Visto che non
ho mai pubblicato qualcosa con personaggi miei, e che qualche giorno fa mi è
capitato di scribacchiare questo… Ho deciso di provare a pubblicare. Al massimo non riceverò
nessun commento… =P
È una prova di
stile in cui lascio a voi l’immaginare nome e volto dei personaggi, e tento di
delinearne solo l’identità riferita ad un momento della loro vita. Spero
possiate apprezzare. Fatemi sapere… Commenti sempre più che graditi =P
Un abbraccio *
A te, che mi
hai insegnato qualcosa.
Breve tributo
ad un amore mai andato a segno.
Quando ero una ragazzina già m’immaginavo questa scena. È una
scena immobile nella mia immaginazione di adolescente dal cuore infranto.
Quando mi hai detto quell’unico, immobile e confuso “no”, subito ho saputo che
dovevo chiuderti la porta in faccia per sempre: avevi ferito il mio ego e preso
in giro i miei progetti, eppure questa scena ha subito preso a fluttuare dentro
di me. Mi sono già vista a spiarti nell’ombra cullando dentro di me la certezza
che non ero stata io a perderci, ma tu. Io avrei avuto la mia
splendida vita e tu, malinconico e lontano, avresti potuto godere ancora di un
mio sorriso –perdono, forse, chissà- mentre mi illuminavi con un ultimo
bagliore della tua luce. Sapevo che questa scena, un giorno, avrebbe preso
forma.
E ora sono seduta qui, accucciata nel mio sedile di velluto
rosso. Lo accarezzo sistematicamente. Scuro. Chiaro. Scuro. Chiaro.
Due anziane signore chiacchierano sommessamente, apparentemente
eccitate da questa serata per loro fuori dal comune. Io sono nervosa. Come se
tu potessi davvero sentire la mia presenza nel tuo territorio dopo tanto tempo.
E come se questo potesse essere un crimine. Eppure è
così che mi sento: una criminale. Così me ne sto nascosta dietro la testa riccia
di un signore seduto davanti a me. Tiene un braccio solido e ben stirato
intorno alle spalle di una signora vaporosa e frivola che ride con accento
straniero. Loro sono qui tanto per fare qualcosa di chic. A me il biglietto è
costato due sabati di straordinari in libreria ma sono certa che ne valga la
pena. Studierò di notte, mentre Anna, la mia coinquilina, continuerà a
rimproverarmi che “se vai avanti così ti verranno due occhiaie immense,
piccina”. Piccina, come se fossi più piccola di lei. O ingenua. O infantile.
Lasciamo perdere. Ne sarà sicuramente valsa la pena. E poi è inutile essere
così ansiosa ed agitata.
Non puoi sapere che sono qui. Non puoi saperlo, non lo saprai.
Sono entrata da sola e in silenzio, avvolta nel mio giubbotto di
jeans strappato sul gomito e una minigonna di velluto a coste che cerca di
essere leggermente consona a questo ambiente, ho legato i capelli in uno
stretto chignon, quasi che più li strizzavo nell’elastico meno tu potrai
percepire il loro colore e il loro profumo così come li hai conosciuti allora,
nelle lunghe serate passate a sfiorarli, distante, per confondermi le idee e
ferirmi di più. Non importa, quei momenti sono lontani e bruciati, nascosti da
altri momenti. Non mi fa più male pensare che tu abbia giocato con i miei
capelli e con me. Mi sento così inappropriata, probabilmente se mi vedessi
rideresti di me. Rideresti del mio passo traballante su questi tacchi che non
fanno per me, di questo trucco arrogante dedito a farmi sembrare matura e
distante, rideresti delle mie dita che fremono sulla locandina dello spettacolo
e sul velluto della poltrona. Rideresti di me.
Ma non puoi farlo, non puoi ridere, non puoi giudicarmi, non
oggi. Oggi non sono la tua amica di un tempo. Oggi sono solo una spettatrice.
Osserverò quello che sei diventato. Osserverò da lontano il tuo successo e poi,
finalmente sparirò. Sparirai.
Strano –Ironico- il modo con cui le cose sdrucciolano via
dalla nostra presa. Un tempo non sarei venuta qui come una ladra, una ladra
venuta per rapinare un po’ della tua esistenza e prendersela per se. Un tempo
sarei entrata con la testa alta, mi sarei seduta in un posto prenotato da te e
alla fine dello spettacolo sarei scesa a baciarti le guance –un fremito,
un po’ di passione, un po’ di sgomento- e saremmo andati con i tuoi nuovi amici
a bere qualcosa di chic, qualcosa da musicisti. Le mie mani sarebbero state
immobili e profumate, salde su un mazzo di fiori che ti avrei porso con
riverenza. “Complimenti, sei stato bravissimo stasera”, avrei sussurrato, come se
questa fosse stata una delle molte volte che ho potuto godere della tua
bravura. Un tempo sarebbe andata così. Sarebbe andata così se le cose fossero
andate diversamente.
E invece…
Il sipario si alza. Un brusio si accende nel teatro, e culmina in
uno scroscio di mani concitate. Io resto immobile, con le mani ancorate ai
manici della sedia come se potessi sprofondare in questo mare di rumori felici.
Resto salda nella mia posizione, litigando con la testa riccia dell’uomo chic
davanti a me. Cerco di vederti, ma sei così lontano. Lontano come, infondo, sei
sempre stato. Anche l’applauso si spegne. Qualche ritardatario da ancora un
battito, che risuona violento nell’improvviso silenzio. Come un pensiero, il
mio pensiero. Ti avvicini al microfono e gli dai un colpetto con le dita. Fa
uno suono divertente, come una pernacchia. Sorridi. Sorrido.
-Buonasera a tutti.
Mi sorprendo a ricordare ancora la tua voce, perfettamente
nonostante siano passati anni dall’ultima volta che l’ho sentita. Anni
dall’ultima nostra telefonata… Stavo sdraiata sul mio letto e tu mi bisbigliavi
nell’orecchio parole che non sono mai più stata in grado di ripetere a nessuno,
neppure a me stessa. Eppure non le ho scordate, non sono stata in grado di fare
nemmeno questo.
-Sono felicissimo di vedere in quanti siete…- La tua sincerità,
così velata ormai, rifugiata in una frase banale e scontata: dove ti ha portato
il tempo, nascosto dietro frasi già fatte. –A nome mio e di tutti noi
vorrei ringraziarvi e dirvi due parole sul concerto di questa sera…
Un altro applauso, più frammentato e docile. Sorridi.
-Il concerto di questa sera è un breve tributo a quegli amori che
non sono mai andati a segno. Alcuni pezzi sono nostri, altri invece sono di
altri famosi artisti del passato. Speriamo che possano essere tutti di vostro
gradimento. Buona serata e buon ascolto!
La luce s’abbassa; s’abbassa. Si spegne. Solo voi siete
illuminati, immobili su quel palco, cinque persone adulte con i loro strumenti
raffinati. C’è un secondo di silenzio, immobile, colmo d’attesa. Un ultimo
applauso d’incoraggiamento, denso d’aspettativa. Mi sembra quasi di poter
scorgere un bagliore di gloria percorrervi e poi, quando tutto è già tornato
immobile e inconsistente, quasi sperduto in una dimensione irreale, iniziate a suonare,
insieme, passionali e docili, prepotenti, stregati e corrotti dalle norme
musicali.
Non siete certo spettacolari, tuttavia non me ne intendo abbastanza di musica
classica da potervi giudicare, e riesco quasi a percepire l’ammirazione di chi
mi circonda nel sentirvi trasportare una folla intera attraverso i vostri amori
disfatti e mai realizzati. Poi anche i tuoi compagni tacciono. E all’improvviso
la scena è tutta tua. Riesco a vedere le tue guance arrossire appena, e per un
secondo le tue dita tentennano, tremano. Come se stessi per sfiorare la donna
della tua vita e all’ultimo ti mancasse il coraggio o la volontà per amarla
completamente- ma è solo un secondo. Ti lanci. Le tue dita ora sono coraggiosi
soldati in battaglia, e ogni sparo colpisce il bersaglio, ogni amante seduce la
sua amata, ogni bacio raggiunge le labbra dell’altro: ogni nota suona perfetta
e melodica, mi accarezza le guance e i capelli e le labbra. E ti sento accanto,
più che mai. Ti sento ovunque, mentre la tua musica gentile immobilizza il mio
cuore e il mio stomaco e si scusa, si scusa per avermi illusa, delusa, ferita.
Si scusa per non avermi amata abbastanza, per non avermi amata affatto, per
avermi amata troppo. Dagli occhi mi scivolano lacrime dolci e bollenti, che
tracciano solchi d’argento sulle mie guance. Nessuno s’era mai commosso tanto a
sentirti suonare, ne sono certa. Eppure tu, nemmeno oggi, hai occhi per vedere
la mia passione, il mio coinvolgimento, per sentirmi accanto a te anche se tu
non sai, o non puoi, starmi accanto. E continui- continuate- a suonare.
Mi trasporti su quella spiaggia pigra e bollente di sole estivo
tramontato. Mi riporti tra le onde gelate e crudeli delle nostre estati
bambine. Mi riporti alle tue mani bianche che non mi toccavano mai abbastanza.
Mi riporti alle nostre chiacchierate senza capo né coda. Alle nostre differenze
e alle nostre similitudini. Alle nostre bevute insieme, all’alcool e alle
carezze rubate alla notte. Alle telefonate in piena notte e alle confidenze
spezzate. Ai pianti, isterici e bagnati, deboli e afflitti. Ai sogni
frammentati che mi hai rubato. Al tuo sorriso, al mio sorriso. Alla nostra
infanzia, e adolescenza. Amicizia. Mi trascini tranquillamente attraverso quei
momenti che pensavo immagazzinati ormai da tempo nel mio più profondo
subconscio. E invece sono ancora lì. Le pizze. Le birre. I corteggiamenti, i
segreti, le tue cotte, le mie cotte… E poi. Poi. Poi.
La distruzione di tutto per mano mia.
Come un castello di sabbia fragile e bellissimo, che distruggi
con un solo colpo deciso, e poi smantelli con insistenza schiacciandolo con i
piedi. E anche se hai cedimenti di un secondo nel ricordare quanto è stato
bello costruirlo, quanto è stato bello viverlo, vai avanti a distruggerlo
calcio dopo calcio. Questo mi hai scritto l’ultima volta che mi hai scritto. E poi
mi hai chiesto: Perché l’hai fatto? Si può vivere senza l’amore. Ma come
farò io a vivere senza la tua amicizia?
Ci sei riuscito, hai visto? Io sono riuscita a sopravvivere senza
il tuo amore, tu senza la mia amicizia. Siamo cresciuti, maturati, diventati
gli adulti che siamo ora, gli adulti che ora suonano e ascoltano questa musica.
Chissà se stai pensando a me.
Chissà se hai più pensato a me.
Chissà se dopo quel primo, apparente, dolore, hai più davvero
sofferto come ho sofferto io. Chissà.
Forse questo tributo è un po’ anche per me. Un funerale
in ritardo per la salma di quella vita che avremmo potuto vivere insieme. Sei
tu l’assassino: buffo che sia proprio tu a celebrarlo.
Come farò io a vivere senza la tua amicizia?
Qualcosa però sono stata io ad ucciderlo. Un po’ è anche colpa
mia, della mia frivola irrazionalità, del mio romanticismo gratuito, della mia
innocenza corrotta…
Schiaffeggiami, ma finisci questo supplizio: Smetti di suonare,
ti prego.
Vorrei alzarmi ma non ne ho la forza. Mi sento ancora stesa sul
tuo letto ad occhi chiusi mentre tu ti eserciti per il tuo futuro di musicista
e mi usi come tuo unico pubblico.
Chissà se ti manco.
Mi mancherai come non mi è mai mancato nulla. Già adesso il
solo desiderio di riaverti indietro mi spezza il respiro, mi fa soffocare.
L’importante comunque è che tu sappia almeno una cosa: in qualunque momento
potrai tornare indietro. Questo non lo dimenticherai, vero? E quando penserai a
me non penserai ad una brutta persona, vero? Quando penserai a me, cerca di
pensare a qualcuno che sente la tua mancanza più che di qualunque altra cosa, e
torna da me.
Mi piacerebbe sapere se queste parole valgono ancora per te. E
proprio perché le ho imparate a memoria e sono state a volte l’unica
consolazione in notti piovose e grigie, non potrei mai venire da te e chiederti
se per te, con il senno del poi, hanno ancora un significato o no. Forse mi hai
dimenticata del tutto, sono solo un ricordo sfumato, nonostante siamo stati
così vicini, così vicini da sembrare quasi una stessa, sciocca, persona.
E poi improvvisamente, con un ultimo strascico di melodia, tutto
s’arresta. Smettete di suonare e lentamente la sala viene avvolta, nuovamente,
da un clima d’attesa. Il pubblico applaude. Voi vi portate a bordo palcoscenico
e vi inchinate. Io continuo a non muovermi. Resto ferma con il viso rigato di
lacrime e le guance rosse d’emozione. Poi la luce si riaccende e mi ritrovo
scoperta, il viso bagnato e il mio dolore in una teca di cristallo che può
essere guardato da chiunque. Mi asciugo in fretta gli occhi, mi avvolgo il
collo e quel che posso del viso nella mia grande sciarpa rosso mattone e lascio
che la folla mi inghiotta.
Finalmente aria. È gelata, entra nello strappo del giubbotto di jeans
e mi ferisce la pelle. È una tetra giornata di fine ottobre, ma la pigrizia di
vestirsi più invernale si è aggiunta alla desolazione di ammettere che l’estate
è finita e con lei il tempo glorioso dei vestiti leggeri. Attraverso la strada
e mi fermo sul marciapiede opposto. Una pioggia leggera inizia a cadere, si
blocca tra le mie ciglia come un rimasuglio di lacrime cadute. Donne dai
profumi costosi impigliati in altrettanto costosi cappotti si riversano
ovunque, a braccetto con uomini vestiti bene e ben rasati. Io non centro nulla.
Io, la mia crocchia che sta cedendo, il mio giubbotto bucato, la mia mini
troppo mini, le mie calze pesanti e i miei stivali… Non centriamo. Sono l’unica
con gli occhi ancora lucidi e le guance ancora chiazzate d’emozione.
E poi nella folla ti vedo. I tuoi occhi un tempo vibranti e
instabili si bloccano nei miei. Ora sono fermi e stabili, la risata che ti
muore sulle labbra è una risata sicura di se. Indossi una giacca elegante su
pantaloni ben stirati, ma sotto quell’aria adulta e forte percepisco ancora la
tua innocenza da bambino. I tuoi amici ti circondano e ti danno calorose pacche
sulle spalle.
-Sei stato bravissimo, stasera.- Sussurro.
Mi guardi come se il mondo si fosse immobilizzato dentro di te. E
quel tuo sguardo sottolinea il tempo che ci separa, lo spazio che ci separa.
Tutto quello che c’è tra noi –La distanza e la vicinanza. Sulle labbra ti
danza un ghigno, sei indeciso. Attraversare la strada e venire da me o voltare
la testa e fingere di non avermi vista?
È con una grande, immensa, smisurata, fatica che anche io ti
sorrido.
Sento la tentazione di tendere la mano verso di te, suggerirti di
attraversare la strada e provare a sentire l’aroma di quella vita- la nostra
vita- cui hai rinunciato.
Ma nel tuo essere così adulto, perfetto, forte, sicuro, capisco
quello che hai cercato, goffamente, di spiegarmi quando eravamo solo ragazzini
inesperti della vita.
Non potrei mai innamorarmi di te, benché lo faccia ogni volta
che i tuoi occhi accarezzano i miei. Ogni tuo sorriso ad un altro, ogni tua
idea sovversiva, ogni tuo gusto diverso, ogni tua frase spregiudicata, ogni tuo
ricordo dolorosamente crudo… mi ferirebbe sapere che non ho le armi per
difenderti da questo mondo. Fatico già abbastanza a difendere me stesso. Chiamalo
egoismo, ma amare te sarebbe sacrificare il mio mondo. Sacrificare quel me
stesso che dici di amare. Non c’è abbastanza spazio dentro di me per contenere
tutto di te, tutto quello che ti rende così fantastica, così straordinaria… Sei
al mondo la persona che preferisco. Ma ci deve essere qualcosa oltre a questo
per costruire una storia che possa durare. E io non voglio essere un trentenne
che va in chiesa la domenica mentre sua moglie a casa si prepara per andare a
manifestare, capisci? Siamo come Romeo e Giulietta. Ma le nostre famiglie,
scuole di pensiero, non ci uccideranno: ci trascineranno solo sulle due sponde
diverse di uno stesso fiume. E nessun amore può essere così forte da creare un
ponte che attraversi il fiume in piena delle tue differenze: che sono, insieme,
la cosa che io più amo e più odio di te. Di noi.
Ti vedo avanzare verso il ciglio della strada, l’argine del
nostro fiume. Ma capisco che se ti lancerai vi annegherai. Correrai verso di me
e mi bacerai. Ma ci annienteremo a vicenda e affogheremo in un amore fatto di
troppo e di troppo poco. Non voglio costruire nulla sulle macerie impolverate:
non voglio costruire nulla che dovrò essere un giorno costretta a distruggere.
Ecco, finalmente abbiamo qualcosa in comune. Siamo cresciuti. Abbiamo
rinunciato a questa cosa di noi due, che probabilmente ci avrebbe
travolti, distruggendoci. E avevi ragione allora. Si può vivere senza l’amore,
senza questo amore, ho potuto vivere. Ma avevi torto. Sei sopravvissuto anche
senza la mia amicizia. E questo mi fa sentire meno colpevole perché, al di la
di tutto, sono davvero affezionata a te e non vorrei ferirti in nessun modo.
Ti sorrido.
Mi volto.
Sparisco.
Sparisci.
Fine.