed Hermione lo guardò tra la
gratitudine e lo sconforto, mentre come un elastico rilasciato, le mani
tornarono a cercare i suoi capelli, pronta a riprendere il movimento febbrile
di poco prima.
“Granger… mi puoi
aiutare?”.
Hermione si fermò,
lo guardò sorpresa, spalancando gli occhi castani. Le labbra si dischiusero
come se stesse trattenendo il fiato e le mani le scivolarono in grembo,
chiudendosi su sé stesse. Aggrottò le sopracciglia guardandolo, le pupille che
tornavano normali, il respiro che si scioglieva. Inclinò la testa di lato,
studiandolo curiosamente, come se fosse la prima volta che lo vedesse. Draco
seguiva la vena del suo collo che pulsava sotto la pelle bianca, non riusciva a
sollevare il viso e non poteva nemmeno pensare di tornare a guardarla negli
occhi.
Lei non parlò
ancora. Non disse nulla, chiuse le labbra in un moto di difesa, irrigidendo la
postura.
Draco sentì l’aria
cambiare, distinse il calore allo stomaco, prima ancora di spiare il viso di
lei.
Di percepire la
piega ilare degli occhi, la pelle adesso rosea delle guance, le spalle distese.
Prima di vedere il
collo che ancora si piegava nella risposta che la sua gola, adesso, non
riusciva a dare.
Il mondo lo lasciava
ancora fuori, Hermione Granger: le mani fremevano dalla voglia di negare
ancora.
Ma Draco Malfoy,
lei, lo lasciava entrare nella sua crepa: dicendo un sì muto, che valeva mille
parole.
L’uragano
ha il sapore del cedro e l’odore della vaniglia.
Anni dopo, Draco
Malfoy, padre di famiglia, si sarebbe seduto in poltrona davanti ad un
caminetto spento in una calda giornata d’estate: un libro sulle ginocchia, un
cane accoccolato ai suoi piedi, la finestra aperta sul mare.
Ed una figlia,
bellissima, intelligente, curiosa, che sarebbe scesa dalla soffitta con un
baule pieno di vestiti vecchi, chiedendogli se poteva farne qualcosa di consono
ai giochi di una decenne annoiata.
Avrebbe sorriso ed
avrebbe annuito, e lei si sarebbe drappeggiata addosso un tessuto che, ostaggio
di anni passati, avrebbe rilasciato nel suo singulto nostalgico di dimenticanza
da quarantenne, il profumo penetrante del suo Ottavo anno ad Hogwarts: cedro e
vaniglia. Il sapore e l’odore dell’uragano.
Aveva vissuto
nell’occhio del ciclone per nove mesi: attorniato dal vento che ronzava, si era
solo beato di restare in vita. Il naufrago non si chiede da dove spunti
l’isoletta salvatrice dove riposerà le membra, il minatore non si chiede da
dove provenga la luce benefica che lo porterà in superficie, il terremotato non
si chiede di chi sia la mano che lo tira fuori dalle macerie: la afferra e
basta.
Lui, Draco Malfoy,
il Purosangue, il Nobile, il Re di Serpeverde, aveva afferrato la mano piccola
e tremante di Hermione Granger, la Mezzosangue, la stracciona, la Principessa
di Grifondoro.
Era stata
sopravvivenza, si sarebbe detto per settimane, iniziando questo ritornello la
sera stessa in cui, in un corridoio deserto, lei gli aveva sorriso con gli
occhi dopo che si era trovato a chiederle aiuto. Sopravvivenza, ecco, che fa
l’uomo ladro e il Purosangue traditore di sé stesso: aveva una sola occasione
di poter vivere una vita decente ed era Saint Suliac, inutile negarlo. Si
sarebbe trasferito in Francia, lontano dalle voci continue sulla sua famiglia,
avrebbe studiato Pozionistica in un ambiente ovattato
e protetto, probabilmente ci sarebbe rimasto tutta la vita, avrebbe avuto il
perdono giudiziale da ogni peccato, i suoi genitori avrebbe concluso l’esilio e
magari sarebbero venuti a vivere in Francia anche loro. La strada era così
evidentemente tracciata nel buio di tutto il resto che non seguirla sarebbe
stato da idioti e da pazzi suicidi.
E la sua unica
occasione era Hermione Granger. Non lo preoccupava l’Eccellente in tutte le
materie, la sua media era notevolmente salita da quando non aveva alcuna
distrazione da sé stesso se non studiare.
Ma lo preoccupava la
pozione medica, sicuramente la Granger sapeva meglio di lui che cosa poteva
fare buona impressione sulla commissione e sicuramente sapeva molte più cose di
lui su quell’Accademia. Sapeva della sua esistenza, Hermione Granger, quando
lui invece nemmeno sapeva che esistesse.
Quindi, pregno del
suo egoismo, si era affidato a quella piccola povera pazza che chissà come e
chissà perché, adesso, si dava pena di volerlo aiutare: non si era fatto
domande Draco, non era un tipo riflessivo e non era nemmeno un tipo da scrupoli
morali. Guardava Hermione Granger come si guardano i poveri derelitti dalla
mente devastata, e non si era fatto alcuna domanda di alcun tipo nell’accettare,
anzi nel chiederle aiuto.
L’orgoglio era una
zavorra della gente che aveva la vita ricca e piena: lui, dal basso della sua
mancanza assoluta di tutto, bè… ci poteva benissimo fare a meno. L’uragano
berciava fuori di lui, pronto a spazzarlo via, e lui aveva solo scelto l’oasi
che gli dava la maggiore calma e stabilità al momento.
Dopo mesi, non seppe
nemmeno lui quanti, riconobbe a sé stesso che non aveva accettato l’aiuto di
una persona qualunque, ma di Hermione Granger: non era stato che, con l’acqua
alla gola, si era affidato alla prima mano vagamente meno ostile delle altre
per trarne forza. No, aveva scelto Hermione Granger perché era Hermione
Granger. Poteva chiedere aiuto ad un professore, poteva parlarne con i suoi,
poteva scrivere ad un vecchio amico.
Non era così solo
come amava definirsi e comunque ne aveva di voci diverse nell’esistenza da
quella morta della Granger. Ma aveva scelto lei, perché di lei ci si fidava
anche da nemici. Lei non tradiva, ingannava, mentiva mai.
Era una specie di
ricovero dall’uragano, il più sicuro e il più adatto: lei si era fidata che lui
entrasse a Saint Suliac al punto di suggerirgli quella soluzione e lui si era
fidato che lei lo aiutasse, come se negli anni, negli scontri, nella guerra e
nella pace, ogni schermaglia ed ogni silenzio fosse stato solo il sedimento per
arrivare a quella fiducia strana e goffa tra due ruderi che, per tenersi in
piedi, avevano solo che da reggersi alle macerie dell’altro.
Andava bene
chiunque, poi andava bene Hermione Granger: ma Draco si chiese troppo tardi,
nel freddo silenzio del suo egoismo ormai dissolto, perché andasse bene a lei.
Perché lei parlasse
con lui, e solo con lui, perché lo aiutasse, perché persino si illuminasse
insegnandogli.
Draco Malfoy era
l’espiazione di Hermione Granger, ed era al contempo la cura per tornare sé
stessa.
Draco lo avrebbe
capito tardi, troppo: ed avrebbe capito che l’uragano non era la vita fuori, il
terrore, la paura, il futuro rombante di promesse cupe ed incertezze
annunciate.
L’uragano era lei,
Hermione Granger, cedro e vaniglia da non dimenticarsi mai più.
Hermione Granger si
annunciava prima con il suo odore: cedro e vaniglia. Prima arrivava una nota di
testa aspra e pungente, come se richiamasse intimamente l’attenzione su sé
stessa, poi arrivava la nota di cuore, fonda come un sospiro, dove lei sembrava
chiedere scusa per aver troppo disturbato con la sua presenza.
Difficilmente, poi,
a ciò seguiva un suono qualunque. Draco aveva imparato a sobbalzi e a sussulti
quanto lei fosse diventata silenziosa: non faceva nemmeno rumore nel muoversi,
persino i passi sembravano non sollevare polvere, scivolava come una
pattinatrice sul ghiaccio e respirava di quiete come un fiore.
Non smetteva mai di
muoversi, però: appena si sedeva nella stanza che aveva preparato per lei e per
Draco, continuava ad attorcigliare un dito attorno ad una ciocca di capelli, o
a muovere il piede con fretta sotto il tavolo, o a girare nervosamente le
pagine alla ricerca di qualcosa.
Draco, spesso, la
rimproverava borbottandole che non riusciva a concentrarsi: era come un rito,
lei entrava, si sedeva ed iniziava ad agitarsi come una tarantolata. Lui
sentiva il nervosismo crescergli nel fondo dello stomaco mentre leggeva e
perdeva la concentrazione, che si disperdeva nel silenzio dell’aula deserta ed
abbandonata.
Senza esitazione
alcuna, sollevava lo sguardo, la guardava severamente ed ingiungeva: “La
smetti, Granger?! Hai la compostezza di una bambina di cinque anni…”: questo se
era di ottimo umore. Altrimenti paragonava il suo contegno a quello delle più
immonde bestie sulla faccia della Terra che potevano venirgli in mente.
Hermione, nella
maggior parte dei casi, inarcava un sopracciglio, metteva un broncio dispettoso
e faceva ancora più chiasso, costringendolo a massaggiarsi nervosamente le
tempie mentre malediceva il suo spirito martire e masochista. Notandolo,
allora, Hermione si stringeva colpevolmente le spalle, metteva su un sorrisetto
timido e si acquietava: voleva dire che era di buon umore. Se era poi di ottimo
umore, e questo coincideva con le giornate di pioggia o di cattivo tempo,
diceva anche qualche parola. Monosillabi, perlopiù, frasi mozzicate che
sussurrava con voce greve. Uno scusami soffuso,
un perdonami soffice, un mi dispiace quasi tenero.
Se era quasi felice,
e se lui non l’aveva definita in modo diverso da bambina, lei motteggiava
persino un Quante storie! in tono ironicamente scherzoso: erano i giorni
in cui, invece che indicargli sommariamente con l’indice i punti del libro di
Pozioni che gli consigliava di memorizzare, si azzardava a dirglielo a voce.
Faceva uno sforzo continuo per parlare, Draco se ne rendeva presto conto, anche
se di solito prestava poca attenzione agli altri.
Ma con lei era
difficile non accorgersi di qualcosa, figuriamoci: per questo vedeva le parole
affollarle la gola, le vedeva premere come punte di lancia sotto la sua pelle,
le vedeva mescolarsi al sangue e smaniare per uscire. Ma lei rimaneva parca
rispetto ad esse, sembrava contarle in bocca e limitarle al minimo, le reprimeva
dentro e le faceva uscire solo se andava bene effettivamente dire qualcosa, o
lo trovava necessario ed utile.
Quando, poi, finiva
di parlare, tendenzialmente faceva un sospiro profondo, come se si fosse
stancata, come se ciò l’avesse lasciata esausta. A cena, poi, Draco l’avrebbe
vista guardare il contenuto del piatto senza particolare attenzione, l’avrebbe
vista fissare gli altri senza interesse, gli occhi spenti e l’espressione
persa.
Nei giorni meno
buoni, Hermione Granger non parlava affatto, non rispondeva, non faceva il
benché minimo rumore e non si muoveva per nulla: accadeva spesso quando c’era
il sole, o se faceva caldo, e soprattutto all’approssimarsi della notte.
Diventava una statua di sale, la mano sotto il mento e lo sguardo congelato.
Tentava spesso anche di ripetere il siparietto della negazione febbrile con la
testa, ma Draco la fermava sempre, specie da quando aveva scoperto che, in quei
momenti, tendeva anche a farsi male con le unghie della mano, graffiandosi il
viso. Sangue come cura ed espiazione.
Le separava i polsi, glieli tratteneva tra le mani e la rimproverava duramente.
“Smettila Granger…
lo sappiamo tutti e due che non sei pazza… quindi non credere di darmela a bere
che non attacca…”. Se lei continuava, spesso si alzava e se ne andava. Le prime
volte, lei era rimasta lì, seduta sulla sedia, le mani nei capelli. Dopo, nelle
settimane successive, aveva preso a rincorrerlo nel corridoio.
“Scusami…”
sussurrava mesta, guardandosi le mani che si torceva “Mi dispiace, per favore,
non te ne andare…”.
La prima volta in
cui lei lo aveva seguito, l’aveva lasciata lì adirato ed offeso dal suo
comportamento sconsiderato, come se ancora si ostinasse a difendere il sangue
che nelle sue vene rimbrottava di una purezza che era diventata, oggi, solo
peccato e colpa. La seconda volta, l’aveva sorpassata nervosamente, tornando
nella aula del quinto piano dove si incontravano ormai un pomeriggio sì ed uno
no. La terza volta, l’aveva guardata di sfuggita negli occhi bassi, si era
beato del rossore vergognoso sulle guance e si era sentito potente, in grado di
costringerla a chiedergli scusa. E la quarta volta, invece, una finestra
dispettosa si aprì, riversando la luce del sole morente sulla pelle del viso di
lei: Hermione strizzò gli occhi, gli stropicciò piano come se si fosse appena
svegliata e non riuscì a nascondere quel tremulo accenno di pianto che sapeva
sempre reprimere nel fondo dei suoi occhi, nei giorni di sole.
Fu come la luce di
un riflettore, che la ritagliò dallo spazio bianco dove Draco l’aveva sempre
relegata.
Ebbe colore, foggia,
peso: fu di nuovo Hermione Granger, non la pazza ragazzina che stava solo
sfruttando in mancanza di alternative. Fu una rivelazione da perderci il capo e
il senno: improvvisamente, come se tutto adesso fosse diventato
incommensurabilmente pesante, la vide davvero e di nuovo.
L’amica di Potter,
la fidanzata di Weasley, quella che entrava in Sala Grande scortata dalla
Piattola che la teneva sempre un braccio, come se fosse invalida e non
riuscisse a camminare. Quella che si sedeva a tavola con quelli che
regolarmente lo braccavano, quelli che oramai non lo picchiavano più perché lei
sapeva, ma comunque gli rendevano la vita un inferno non toccandolo neppure.
L’eroina del Mondo Magico, la strega più brillante della sua generazione, la
Mezzosangue zannuta. La Granger. Hermione Granger.
Si stropicciava gli
occhi Hermione, ed un braccialetto d’argento tintinnò al suo polso. Draco lo
fissò spaesato, come se fosse la cosa più importante del mondo, una vertigine
che gli annebbiava i sensi.
Una catenina
sottile, a maglie larghe, un ciondolo smaltato di rosso. Un cuore, due lettere.
H… R.
Due immagini si
sovrapposero su di lei: quella del nome e quella del viso. Il nome che lei
continuava ad avere, il destino che continuava ad avere, le parole che
continuava ad indossare, parole altrui d’accordo, ma parole che non potevano
nemmeno avere traccia impercettibile nel suo vocabolario. E poi l’immagine del
viso.
Gli occhi sgranati,
spaventati, dolcissimi, marroni come i pomeriggi d’autunno. I capelli
scarmigliati, annodati, legati, ma mai quando stava con lui, perché aveva
bisogno di qualcosa su cui distrarsi mentre li tormentava con le dita. Le
spalle magre, ossute, spesso piegate, e che in quel momento tremavano. Il corpo
esile, leggero, come quello di una farfalla dalla vita giornaliera. Le mani
intrecciate, sporche di inchiostro. La bocca rotonda, con le labbra serrate ed
un sospiro sfuggito sempre per caso.
La vide per la prima
volta, la rivide finalmente, o forse tutto assieme: ebbe coscienza, di nuovo,
di chi era, comprendendo finalmente che non la conosceva affatto. Si era
affidato a lei, perché era lei, non perché fosse una tra le tante. Ne ebbe
terrore, enorme, smisurato, al punto di voler fuggire e non tornare mai più indietro.
Ed invece fece solo
un passo, o così gli parve, ed invece forse ne fece due, perché lei era più
vicina, o forse ne fece troppi, perché lei improvvisamente era davanti a lui,
piccola, sottile, pronta a spezzarsi in mille pezzi.
Ad un respiro da lui,
Hermione si mordicchiò il pollice, i denti affondavano nella carne cercando di
aprire un varco per il sangue. Draco chiuse la sua mano tra le sue, la strinse
forte. Hermione, tremante, poggiò la fronte sulle loro mani intrecciate, chiuse
gli occhi, respirò come se le mancasse l’aria.
“Perché sono qui,
adesso?” chiese Draco sgomento, guardando la massa informe dei suoi capelli
“Perché mi aiuti? E perché fingi con tutti di non poter più parlare… mentre
invece lo fai ancora?”.
Attese forse ore,
forse minuti, forse secoli ed anni. La luce si spense, il sole tramontò e la
luna ricomparve nel cielo, ammantando di diamante le pietre bianche del
corridoio.
Senza nemmeno
muoversi, senza mai lasciare le sue mani, Hermione sussurrò a fatica: “Tutti
sono sempre pieni di domande. Mi fanno ammattire. Vogliono risposte, vogliono
che io parli, vogliono che io mi spieghi… ed io non voglio”. La voce della Granger era un rantolo confuso,
le sue mani tremavano in quelle di Draco come se la scuotesse il vento e lei
non fosse null’altro che un ramoscello secco.
“Non parli più… solo
perché non vuoi rispondere alle domande?” chiese Draco scettico, guardandola
dall’alto in basso, il calore delle mani di lei che ancora gli dava
l’impressione di scottarsi. Strizzò gli occhi per metterla a fuoco in quel
corridoio buio e deserto, non c’erano luci di nessun tipo, né fiaccole. Avevano
scelto quell’aula per quel motivo, era un’ala del castello abbandonata dalla
guerra, c’erano stati dei crolli e non ci si era dati ancora da fare per la
ricostruzione. Nessuno li avrebbe cercati lì. Adesso, Draco quasi voleva che li
cercassero, quasi voleva che lo strappassero da lì, quasi voleva che ci fossero
migliaia di voci a nascondere quella di lei.
Dal basso, risuonò
un suono gutturale, sordo, animalesco: lei che soffocava una risata triste.
“Deve essere più
complicato di così, no?” disse lei argentina, eppure così maledettamente triste
che Draco poteva contare ogni lacrima repressa nella sua voce. Finalmente lei
sollevò lo sguardo, lasciando le sue mani. Nel buio, Draco non la vedeva più,
non ne distingueva il minimo tratto, era come sparita. Lasciò cadere le braccia
lungo i fianchi, la punta delle dita che bruciava ancora era la sola cosa che
gli faceva credere che lei c’era stata e forse c’era ancora, lì, davanti a lui.
Hermione respirò a
lungo, come se fosse appena riemersa dall’acqua, prima di aggiungere incolore:
“Tu non mi hai mai chiesto nulla… per questo parlo con te… non ti interessa
farmi domande e non sei convinto di potermi aggiustare… non te ne frega nulla
di me, non mi vuoi bene, non mi apprezzi, né mi stimi. E io non ho bisogno di
altra gente che mi ami e mi voglia bene: ho bisogno solo di non pensare a
nulla. E tu mi consenti di farlo…”. Prese ancora fiato, prima di concludere con
un filo di voce: “Sei una distrazione. Punto. Non sono altruista, forse non lo
sono mai stata, sono egoista come te: a te non interessa chi ti aiuti, fosse
anche che sia io? Bene, per me è lo stesso. A me basta non pensare a me stessa.
Nessuno me lo lascia fare perché sono convinti che sia io ad avere bisogno di
aiuto… a te non interessa aiutarmi, interessa solo che io aiuti te. E ciò mi fa
sentire… uguale a prima.”.
Non la volle vedere
per giorni, dopo quella confessione. Negli occhi annebbiati, che pure non
l’avevano vista in volto nel buio di quel corridoio, era rimasta indelebile
come se fosse scavata l’immagine di Hermione Granger.
Uguale a prima:
Draco non si ricordava come era prima.
Certo, ne aveva
ricordo, ma era un ricordo sbiadito, annacquato, sporco, che era convinto che
non fosse reale. Pochi particolari gli ridavano la dimensione di quella che lei
era davvero prima, particolari minuscoli che ritagliava a forza dall’immagine
sbagliata che preservava di lei.
Si ricordava il
sorriso acceso che aveva quando qualcuno le chiedeva spiegazioni, si ricordava
come arricciava il naso quando qualcuno sbagliava una risposta, si ricordava
che una volta aveva detto che voleva fare l’insegnante.
Sezionava quei
particolari con la perizia di uno che fa un’autopsia su un cadavere, gettava
pezzi morti di lei altrove così da capire che cosa davvero lei cercasse di sé
stessa, stando con lui.
Non cercava la
presunzione spiccia di chi è sempre dalla parte giusta, non cercava l’orgoglio
smisurato che le dava la sua Casa, non cercava il coraggio spavaldo di chi si
crede padrone del mondo, non cercava nemmeno l’idealismo sfrontato dell’eroina
di guerra. Cercava altro, cercava la sua stessa più piccola, più misera, più
nascosta. Quella che aiutava, senza pretendere nulla in cambio, e quella che
sapeva insegnare, e che magari cercava così di costruire il suo futuro. Cercava
il solo filo rosso intonso che l’avrebbe legata alla sua sé stessa futura,
all’unica che adesso volesse essere: quella che, con la guerra, non c’entrava
niente, quella che, con la magia, non c’entrava niente.
Quella che forse
c’era sempre stata, ma che adesso voleva disperatamente tornare ad essere.
Quel prima di cui
lei parlava, Draco, lo capì subito. Non era prima della guerra, prima della
morte, prima della voce cancellata. Era un prima ancora più ancestrale, ancora
più vecchio, ancora più antico.
Si riferiva a prima
di sé stessa, si riferiva a prima di Hogwarts stessa, si riferiva a prima della
magia stessa.
Quando era solo una
babbana, ignara di tutto.
Draco capì
improvvisamente molte cose, tutte assieme, come una nebbia confusa che adesso
si diradava.
Stavano cercando la
stessa cosa, la stessa identica cosa: l’assoluzione. Che passava dallo smettere
di essere sé stessi. Lui sarebbe andato in un posto dove nessuno lo conosceva e
dove avrebbe potuto ricominciare. Lei cercava di dimenticare ogni traccia che
quegli anni le avevano lasciato, inseguendo e ricordando il sogno che aveva da
bambina, prima della magia, prima di tutto: fare l’insegnante.
Se lo consentivano a
vicenda, l’uno implorava l’altra di dimenticarsi chi erano prima. E funzionava.
Incomprensibilmente,
funzionava.
Per questo, lei con
lui parlava, nonostante fosse Draco Malfoy.
Per questo, lui si
faceva aiutare, nonostante fosse Hermione Granger.
Perché, quando erano
assieme, non avevano più alcun nome.
Solo tempo, respiro
ed innocenza di persone innominate.
La chiarezza sarebbe
arrivata dopo, senza di lei, così come la comprensione e la certezza. Avrebbe
avuto il profumo di un’estate fresca, dal sapore acerbo e sconosciuto, gravida
di promesse e estranea alle minacce. Avrebbe avuto il colore dei suoi
diciannove anni, un’età in cui tutto ancora era concesso e perdonato, anche a
lui, ma avrebbe avuto ancora dentro di sé lo strazio della perdita, il
rimpianto della mancanza e la dissoluzione sfilacciata della speranza: ma tutto
quello era mitigato dal miscuglio dolceamaro di pienezza nel sapere di aver
fatto la cosa giusta. Non sarebbe stata una sensazione immediatamente comprensibile,
visto che Draco non credeva mai di fare la cosa giusta, quanto piuttosto quella
sbagliata, o quella obbligata, o quella facile, o tutte e tre le cose assieme.
Presto, però, ne avrebbe assaporato il sollievo friabile, che, anche quando ti
sbrana il cuore che non sapevi di avere, almeno ti dà la consolazione di
ergerti ad eroe immacolato e pulito.
Allora, Draco
avrebbe riguardato indietro a quel suo ultimo anno ad Hogwarts ed avrebbe visto
ogni giorno che si lasciava alle spalle: e solo allora, lontano dalla sua
scuola e lontano persino da una parte di sé, sepolta a viva forza dentro il
castello, avrebbe capito la dimensione di quello che era accaduto.
Perché, tutto in
quell’ultimo anno, mentre lo aveva vissuto, gli era parso solamente un sogno. Aveva
la stessa consistenza lanosa e stopposa, la stessa sensazione immobilizzante di
sabbia mobile, la stessa inconsistenza eterea così che lui credesse che niente
fosse reale. E solo allora, avrebbe trovato le etichette e le parole per
descrivere quanto era avvenuto: solo quando fosse stato lontano da Hermione
Granger, che aveva ammantato la sua stessa mente della mancanza di qualsiasi
segno intellegibile. Aveva privato sé stessa delle parole ed allo stesso modo,
aveva fatto con lui, costringendoli a nutrirsi solo di respiri, di sguardi, di
tocchi, di sorrisi, ma mai di parole.
Tutto poteva essere,
e niente poteva essere allo stesso tempo, e questo dava modo di considerare
sopportabile starsi accanto se non avevano bisogno di mettere in chiaro niente,
di definire niente, di trovare parole per niente.
Solo, quindi, mesi
dopo, Draco avrebbe preso ogni giorno di quei mesi, trasformandolo in una
parola.
All’inizio era stata
la sopravvivenza, più o meno da
ottobre a fine novembre: lui voleva entrare a Saint Suliac, lei sembrava
disposta ad aiutarlo e Draco non aveva badato a nulla di diverso da questo. Era
come un bambino che mangia: bastava trovare la pappa pronta e lui non avrebbe
fiatato. La Granger aveva trovato un’aula disabitata al quinto piano, aveva
sistemato un lungo tavolo di frassino, aveva portato due sedie, aveva iniziato
ad ammonticchiare ad un lato del tavolo libri su libri, aveva scritto su una
pergamena i punti che lui avrebbe dovuto memorizzare a menadito. Si ricordava
con difficoltà il volto di lei, era come una meteora scintillante, prodiga di
attenzioni a cui lui non badava; di quel mese e mezzo ricordava solo l’odore
della carta e dell’inchiostro, la frustrazione di un concetto incomprensibile,
il trionfo di un’improvvisa risoluzione, la speranza che cresceva.
Avrebbe detto che
Hermione Granger era lì solo per il suo profumo, cedro e vaniglia; per il fatto che si muoveva troppo, se era di
buonumore; per il fatto che era silenziosa come una morta, se era di pessimo
umore; per il fatto che prendeva ad avere crisi di negazione, se stava male.
Solo in quel caso, e solo perché lo disturbava, badava davvero a lei: la
rimproverava, se ne andava, lei lo seguiva nel corridoio e diceva qualche
parola.
Ma tutto, tutto, era così misero nella sua testa
egoisticamente ingolfata da lasciare tracce di polvere lieve.
Poi era arrivata la
fine di novembre, il raggio di sole dalla finestra e lei che torna ad essere
Hermione Granger, e che al contempo gli appare così diversa da non sembrargli
simile ad alcun volto visto sulla terra da quando era nato.
Lì, aveva ricordato
che c’era. O lo aveva notato, o lo aveva finalmente appreso.
Lì, si era chiesto
che cosa ci guadagnasse lei, che cosa volesse lei, che cosa cercasse lei.
Lì, per la prima
volta, le aveva dato il fulgore dell’esistenza nella sua mente, solo questo.
Lei che voleva
diventare insegnante e, stando con lui, se lo ricordava; lei che parlava con
lui perché era il solo che non le faceva domande; lei che stava con lui perché
non le voleva bene e non tentava di aggiustarla…
… tutto quello
sarebbe venuto dopo, nell’estate dei suoi diciannove anni senza di lei.
In quel momento,
capì solo che Hermione Granger esisteva e, per qualche strano caso, esisteva
accanto a lui.
Già solamente
quello, per Draco Malfoy, fu l’inizio del mulinello di vento che sarebbe
diventato uragano.
Già solamente
quello, solo la scoperta di quello, lo separò da lei fino quasi alla fine di dicembre.
Le feste di Natale
furono veramente bastarde.
Che pochi sarebbero
tornati a casa, era un’ovvietà. Tra quelli che avevano metà famiglia al
cimitero e quelli che avevano metà famiglia ad Azkaban, già si potevano
riempire due quarti della Sala Grande. Se poi ci si aggiungeva chi semmai non
voleva tornare a casa perché aveva dei parenti vivi e presenti con il corpo, ma
lontanissimi con la mente, oppure chi a casa comunque non ci tornava mai, o chi
non aveva casa a cui tornare… bè, non fu ovviamente una sorpresa che a prendere
il treno del ritorno furono solo pochi primini e una ventina di ragazzi più
grandi. Tutti, intimamente, volevano scordarsi che era Natale, era una festa da
lente d’ingrandimento perché ingigantiva ogni macchiolina miserrima che poteva
esistere in un’anima, in una casa, in una famiglia. Ma, naturalmente, ai
professori, alla neo-preside McGranitt, persino a Gazza, sembrava assurdo non
festeggiare.
Gli adulti, i
grandi, i saggi, avevano raggiunto la composta gratitudine di essere ancora
vivi; i ragazzi, contrariamente a loro, conoscevano ancora la rabbia del lutto
impotente e la tristezza esasperante del voler lasciare tutto immoto ed
intonso. Perciò, ad ogni decorazione appesa, ad ogni canto intonato, ad ogni
luccichio sospeso, ad ogni albero addobbato, gli adolescenti rispondevano con
sbuffi di fastidio, se non addirittura con distruzioni gratuite. La Preside fu
costretta persino a porre sugli addobbi degli Incantesimi Auto-riparanti.
La tristezza era
come un miasma gelatinoso che annegava tutti, confondendosi nei piatti
opulenti, nei dipinti lucidi, nelle luci sfavillanti, nel soffitto nevoso, nel
cielo terso: non la si poteva ignorare e basta.
Draco Malfoy si
accorse immediatamente della tensione che saliva nel castello: non era un buon
segno. Tendenzialmente se la tristezza, il rammarico o il ricordo crescevano
d’intensità, avrebbero trovato uno sfogo fin troppo semplice ed immediato. Lui. Saint Suliac sembrava sempre di più
l’oasi nel deserto, dove inseguire finalmente la pace tanto agognata. Cercava
solo di pensare a studiare, non guardava nessuno nei corridoi, a lezione si sedeva
sempre in fondo, cercava sempre di andare in giro accompagnato almeno da
qualcuno.
Aveva però enormi
buchi di concentrazione, fittissimi; improvvisamente la sua mente diventava
nera e lui non riusciva a pensare a nulla, lambiccandosi per ore sui particolari
più cretini. Aveva appreso più o meno a memoria tutte le pozioni mediche più
conosciute, si stava avventurando con quelle più complesse, ma sapeva che
doveva elaborare quanto prima quello che aveva appreso per creare qualcosa di
completamente originale.
E non sapeva se ne
era in grado, da anni passavano l’esame quelli che creavano pozioni per
squilibri mentali oppure per patologie cardiache, e sicuramente si trattava
delle pozioni dai maggiori effetti collaterali e dalla più alta instabilità
nella preparazione. E lui non ci aveva ancora minimamente messo mano in quelle
già esistenti, figuriamoci se poteva crearne una propria. Trascorreva ormai le
ore nell’aula deserta al quinto piano, una mano tra i capelli e tomi sparsi
aperti davanti a lui, di cui non riusciva a ricostruire nemmeno un ordine
logico da cui iniziare. Doveva passare dalla teoria alla pratica, adesso. E non
aveva la minima idea di come fare.
I giorni passavano
leziosi e pigri, senza che lui riuscisse a fare nulla. Incapace di trovare una
soluzione qualunque, era vittima degli scatti più improvvisi e delle volizioni
più immediate ed incomprensibili. Era seduto in classe e, repentinamente, aveva
voglia di giocare a Quidditch ed aveva l’impressione che se non avesse
immediatamente preso una scopa, sarebbe morto. Poi la voglia passava, e
sprofondava ancora nell’apatia.
Si ritrovava a
camminare per il parco o per Hogsmeade alle ore più disparate, i passi
strascicati e lenti, e poi improvvisamente veloci, sfreccianti, incalzanti se
veniva colto dalla voglia di tornare al chiuso.
Fu per quello che si
ritrovò al binario della stazione di Hogsmeade la sera del 15 dicembre, nel
momento in cui coloro che decidevano di tornare a casa per le vacanze
prendevano il treno. L’aria era fredda e stagnante, lui si era dimenticato la
sciarpa e il cappello, eppure non ne voleva sapere di tornarsene indietro. Si
era lasciato cadere su una panchina vicino al binario, malamente illuminata da
una luce tremula. Guardava un cespuglio davanti a lui dalle foglie rade e
secche, con l’improvvisa tentazione di appiccargli fuoco. Ogni tanto, senza
premeditarlo, la sua testa si sollevava e guardava distrattamente la folla di
ragazzi che partivano, seguendo abbracci e spiando carichi di bagagli. Sbuffava
nel guardarli, poi tornava al suo cespuglio, il respiro affannato.
“Ed allora mi
consentirai di dirti che te l’avevo detto!” una voce argentina, acuta,
insopportabile, gli ferì le orecchie, costringendolo ad una piccola e buffa
capriola per restare seduto. Si appiattì maggiormente sulla panchina, tentato
dal pensiero di alzarsi e di allontanarsi, l’aria della notte che si chiudeva
attorno a lui. Ma invece riuscì solamente a ruotare di poco il viso, guardando
le ultime due figure che avanzavano sotto la pensilina del binario, muovendosi
velocemente. La prima catturò tutta la luce del lampione mezzo fulminato,
rilucendo come una fiamma d’autunno, mentre camminava a passo sostenuto e si
trascinava un grosso baule.
Draco non la guardò
neppure per un secondo, voltò quasi il viso infastidito.
Poi, ancora, tornò
indietro con gli occhi, osservando con lentezza la seconda figura che avanzava
piano, non facendo il benché minimo rumore, come se nemmeno respirasse. Se non
fosse stata per la nuvola di vapore acqueo che sfuggiva dalle labbra rosse e
screpolate, l’avrebbe detta un fantasma senza riposo.
Un cappello dalla
buffa forma di fagiolo calato sul capo, in lana cotta color prugna, i capelli
seminascosti ed arricciati in onde disordinate sul panno del cappotto nero,
l’andatura annoiata e stanca, il corpo dimagrito.
E gli occhi nascosti
dai capelli, mentre si portava le mani alla bocca, soffiandoci sopra per
riscaldarsi.
Draco si tirò
bruscamente su a sedere, come se fosse stato punto da una vespa. Gli occhi
annotarono senza precisa intenzione che Hermione Granger non aveva alcuna
valigia accanto a sé, nessun baule. Niente di niente.
Non aveva l’aria
affannata e contenta di chi sta tornando a casa dal proprio amichetto del cuore
e dal suo fidanzatino straccione: aveva un’espressione rassegnata, sollevata
quasi, le occhiaie che le circondavano gli occhi.
E
si è dimenticata i guanti, adesso avrà le mani fredde. O forse lei le ha sempre
calde, caldissime, come se avesse la febbre?
La Weasley, arrivata
davanti al treno e spinto dentro il baule, l’abbracciò di slancio circondandola
con le braccia. Hermione fece un sorriso strano, storto, sghembo che soffocò
dentro i capelli della sua amica, limitandosi a poggiarle fraternamente una
mano sulla spalla. Draco fu sicuro di aver visto dentro i suoi occhi un
luccichio quasi di impazienza, come se volesse solo correre via.
“Sei sicura che non
vuoi venire, allora? Che ci farai qui tutta sola…” commentò la Weasley con tono
fioco, come se avesse ripetuto la cosa mille volte. Per un attimo lo sguardo
della rossa si eclissò, cercò qualcosa nel volto della Granger come se fosse
alla ricerca di un pezzo stonato, di una macchia, di una ruga rivelatrice.
Hermione sospirò e
basta, non fece altro, e Draco stupidamente si chiese se non fosse arrabbiata,
se non avesse semplicemente litigato con la Weasley e non le parlasse più. Poi,
come un fulmine, ricordò.
Se la rivide di
nuovo davanti, dorata, illuminata dal sole, che si stropicciava gli occhi. Il
calore di quel ricordo d’autunno gli penetrò nelle ossa, facendolo sentire
accaldato nel mezzo della notte più gelida dell’inverno inglese.
Tu non mi hai mai chiesto nulla…
per questo parlo con te…
Con la Weasley non
parlava, con nessuno parlava. Se ne era dimenticato, abituato com’era e come
negava di essere a sentire la sua voce nel cervello quindici volte al giorno. E
come aveva scoperto solo in quell’istante, solo quando la Weasley partì
abbracciandola ancora, solo quando la Granger si accorse di lui e lo guardò per
un attimo, immobile, gli occhi spalancati, le mani chiuse a pugno e il volto
livido, come se gli avesse appena tirato uno schiaffo. Draco le restituì uno
sguardo stanco, incomparabilmente colmo di tristezza pigra, di acredine
dissimulata, di confusione sconvolta, di malinconia stantia.
Si preparò a sentirla
parlare, si preparò a vedere le parole premere contro la sua gola, si preparò a
che lei lo facesse sentire speciale ed unico al mondo, pure nel suo inutile,
pazzo e goffo modo.
Si preparò
inutilmente.
Quando ebbe il
coraggio di riaprire gli occhi ed alzare lo sguardo, Hermione Granger era già
andata via.
Se lo sarebbe dovuto
aspettare, ma invece non l’aveva fatto.
Quando aveva varcato
il portone d’ingresso, avrebbe dovuto rendersi conto che non c’era nessuno
nell’androne, che Gazza era disperso e che le porte scricchiolavano come in un
pessimo film dell’orrore. Avrebbe dovuto notare l’aria infinitamente più gelida
che all’esterno, avrebbe dovuto collegare la partenza dei pochi fortunati per
le vacanze all’aumentare dell’angoscia per chi restava, avrebbe dovuto capire
che lui sarebbe stato il perfetto sfogo rapido e potenzialmente indolore. Ma
Draco Malfoy, invece, non si accorse di nulla, entrò nel castello a testa
bassa, occhi sulle mattonelle grigie e nere. Nelle crepe del pavimento,
baluginavano continui ed intermittenti riflessi oro di pomeriggio d’autunno e
nelle orecchie avvertiva l’eco malsano di parole che non riusciva ad intendere.
Non si accorse nemmeno del dolore, di primo acchito si rese solo conto che le
mattonelle erano sporche. Rosso. Rosso sangue. Rosse del suo sangue.
Avvertì solo allora
la prepotenza lacerante del colpo subito: alla testa, alla nuca, alle spalle,
come non si addiceva ai suoi nobili aggressori. Ergo, non erano Grifondoro.
Ergo, non erano Tassorosso o Corvonero.
La vista che veniva
meno, una mano stupida a constatare l’entità del danno, il sangue che schiumava
tra le sue dita, capì che quel giorno la tristezza era trasversale. Colpiva
anche chi, di solito, era lontano miglia di presunzione da essa. Ed anche un
Serpeverde poteva odiarlo come lo odiavano tutti gli altri.
Perché i suoi
genitori erano in esilio, e non morti, catturati, torturati, imprigionati.
Perché erano sempre
stati una mattonella grigia, in un mondo dalla pavimentazione bianca e nera.
Una cortina scura calò
sulle sue iridi, mentre sentiva altri colpi ferirlo alle gambe, alle braccia,
al busto, sulla schiena. Rinunciò preventivamente alla difesa, sapendo che
sarebbe durata poco.
Ad un Serpeverde non
sarebbe interessato nulla di preservarlo presente a sé stesso.
Finalmente, almeno
per una volta, avrebbe perso i sensi.
Da quando aveva
smesso di farsi male da solo, le ferite altrui facevano infinitamente più male.
Gli sembrava di essere avvolto da un unico e potente rogo, che lo stava ardendo
come il frammento di una corteccia di un albero. Non riusciva a localizzare il
dolore, a capire da dove provenisse, sembrava nascere dall’interno di sé stesso
e trovare sfogo su ogni centimetro quadrato della sua pelle. Si sarebbe
staccato gli arti a morsi, pur di farlo smettere: ogni refolo d’aria, ogni
soffio di vento bruciava il sangue come sale sulle ferite. Sotto la sua schiena
martoriata il pavimento era duro come la lapide di una tomba vergine, cercava
di muoversi ma non riusciva nemmeno ad aprire gli occhi. Sentì delle voci,
ovviamente, ma passavano oltre, lontane, non curandosi di lui. Gemeva,
implorava, ma probabilmente lo avevano lasciato in un posto dove nessuno lo
avrebbe trovato. Invocò l’incoscienza che non arrivava, maledisse la tempra del
corpo che lo manteneva vigile al dolore, imprecò contro sé stesso, il suo
sangue ed il suo nome. E non l’aveva mai fatto.
Vite dopo, anni
dopo, secoli dopo, avvertì improvvisamente un respiro fresco accanto a lui.
Trafelato, affannato, persino singhiozzante. Pensò che stava finalmente per
perdere coscienza e che, in regalo, stesse avendo uno scatto d’immaginazione,
una visione dolce come un Caronte onirico improvvisato che gli rendesse tutto
quasi leggero.
Sentì il calore di
una mano sottile sul viso, era una mano tiepida che però lo rinfrescava come
acqua sorgiva, poi ancora udì l’eco spezzato di un singhiozzo ed un accenno di
pianto. Una sola parola.
“Draco…”.
Il suo nome:
aveva una voce lieve, da passero, da donna, da principessa delle fiabe; una
voce, però, incommensurabilmente triste, da vecchia, da morta, da vittima
murata viva.
Sentì il tocco di
una bacchetta sulla fronte, la sensazione quieta del dolore che si calmava,
quella mano sempre sul suo viso come l’ancora di salvezza mentre annegava
nell’oblio.
La nozione di sé
stesso sparì un attimo prima di respirare a pieni polmoni l’odore del suo
salvatore.
Cedro
e vaniglia.
Troppo rosso: fu la
prima sensazione che provò al risveglio. E a lui il rosso faceva venire
l’emicrania. Specie quel rosso. Il
rosso dei Grifondoro, il rosso dei Weasley, il rosso del sangue maledetto che
sgorgava dalle ferite.
Draco credette
subito di essere diventato daltonico, a causa di un trauma cranico subito. Il
baldacchino del suo letto sembrò infatti rosso, da verde quale era sempre stato.
Non se ne preoccupò, richiuse gli occhi grigi stanchi e cercò di riprendere
sonno. Ma i sensi si erano risvegliati, tutti, uno dopo l’altro. E se la vista
la poteva ingannare, gli altri non erano dello stesso avviso.
Il sapore del
sangue, in bocca, riecheggiava come l’eco sordo di un passato non troppo
lontano. Sapeva di ferro, di metallo, dell’ennesima umiliazione subita e non
ancora, non mai, lavata via. Ad esso, si accompagnava un senso generale di
spossatezza, ma nessun dolore, solo fastidio.
Il tocco di cotone
sulla pelle, nei punti dove aveva sentito più male: attorno alla testa, al
ginocchio, sulla schiena. Fresco come un vento di primavera, gli dava la
sensazione di pulito, di casa, di cura sollecita e materna che non sapeva
nemmeno riconoscere. Sotto le sue mani, stese pigramente, sentiva la superficie
morbida di un copriletto caldo, di lana, soffice, che gli dava ancora una
sensazione di calma e di pace.
Il gusto e il tatto
furono ospiti graditi e poco molesti: poi venne l’udito ed infine l’olfatto, e
quelli se ne fregavano di lui e di quello che poteva sopportare.
L’udito… sentì
improvvisamente un respiro, quieto, dolce, spezzato. Una persona addormentata.
Accanto a lui.
L’olfatto fu come un
colpo sordo di cannone dentro il petto. Cedro
e vaniglia.
Riaprì gli occhi
quel tanto che bastava per trovare Hermione Granger vicina, troppo vicina, più
vicina di quanto non fosse mai stata in tutta la sua esistenza. Voltando il
viso verso sinistra, la vide distesa, la testa poggiata su un cuscino accanto
al suo. La sensazione di calore al cervello fu così devastante ed immediata da
fargli venire le vertigini, nonostante fosse disteso: era nella sua stanza,
nella stanza della Granger, sul letto dove lei dormiva ogni notte. Il profumo
di cedro e vaniglia gli apparve così intenso da soffocarlo.
Era distesa lì,
addormentata, ad un respiro da lui. Non avrebbe potuto arrivare a distendere il
braccio senza toccarla, erano solo una quarantina di centimetri. In posizione
fetale, non portava il pigiama ma un maglione rosso ed un paio di jeans; era
rannicchiata in sé stessa, un braccio piegato sotto il capo, un libro aperto
accanto a lei. Il viso era sereno, quieto, tranquillo, i capelli ne coprivano
una buona metà.
Draco avvertiva
improvvisamente il dolore delle mille ferite che gli martoriavano il corpo.
Bruciavano come se ci fossero conficcati degli spilli, che gli impedivano di
muoversi e lo tenevano ancorato a quel letto come un insetto infilzato e posto
in esposizione. Lei lo aveva trovato, lei lo aveva curato, lei si era
addormentata accanto a lui.
Gli occhi saettarono
in ogni direzione, terrorizzati, cercando di evitarne la vista, e si saturarono
dei particolari della vita nascosta di Hermione Granger. Una quantità abnorme
di libri, sparsi dappertutto ai piedi del letto. Una sciarpa azzurra, poggiata
su una sedia. Fotografie incorniciate sul comodino, con Weasley maschio e
femmina, e con Potter. Stava per vomitare, se ne doveva andare immediatamente.
Fece forza sulle
braccia per tirarsi faticosamente a sedere, riuscendoci con sforzo. Lei non si
mosse. Poggiò i piedi per terra, si alzò in piedi e calcolò quanta distanza lo
separava dalla porta e quanto potesse muoversi senza fare rumore e senza
svegliarla. I cardini della porta erano vecchi, avrebbero cigolato, ma magari
lei comunque non si sarebbe svegliata, magari era stanca. Doveva esserlo per forza, chissà come lo aveva portato fin lì.
Fece un passo lento,
silenzioso, assorbito dalle pietre delle pareti, sospirò di sollievo nonostante
il dolore sordo agli arti inferiori, ma poteva arrivare alla porta, poteva
tornare ai sotterranei, poteva lasciare la stanza senza badare alle bende, alla
bacinella con la pozione Guaritrice sul comodino, alle occhiaie violacee sul
viso di Hermione, alla sua voce lieve che nella sua testa continuava a dire il
suo nome come quando lo aveva trovato.
Aveva la mano sulla
maniglia, aveva il cuore già al sicuro nel suo scantinato confortevole, aveva
già il respiro sciolto di uno che era al sicuro. E poi lei fece un singolo, solitario,
minuscolo verso. Di gola, profondo, gutturale, come se stesse annaspando, a cui
seguì un singhiozzo, forse qualche lacrima.
Draco smise di
respirare quando si accorse che, in una botta di annebbiamento, era tornato
indietro. Veloce, rapido, come se nemmeno avesse bisogno di dare impulso alle
gambe e di accorgersi di qualcosa.
Ed era di nuovo
steso accanto a lei, vicino a lei, sul cuscino accanto a suo, nell’alone di
cedro e vaniglia che lei si lasciava alle spalle. Avrebbe detto che era stanco
e voleva riposare ancora un po’, ma non era riuscito a mentire.
Non aveva potuto.
Perché anche la sua
mano destra era scattata da sola e se ne era accorto solo per il dolore sordo,
lancinante, che aveva provato al fianco sinistro, mentre si voltava verso di
lei e faceva leva su un livido bluastro.
La mano destra era
scattata come un elastico rilasciato, senza il benché minimo controllo, ed era
corsa al viso della Granger. Draco, terrorizzato, si era visto accarezzarle
piano i capelli con il pollice, mentre la mano restava ferma sulla sua nuca.
Non poteva farne a meno, non poteva nemmeno pensare di non stare lì a calmarla,
a vedere il respiro di lei che piano tornava normale, a poggiarsi su quel
fianco maciullato che lo faceva gemere ad ogni fiato. Le dita continuavano
piano ad accarezzarla, Hermione dormiva ancora e lui si ricordava di quanto, da
bambino, i suoi amici lo sfidavano a “tocca il babbano” e perdeva sempre.
Adesso lo dovevano
sfidare a “non toccare la babbana” per farlo perdere.
Hermione, piano,
aprì gli occhi e lo trovò lì, di fianco a lei, gli occhi grigi sgranati e la
mano intenta in quella carezza lenta, calda, dolcissima. Lesse il suo
imbarazzo, lesse l’impaccio, lesse quello che lui voleva dirle e lesse quello
che non avrebbe mai detto. Una spina sorda la colpì al petto, costringendola a
chiudere gli occhi.
“Puoi andartene
quando vuoi…” sussurrò Hermione con un gemito sordo, non sentiva la sua voce da
quando gli aveva parlato l’ultima volta e stranamente non la riconosceva “Non
devi stare qui, per forza…”.
La mano di Draco si
fermò, si staccò da lei e riposò fredda lungo il fianco.
Un attimo dopo, lui
era nei sotterranei, nel suo letto verde, nell’asettico odore di silenzio,
nell’asfittica sensazione di vuoto e di spento. Aveva solo un compagno, un solo
pensiero, un solo singolo movimento dei ragionamenti sotto le palpebre chiuse. Hermione Granger è un derelitto, una pianta
ornamentale, un’isterica Mezzosangue pazza.
E
mi salva sempre.
Dalla
prigione, dalla disperazione di non avere un futuro, dai pestaggi. Persino da
me stesso, se improvvisamente mi accorgo di lei al punto tale da non riuscire a
fingere di ignorarla.
Hermione Granger lo
salvava sempre.
E non aveva ancora
finito.
Il giorno di Natale
ad Hogwarts erano due le storie che si ripetevano di bocca in bocca.
Ben più dei regali
ricevuti, degli auguri mancati, dei baci scambiati.
Una, la prima,
sconcertava solo per il numero.
La Preside McGranitt
aveva sospeso ben cinquanta studenti, senza che emergesse un ben preciso
disegno nella punizione. Erano Grifondoro e Serpeverde, studenti all’ultimo
anno come al secondo, terzo, quarto e così via.
Un treno apposito li
riportò a casa, livorosi, incattiviti, increduli.
Nessuno seppe il
perché e nessuno lo chiese loro, ma ognuno di quelle facce recava il segno
della consapevolezza di cosa li portava a quelle vacanze forzate.
L’altra, la seconda,
sconcertava e basta.
Hermione Granger, la
muta, la pianta ornamentale, il derelitto per eccellenza, aveva parlato.
Si sapeva solo che
aveva parlato con la McGranitt, non si sapeva di che cosa avesse parlato, non
si sapeva altro. Arrivarono lettere su lettere a lei dei suoi amici, la gente
nei corridoi la interrogava selvaggiamente, i professori facevano a gara per fermare
il placcaggio sulla ragazza, mentre tutti concludevano che il voto del silenzio
era imposto, non era collegato a nulla di fisico.
I due canti di
Natale di Hogwarts rimbalzarono come biglie impazzite nelle orecchie di tutti
fino a Capodanno.
Solo Draco Malfoy,
vedendo chi era che partiva dopo essere stato sospeso, aggrappandosi ad una
colonna della stazione, comprese il collegamento tra le due storie.
Aveva appena
ricevuto il suo regalo di Natale da parte di Hermione Granger.