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Autore: Fanriel Kerrigan    09/07/2013    1 recensioni
Io ho subito tutto ciò e ora vedo qui al mio funerale più gente di quanta ne abbia mai vista al mio compleanno.
(scritto a 17 anni)
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Morta che nemmeno avevo 18 anni. Gli ipocriti poi al giorno del mio funerale dissero che ero sempre stata una brava ragazza, una bella ragazza.

Sì, sì… mi volevate tutti bene. Ma perché allora mi avete lasciata morire?

Schiaffata sulla pagina della cronaca cittadina, ero un’adolescente come tante, un cuore buono e paziente come pochi: una vittima accidentale della corrente d’aria che m’ha schiacciata contro il muso di un camion.

Ma va…Smettetela di sparate cavolate. Diciamo che quando mi avete visto l’ultima volta ero già sull’orlo del burrone, e il vostro amico Dario mi ha dato un’altra spintarella.

Lui e la sua sicurezza di sé, voi e la vostra stupida superiorità, mi avete schiacciata voi contro il camion, e scommetto che quando mi avete riconosciuta sul giornale siete stati immensamente felici! Anche i miei genitori, secondo me, sono stati immensamente felici. Ero solo una spesa in più, giusto? Mi dispiace aver respirato la vostra stessa aria, ragazzi. Mi dispiace davvero molto. Non vedo l’ora che cominciate a fare incubi su di me, ipocriti che non siete altro, che adesso fate finta di piangere. E non gettate quel maledetto fiore sulla mia tomba. Sono avvelenate le vostre rose. Mi fate schifo.

Mi fa schifo soprattutto il vostro amico Dario. Avevo affidato tutte le speranze a quella sera un po’ annuvolata, al vestito che avevo rubato nell’armadio di mia zia, alle scarpe con i tacchi che mi aveva prestato mia madre, avrei voluto filasse tutto liscio perché ci tenevo davvero a piacere a quello stronzo.

Ma lo vedevo nei suoi occhi che trovava molto divertente il mio modo di camminare e si prendeva gioco del mio corpo ogni volta che mi guardava, sorridendo forse del fatto che non avevo le gambe lunghe come le ragazze che frequentava, o del fatto che non avevo sicuramente il viso magro come loro, e i miei capelli non erano tirati con la piastra.

Ci ero abituata, dovevo solo fare finta di niente, portare pazienza; ancora una volta mi sarei sottoposta a quel martirio, tranquillamente, senza fiatare, come eravate abituati e vedermi fare. Tacere e sopportare era tutta la mia vita. Per tanto tempo non vi ho detto una parola, perché mi stavate tutti immensamente sullo stomaco. Non ho aperto bocca perché il dolore che provavo era così tanto che sembrava un fiume in piena e da un momento all’altro sarebbe straripato, attraverso le mie labbra che non avrebbero mai ricevuto un bacio, arrivando a voi come la bestemmia più grande che sareste mai riusciti a sentire, o solo come un pianto che sarebbe durato di lì all’eternità.

Non lo saprete mai. Tanto, non vi sarebbe interessato nulla, comunque.

Adesso siete lì a piangere, e non credete che io non vi stia guardando.

Falsi, meschini, vipere che non siete altro, si voi altre che adesso vi abbracciate. Maledette dee, ve li strapperei volentieri quei capelli lunghi e lisci.

Tornatevene a casa dal vostro fidanzato, sparite.

Mi ricordo di te, Anne, seduta nell’ultimo banco. Avevi una piscina a casa tua e tutti i fine settimana invitavi tutta la classe a qualche festa. Tutti tranne me. E quella volta che ebbi il coraggio di chiederti il perché, cos’è che mi hai detto che non ricordo bene? “ No perché fai uscire tutta l’acqua?” Sì, sì , ricordo bene fu così.

Tu, Dario e gli altri avete riso di fronte al mio sbigottimento. Ma non ho pianto, questa soddisfazione non ve l’ho data. Anne, senti, tornatene a casa, e vai a ridere di quel giorno. Sei completamente inutile qui, oggi.

Ma lo sai cosa mi è costato quel giorno? La cicatrice che avevo sul braccio, ricordi? I miei genitori mi hanno mandata dall’assistente sociale ,per colpa delle tue stronzate, che mi avevano invogliata a prendere il coltello di mio padre macellaio per controllare di che colore fosse il mio sangue.

E’ rosso. Rosso come il maglione troppo stretto che mi hai regalato tu, Lindsey.

Tu, hai fatto finta di essere mia amica quel giorno: era il mio compleanno, stronzetta.

Hai rovinato tutto. Con il tuo faccino pulito sei venuta da me portandomi quel dono, e mi hai fatto un sorriso grandissimo. Mi hai pregata di indossare quel capo, e io l’indomani l’ho indossato sebbene mi andasse troppo stretto. Per non farti un dispiacere, mi sono fidata di te. Era troppo stretto quel maglione, non mi stava bene addosso. E tu, Anne e Dario eravate là a ridere. Non mi sono fidata più di nessuno, ti rendi conto? Ti rendi conto di aver distrutto il mio compleanno?

Eravate troppo belle, troppo cattive, per me. Eravate troppo.

Avrei dato tutto per essere come voi, ma adesso che ci penso bene, preferisco essere vissuta com’ero, che vivere la vostra stessa vita.

Spero possiate vivere a lungo, davvero, ma spero non siate mai felici. Mi auguro che il vostro fidanzato vi tratti male, mi auguro che un giorno vi troviate senza soldi , così indosserete non abiti, ma stracci. E se sentite una risata, nel buio della vostra stanza di appartamento in affitto da quattro soldi, non abbiate paura: sono solo io.

 

..Me lo ricordo quel giorno. Io ero seduta sull’erba del parco a guardare il cielo, mentre tutt’attorno a me i bambini si rincorrevano e la vita si svegliava per la primavera, mentre io stavo considerando l’idea di morire. Lo sapevamo solo io e Dio quanto stavo soffrendo.

All’improvviso un’ombra si parò davanti ai miei occhi, e vidi che era il viso di Dario, il ragazzo che segretamente amavo, e che non mi aveva mai rivolto parola in vita sua, se non per offendermi.

Aveva la solita aria sicura, la solita smorfia ironica, e gli occhiali da sole che gli nascondevano gli occhi chiari.

C’era un venticello delizioso, ma io ero inchiodata a terra dal terrore.

- Ti va di uscire stasera? Se sì fatti trovare alle sette pronta sotto casa tua. Andiamo a ballare.-

Mi disse qualcosa del genere, prima di girarsi e andarsene fischiettando allegramente. E per me quella fu veramente primavera.

Anche se c’era sempre la solita vocina che mi diceva di non fidarmi e far finta di non avere udito, io ascoltai il cuore. Forse era la mia occasione.

Ma la vocina non mi aveva mai tradito.

Tornai a casa di corsa, inforcando il motorino, senza indossare il casco, pensando disperatamente che , Dio mio, non avevo l’abito per quell’occasione. Dario mi aveva invitata alla festa di Anne, in piscina. Proprio Dario. Il ragazzo che rispettavano di più non solo nella scuola, ma nel paese.

Ma correndo verso il mio vecchio motorino blu, non mi ero accorta che c’erano Dario ed Anne, che già ridevano di me fumandosi una sigaretta. Lo leggo ora nelle loro coscienze sporche.

Volevo essere bellissima quella sera e più mi avvicinavo a casa più mi pareva possibile. Ce l’avrei fatta, ne ero sicura.

Con il cuore che mi batteva forte, salii le scale, entrai in camera mia e chiusi la porta.

Mi spogliai e mi misi davanti allo specchio.

Adesso che posso, rido di me stessa. Con che coraggio, quella sera mi sarei fatta vedere da tutta quella gente?

Quando aprii l’armadio, rimasi delusa. Non c’erano camicette eleganti, pantaloni con gli strass. Niente di niente. Forse, nascosto in fondo all’armadio, avevo ancora il vestito da sera che avevo rubato a mia zia. Volevo tenerlo per il mio primo bacio, in un tempo che sembrava lontano anni luce di lì, un tempo in cui sognavo ancora di principi e di principesse e di castelli in riva al mare.

Il vestito c’era e a fatica lo indossai. Non era così bello come mi era parso, ma non avevo altro. Già cominciavo a buttarmi giù di morale.

E intanto l’orologio segnava le sette meno un quarto.

Presi le scarpe con i tacchi di mia madre, e cercai velocemente di imparare a camminarci, poi velocemente mi truccai, senza accorgermi che mentre passavo la matita nera i miei occhi già piangevano.

Una sistemata veloce ai capelli e allo specchio sembravo soltanto una stupida vestita a festa.

Ero terribilmente abbattuta. Il cuore mi si fermò quando qualcuno suonò il campanello.

E alla porta c’era Dario.

Mi disse che ero bellissima, ma io lo sapevo che in fondo lui avrebbe voluto ridere. Lo capivo dai suoi occhi. Era colpa di quegli occhi se stavo facendo l’errore più grosso della mia vita, era colpa di quel viso, di quel corpo, di quei capelli, di quell’aria spavalda, di quel profumo.

Lo seguii, come un bambino che segue un’ape senza sapere che per quanto bella possa sembrare prima o poi lo pungerà.

Mi fece salire sulla sua Alfa Romeo e salì a sua volta, sempre con quel sorriso sulle labbra. Mi sentivo un pagliaccio. Anzi, non mi sentivo un pagliaccio. Piuttosto mi sentivo come l’attore che vorrebbe tanto interpretare una parte drammatica e invece suscita solo ilarità. Era una parte drammatica la mia: la parte della ragazzina che cerca di riscattarsi sotto gli occhi del ragazzo che ama.

Se non sbaglio tu ti interessi alla…pittura?” mi chiese, amichevolmente. E io pensavo che se quello era un errore avrei voluto sbagliare mille volte ancora.

Avevo paura, dentro di me, perché quella voce nascondeva la maligna ironia della gente, non solo quella di Dario. L’ironia di tutte le persone che avevo conosciuto fino a quel momento.

Io gli risposi di sì.

Eravamo in viaggio da un po’, a parecchi chilometri da casa mia. Ad un certo punto mentre eravamo sulla statale, lui accostò.

Avvicinò il viso al mio e mi baciò su una guancia, e non disse nulla. Mentre il mio cuore batteva fortissimo, e faticavo a deglutire.

Con un pretesto, che ora non riesco a ricordare, mi fece scendere dall’auto, dicendomi di aspettare un attimo.

L’ultimo attimo, l’attimo di troppo.

Vidi l’auto allontanarsi, e realizzai subito che ancora una volta avevo permesso a qualcuno di farmi del male.

Il mio cuore si riempì di una disperazione e di un dolore immensi. Non sentivo più le gambe, né le braccia. Le lacrime erano così tante che non riuscivo a versarne nemmeno una.

Realizzai che quello di Dario era stato solo uno scherzo meschino, realizzai di essere sempre la solita stupida cicciona.

Mi misi una mano tra i capelli e ne strappai una ciocca.

Avrei dovuto tornare a casa camminando ma i piedi mi facevano male da morire. Maledette quelle scarpe, maledetta me che ci ero cascata, maledetta la vita, maledetta quella notte in cui le stelle brillavano sadiche e mi deridevano anche loro.

Avrei voluto prenderle e farle a pezzi, schiacciarle sull’asfalto umido e puzzolente di pioggia.

Mi trovai incapace di agire, sola e abbandonata, come un cane lungo l’autostrada ,che aspetta i propri padroni. Era da anni che morivo, perché nessuno era mai venuto a raccogliermi dal ciglio di quella strada e a curare le mie ferite. Avevo sempre dovuto fare tutto da sola. DA SOLA.

Quando capii che poi alla fine sarebbe stato sempre così, che quella di quella sera era un’altra sconfitta, chiusi gli occhi, e con passo leggero mi girai.

Non c’erano più scarpe che mi stringevano i piedi, non c’erano più mani che mi prudevano.

Era il dolore, quella nuvoletta bruciante che mi teneva chiusa e costretta in una gabbia di fil di ferro.

E poi i suoni, i colori, che si stemperavano nella notte più scura.

E poi all’improvviso il silenzio, ed una voce che mi chiamava.

Emily.

Sto arrivando.

Nemmeno nei miei sogni più oscuri avevo immaginato una morte così.

Il camion che mi aveva travolto andava veloce, per fortuna, e il mio sangue, rosso, colava sull’asfalto ticchettando lentamente. Odiai il mio mondo anche negli ultimi istanti.

La gente si ricorda di te solo quando muori, perché finchè sei vivo nessuno ti ha sulla coscienza. Quando sei morto non hai nemmeno idea di quanta gente si ritrovi con un peccato sull’anima. La scelta della morte è un lusso concesso a pochi e io quella notte me lo presi con un ardore che non avevo mai avuto.

 

Ha cominciato a piovere qui. Come in ogni buon film, durante i funerali deve sempre piovere.

Nell’aria scura borbotta un temporale lontano, e sotto ad un albero di ulivo, dove il pendio su cui sorge il cimitero si impenna un po’ verso il cielo, sta eretto un ragazzo, con il volto verso il sole che ormai è solo un pallido fantasma.

Quel ragazzo stretto lì nel suo giubbotto nero troppo lungo è il mio caro amico Stephen. Almeno, lo era.

Solo che poi anche lui è finito per andarsene con la compagnia di quelli più “in”, e non usciva più con me nel parco a giocare. Anche lui era diventato un robot gelido e spietato, e aveva smesso di difendermi mentre gli altri mi prendevano in giro.

So che quella sera però, la voce che avevo sentito era la sua. Forse di questi qui, lui è l’unico ad avere la coscienza pulita.

So che la sera in cui sono morta lui è stato l’unico ad aver avuto il coraggio di alzare la voce contro Dario, e forse era stato l’atto più coraggioso che mai aveva compiuto.

Era un mio vecchio amico di infanzia e gli volevo bene, ma ero troppo impacciata e timida per poterlo ammettere. Tra di noi c’era una relazione di tenera amicizia, di ingenua amicizia, spezzata dall’arrivo al Liceo che frequentavo. Forse non me ne sono mai accorta, ma ora che posso leggerlo nel suo cuore, lui mi voleva davvero molto bene. Forse era lui che dovevo cercare,non Dario, perché il mio nome, che Stephen quella notte ha gridato con tanta insistenza, sembra rieccheggi ancora.

 

Ho sentito dire di noi adolescenti che siamo inquieti e insicuri, ma chi parla non ci conosce. Ascoltatemi tutti, ascoltatemi bene: se l’ho fatto, non è stato perché volevo ribellarmi, se l’ho fatto è stato perché non ce l’ho fatta più.

Dal mio angolino isolato ho osservato che il mondo è formato da masse, non è formato da individui. Sono le masse a muoversi, evolversi, cambiare abitudini, è sempre stato così. Chi rimane fuori dal cerchio non è in grado di procedere, è un errore nella catena evolutiva, un bug che va corretto. Questa è la legge del più forte.

Così, chi dice che siamo inquieti e insicuri, è solo un membro di quella massa di persone indifferenti e saccenti che parla senza sapere, soltanto perché ha bisogno di pulirsi la coscienza e di dormire sonni tranquilli, sapendo di non essere colpevole del marciume che ormai si vede dappertutto.

Allo psicologo non è risultato troppo difficile sostenere che soffrivo di depressione: così si è liberato.

Depressione? No, stavo proprio annegando.

Le masse mi danzavano sulla testa, si prendevano gioco di me, mi tenevano sott’acqua e mi sarebbe piaciuto liberarmi!Ciò che ho fatto è stato l’esito di una battaglia che si protraeva da un po’ e che non combatto soltanto io. No, non sono egoista.

Ne ho visti tanti con gli occhi spenti, rifiuti di un mondo troppo perfetto, gettati tra le fauci della solitudine, dell’autocommiserazione, delle lacrime e dell’odio.

Erano belli loro, bruchi che sarebbero presto diventati farfalle, ma che non avrebbero fatto in tempo a trasformarsi.

Tutte quelle persone, è triste pensarlo, sono destinate a svanire.

La cosa peggiore è che loro, per cambiare ed entrare nella massa, darebbero anima e corpo, e se mai vi riuscissero, sulla loro pelle penderebbe lo stesso marchio di persona risibile e fuori posto.

La gente è cieca, vede solo i marchi.

Non è in grado di guardare un tramonto e notare che è diverso da quello del giorno prima: è un tramonto e basta.

Così per la gente, ottusa e terrorizzata dai cambiamenti, un bruco è un bruco, e una farfalla è una farfalla. E i bruchi che diventano farfalla non esistono, se non nei film.

Io ho subito tutto ciò e ora vedo qui al mio funerale più gente di quanta ne abbia mai vista al mio compleanno.

  
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